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IL PASSATO NEMICO
E LA BELLEZZA PERSA

«Il Sud è bello» mi dice un collega appena rientrato a Milano, da un lungo giro in Campania e Calabria «sono i meridionali che lo imbruttiscono». È capitato pure a voi di pensarlo? Non ha torto, il mio collega. Perché al Sud (non solo al Sud, ma specie al Sud) sembra che si costruisca a danno di un’antica armonia, quasi con voluttà di bruttezza? E ci si accanisca, con mirata ferocia, proprio contro quel che c’è di più bello, da Napoli Antica alla Valle dei Templi, alla costa calabra, al mio mare di Taranto? Eppure, quello che distruggi è tuo, fatto così, per te, nel tempo, dai tuoi. Perché non ti piace più e sino a quel punto?

Se il passato è una storia in cui tu risulti perdente e non ti protegge, per difenderti, te ne allontani (perdonate, se lo ripeto, ma devo compensare le volte che questa cosa importante non viene detta da altri). Ricordo che terra e passato sono fatti della stessa sostanza; così, chi emigra per prendere le distanze dalla sua terra, lo fa pure dalla sua storia (non sa di portarsela appresso; non sa che quella riemergerà, magari nella nostalgia, nel sogno dei nipoti). Ma ciò che tieni lontano da te, diventa pian piano estraneo; e l’estraneo è il nemico (a questo, dice Luigi Zoja, che ha scritto La morte del prossimo, si riduce, in Occidente, «quello che nella tradizione cristiana era il prossimo»). Succede pure se estraneo diviene quello che eri tu prima, se l’estraneo sei tu di una volta: il tuo passato, di cui diventi nemico, non volendoti riconoscere in chi è come eri (sappiamo già che i più feroci leghisti sono meridionali o figli di meridionali, no?): neghi l’altro che ti somiglia, per rifiutare la tua storia, la parte di te che ha perso (prima o poi devo fare una domanda a Roberto Cota).

Questa amputazione della memoria opera diversamente su chi resta e chi va.

Chi parte, lascia quel che ha per qualcos’altro; sta facendo un cambio fra quello a cui rinuncia e quello a cui mira. È la condizione dell’emigrante, tanto più preferibile, quanto meno vale quel che lascia, rispetto a quello che raggiunge. Per rendere più facile il passaggio (doppiamente traumatico, perché prevede uno sradicamento e un trapianto, nell’anima e nella mente, nel luogo e nella gente), si tende a deprezzare quel che si perde e a valorizzare quel che si acquista. Per questo, spesso gli emigrati sono fra i più accesi denigratori delle comunità di origine: per rafforzare la ragione della propria scelta. Un atto doloroso, non sempre cosciente; a Rosy Mauro, leccese, leghista di rara violenza verbale (un brianzolo può essere leghista pacato e non sospetto; il meridionale deve urlare la conversione) tocca accettare con grato sorriso che Umberto Bossi dica di lei: «Una terrona che abbiamo civilizzato». Per tenerla accolta ma non assimilata; come i servi: vicini, ma non pari al padrone.

Bisogna credere in qualcosa che sia più grande del proprio passato e del proprio presente, per volere un futuro; sennò, resti dove sei, non emigri. Ecco perché rimpicciolisci il valore di quel che è stato e ingigantisci le attese di quel che sarà. Ma devi avere coraggio e risorse per comprarti la fuga: gli extracomunitari che arrivano qui non sono i più poveri della loro terra, perché possono versare agli scafisti il prezzo del passaggio in mare; per andare in America, milioni di meridionali dovevano aver qualcosa da vendere (l’ultimo pezzo di terra, la casa), pure per pagare le feroci tasse poste, dal soccorrevole Stato unitario che li aveva precipitati in quelle condizioni, sull’“emigrazione per miseria” (quasi esclusivamente meridionale; e con quei soldi rimborsavano le spese agli stagionali del Nord che andavano gelatai in Svizzera).

Chi non aveva nulla da vendere, né possibilità di indebitarsi, dovette restare. Ma perse lo stesso il proprio passato, ormai luogo di dolore e vergogna, per le stragi, le umiliazioni, gli stupri, gl’insulti, il saccheggio; troppo pesante, per volerlo ricordare. Così, quella parte di storia fu rimossa dalla memoria personale e collettiva (racconto altrove per quali meccanismi psicologici questo avviene). La si riscopre, dopo un secolo e mezzo, con stupore e rabbia.

La scomparsa dei padri, custodi delle regole (sterminati nella guerra al brigantaggio, in due conflitti mondiali, poi emigrati a milioni, in tre ondate generazionali: