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EUTANASIA
DELL’INDUSTRIA MERIDIONALE

La solita storia, in tutti i sensi. Sul sito del «Corriere della Sera», si discute della conferenza del professor Galli della Loggia, che obietta sulla riscoperta e riproposizione dei massacri e dei furti “risorgimentali” compiuti nel Mezzogiorno e sulle vere condizioni economiche del Regno delle Due Sicilie, al momento dell’invasione.

Alcuni lettori contestano le affermazioni del professore riportando dati. Il giornalista che governa gli interventi prova a metterli in dubbio; un interlocutore, in particolare, il presidente dei Neoborbonici, Gennaro De Crescenzo, replica elencando documenti (quale archivio, scaffale, plico, busta, anno...).

Ed è qui che leggo la cosa: l’industria meridionale, sostiene il giornalista, sarebbe morta lo stesso, anche senza l’Unità. E cita un brano dell’intervista a «Reset», di un altro professore, questa volta dell’Università Bocconi, Giuseppe Berta: «Per quanto riguarda il Sud [...] non si può non considerare l’impatto che avrebbe avuto, dopo la crisi agraria, l’effetto dell’ondata migratoria. L’agricoltura meridionale avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere solo grazie al commercio di agrumi, olio e vino. Ipotizzare invece uno sviluppo industriale al Sud non sarebbe stato possibile senza il sostegno statale e le commesse pubbliche, dimostrato anche dal fatto che prima di allora non si crearono delle valide infrastrutture. Allo stesso modo esisteva il problema dei collegamenti ferroviari, se si considera che la prima ferrovia italiana aveva uno scopo puramente dimostrativo: solo per far vedere cioè che anche al Sud si poteva costruire una linea ferrata. Insomma, serviva per andare al mare. Quindi la situazione del Sud sarebbe stata più problematica rispetto a quella del Nord e anche per questo si può ipotizzare che l’impoverimento meridionale si sarebbe comunque verificato come effetto della crisi agraria degli anni Ottanta...

Il territorio del Sud sarebbe stato un territorio sottoposto a crescenti difficoltà. Le esportazioni all’epoca erano modeste e, perdurando il carattere di una economia, come quella meridionale, fondata sul latifondo e quindi non autosufficiente, questa stessa economia non sarebbe stata in grado di superare quella crisi».

E poi dicono che la perfezione non esiste: è meglio di un’antologia, non manca proprio niente, e il tutto in breve! Ecco perché riporto questo brano. Lo ripropongo, pezzo per pezzo:

1. «Per quanto riguarda il Sud… [...] non si può non considerare l’impatto che avrebbe avuto, dopo la crisi agraria, l’effetto dell’ondata migratoria.» Già, ma la crisi agraria fu indotta dalla denuncia del trattato commerciale con la Francia nel 1887, fatta dall’Italia, per favorire la nascente industria settentrionale, proteggendone le merci dalla concorrenza straniera, con l’imposizione di dazi; mentre l’industria del Sud era stata privata delle commesse e, in parte, persino distrutta manu militari. L’ondata migratoria dei meridionali, mai esistita prima, ne fu la conseguenza. Insomma, quegli eventi si verificarono in seguito al modo in cui il Meridione fu annesso al resto d’Italia: come si fa a “prevedere” che ci sarebbero stati lo stesso, senza la causa che li generò?

2. «L’agricoltura meridionale avrebbe avuto la possibilità di sopravvivere solo grazie al commercio di agrumi, olio e vino.» E ti pare niente? Il Regno delle Due Sicilie fu il primo a puntare sull’agricoltura mediterranea specializzata ad altissimo reddito: la convenienza degli agrumeti della Conca d’Oro superava quella dei frutteti alle porte di Parigi. E il commercio di quei prodotti agricoli si svolgeva quasi interamente con i Paesi più ricchi del mondo, dal Nord Europa agli Stati Uniti. L’olio pugliese e calabrese lubrificò le macchine delle industrie dell’intera Europa; e quando, nelle fabbriche, fu sostituito da quello minerale, con una geniale innovazione tecnologica, la produzione olearia venne riconvertita in alimentare e continuò ad arricchire i suoi sostenitori (pure il fratello minore di Garibaldi, Felice, fece i soldi così, con l’olio pugliese; e don Peppino acquistò Caprera con il lascito ereditato per la prematura morte del consanguineo). La possibilità di sopravvivere con agrumi, olio e vino (la Puglia ne divenne la maggiore produttrice al mondo) fu depressa dalle scelte dello Stato unitario. Quindi, l’argomento non può essere usato per buono, perché senza invasione e scelte politico-economiche penalizzanti per il Sud, quel ricco cespite non avrebbe subito i danni che ebbe! Tant’è che torna non buono, ma ottimo, ancora oggi, al Sud e in tutta Italia, se il nostro vino ha superato quello francese sui mercati mondiali e si coltivano 180 milioni di ulivi (60 milioni, solo in Puglia);

3. «Ipotizzare invece uno sviluppo industriale al Sud non sarebbe stato possibile senza il sostegno statale e le commesse pubbliche, dimostrato anche dal fatto che prima di allora non si crearono delle valide infrastrutture.» Infatti, lo sviluppo industriale del Sud aveva preso un interessante avvio, proprio con le commesse statali (nessuna industria pesante, allora e spesso pure adesso, sarebbe sopravvissuta senza l’aiuto e gli ordinativi dello Stato, considerando che si parla di ferrovie, navi...); ed ebbe il sostegno dell’Istituto di Incoraggiamento, di ideazione murattiana, ma non sconfessata dai Borbone, che anticiperà tecniche e metodi poi ricomparsi nelle scelte dell’Italia unita, per favorire però solo l’industria settentrionale, salvarla e rilanciarla. L’industria meridionale morì perché tale sostegno le fu tolto (dopo averlo avuto); quella settentrionale decollò, perché lo ottenne, a spese del Sud. Le commesse statali andarono tutte o quasi tutte ad aziende del Nord; gli appalti, pure, e se già assegnati a imprese meridionali, vennero girati a quelle settentrionali (come la costruzione della ferrovia Napoli-Bari). Pertanto, l’argomento non è valido per dire che anche senza l’Unità, l’industria del Sud sarebbe morta, visto che fu l’Unità fatta a quel modo a ucciderla, vedi le acciaierie di Mongiana, che erano le più grandi d’Italia (talvolta, per buona misura, uccisero pure gli operai che si opponevano allo scempio, mandando i militari a sparargli, come alle officine di Pietrarsa, le più grandi del tempo, per favorire lo sviluppo della Ansaldo, di cui era socio il direttore generale della prima Banca nazionale italiana. Per capire di cosa si parla: fate conto che l’attuale governatore della Banca d’Italia divenga socio di una nuova fabbrica di automobili e si mandino i carabinieri a sparare contro gli operai della Fiat, per eliminare la concorrenza).

4. «Allo stesso modo esisteva il problema dei collegamenti ferroviari...» Ancora! Questo è l’argomento principe usato per “dimostrare” l’arretratezza del Regno delle Due Sicilie che, al momento dell’Unità, aveva sviluppi viario e ferroviario modesti, rispetto a Piemonte e Lombardia. Tocca ripetersi, e me ne scuso. Con la stessa disinvoltura, si può dimostrare che la prova dell’arretratezza della Val d’Aosta (allora la più povera regione italiana; vedi l’indagine del Consiglio Nazionale delle Ricerche) sta nel fatto che la Puglia era ricca di allevatori di cozze e la Val d’Aosta no: non si può prendere quale parametro unico di sviluppo la rete ferroviaria e viaria di due regioni senza sbocco sul mare, paragonandola a quella di un Paese tutto sul mare (tranne un istmo di 190 chilometri), con migliaia di chilometri di coste, e che aveva puntato, per ragionata scelta politico-economica, sui trasporti marittimi e la cantieristica navale (esattamente come la superpotenza dell’epoca, la Gran Bretagna; che, infatti, fu infastidita dalla poderosa e veloce crescita della flotta commerciale duosiciliana, specie nell’imminenza dell’apertura del canale di Suez, che avrebbe posto il Sud d’Italia al centro del commercio mondiale). Ma se quello è il metodo, allora si può affermare che Piemonte e Lombardia erano tanto arretrate rispetto al Regno delle Due Sicilie, che non avevano flotta commerciale. Peccato che le prime potevano sviluppare trasporti solo via terra; all’altro conveniva farlo, più economicamente e in tutto il mondo, via mare (questa roba mi sa che l’ho già detta. Che faccio, la ripeto? Be’, loro continuano a dirla; prima o poi, qualcuno si stancherà. Io no).

5. «E si considera che la prima ferrovia italiana aveva uno scopo puramente dimostrativo: solo per far vedere cioè che anche al Sud si poteva costruire una linea ferrata.» Il Regno delle Due Sicilie fu il primo, in Italia, a costruire una linea ferroviaria; il che, se non vogliamo applicare pure alla lingua italiana questa nordica logica ferroviaria, significa che nessuno degli altri Stati preunitari, allora, aveva già il treno. O no? Almeno questo non si può negare. Epperò, con quell’“anche” si tenta di smentire, indirettamente, pure l’innegabile! Quindi, rimettiamo le cose a posto: persino se la costruzione della prima linea ferroviaria fosse stata “puramente dimostrativa” (e non è così), sarebbe servita a far vedere che “solo” il Sud sapeva già fare i treni e farli viaggiare. E gli altri no; o non ancora. Che c’entra “anche”?

6. «Insomma, serviva per andare al mare...» Be’, se qualcuno evitasse di andarci, anche solo un giorno, potrebbe dare una guardata in archivi aperti a tutti. Scoprirebbe, come è accaduto al professor De Crescenzo e ad altri, quante tonnellate di merci trasportavano quei treni, insieme a quasi 60.000 viaggiatori in un solo mese. E il mese era ottobre, che forse sarà balneare all’idroscalo di Milano. A Napoli e dintorni no.

7. «Quindi la situazione del Sud sarebbe stata più problematica rispetto a quella del Nord e anche per questo si può ipotizzare che l’impoverimento meridionale si sarebbe comunque verificato come effetto della crisi agraria degli anni Ottanta...» Versione corretta: Quindi la situazione del Sud fu resa più problematica rispetto a quella del Nord, dalle scelte politico-economiche post-unitarie; fra cui quella che determinò la crisi agraria degli anni Ottanta. Curioso modo di prevedere quello che si sarebbe comunque verificato, trascurando quel che si fece per farlo verificare. Come dire che tizio sarebbe caduto comunque dalle scale, tacendo che Caio ve lo spinse.

8. «Il territorio del Sud sarebbe stato un territorio sottoposto a crescenti difficoltà. Le esportazioni all’epoca erano modeste e, perdurando il carattere di una economia, come quella meridionale, fondata sul latifondo e quindi non autosufficiente, questa stessa economia non sarebbe stata in grado di superare quella crisi.» Non sapremo mai quali difficoltà avrebbe potuto incontrare l’economia del Sud, lasciata crescere o morire secondo le sue scelte e la strada intrapresa. Sappiamo quali incontrò e le vennero imposte, a mano armata, per fermarne il cammino e non ostacolare quella settentrionale. Le altre possono essere immaginate, a piacere; queste sono vere. Quanto al latifondo, esplose soprattutto dopo l’Unità, per lo scellerato patto fra nuovo potere e agrari del Sud, cui fu consentito di ampliare i propri possedimenti con l’usurpazione degli usi civici, le terre demaniali, e l’acquisizione, a prezzi scontatissimi, degl’immensi beni sottratti agli enti ecclesiastici. E l’economia meridionale era così non autosufficiente, che almeno per quanto riguarda i prodotti agricoli mediterranei ad alto reddito, ne esportava; per la ghisa e il ferro, il Regno provvedeva da sé con i suoi stabilimenti; e negli ultimi tempi aveva cominciato a importare materie prime, per trasformarle (quantitativi modesti, a volte minimi; ma tutto era piccolo ovunque, allora, in Italia, a paragone di Paesi più avanzati. E tale restò ancora per qualche decennio).

La sintesi, così, è stupefacente: l’industria meridionale sarebbe morta comunque, non poteva farcela (il che dovrebbe diminuire le responsabilità di averla uccisa: furono costretti a finirla, per non farla soffrire). Può darsi, non potremo saperlo più, ormai. Ma prevederne la morte è una ragione sufficiente per farla morire? E negarle e sottrarle le commesse pubbliche, destinandole altrove? Sfasciare gli altiforni dei più grandi stabilimenti siderurgici d’Italia e squagliarli in un altro, ma fatto nuovo più a Nord? Impedire ai cantieri navali più grandi d’Italia di continuare a fare navi e farle costruire solo a Nord? Così, è sicuro che si muore; per “eutanasia... non consenziente”. E poi: che argomento è? Tutti dobbiamo morire, non è una buona ragione perché qualcuno aspetti me e il professor Berta sotto casa e anticipi l’ineluttabile!

Persino la pluriassistita (allora come adesso) industria del Nord non ce la fece e morì (da sola!): dopo la Prima guerra mondiale l’ondata di fallimenti rischiò di cancellarla per sempre. Lo Stato intervenne e la salvò, con i soldi di tutti (non successe una volta soltanto e continua a succedere). Perché se l’industria meridionale “doveva” morire, si anticipa a fucilate l’evento e non si aspetta che defunga, invece di salvarla con i soldi pubblici; e se quella del Nord muore, la si fa risorgere, a spese di tutti?

Mi sembra che ci si rassegni troppo facilmente al triste destino altrui, di cui si è persino artefici. E sorge il sospetto che, volendo far fuori qualcuno, gli si preconizzi il peggio e gli si dia una mano, per risparmiargli l’attesa. Dimostrando, per averla realizzata, che la previsione era giusta.

Il professor Berta è altrimenti celebrato (e non a torto) per i suoi studi. In questo caso, parlando di storia del Sud, è invece approssimativo; tanto. Non è all’altezza del suo nome e dei suoi lavori. Perché? Forse, perché il Sud non merita uguale accuratezza e attenzione: trattasi di storia minore. Potremmo vederci un riverbero, sulla scala dei valori accademica, dell’idea di minorità che accompagna e condanna tutto quello che è meridionale.

P.S.: Si polemizza molto sul Regno delle Due Sicilie terza potenza industriale. No? E cos’era: quarta, quinta? Se ne discuta. L’unica cosa che non si può dire, e lo si fa, è che fosse, come tale, inesistente. Badate che sono soprattutto intellettuali meridionali a sostenerlo (è stato già autorevolmente spiegato che il Sud d’Italia è l’unica colonia creata e mantenuta tale da un potere armato e poi politico ed economico esterno e da una giustificazione ideologica interna. Insomma, i colti del popolo sottomesso, in aiuto del dominatore).

Ma credo utile, nel mio piccolo, osservare che la “potenza industriale” non è misurata dalla quantità delle merci che si fanno, ma dalla quantità delle cose che si fanno fare. La quantità di ghisa prodotta dal Sud e dal Nord d’Italia a metà Ottocento faceva ridere a confronto di quella britannica; ma la qualità e la tecnologia no. «Non esistono nemici piccoli, ma solo nemici» diceva Gianni Agnelli, perché i nemici piccoli crescono.

Se sai fare la ghisa, l’acciaio, la seta, le navi, i treni, le colture specializzate, i commerci... (e il Regno delle Due Sicilie, in diversi campi era il solo, in Italia o era stato il primo), tu sei un pericolo. Specie per la Gran Bretagna: le navi napoletane sostenevano scambi commerciali con tutto il mondo, incluso Cina e Australia. Non preoccupanti per numero, rispetto a quelle inglesi, ma in crescita. E, comunque, non è importante quante navi percorrano quella rotta, ma che quella rotta sia stata aperta. La prima che passa genera il fatto, le mille che seguono fanno numero.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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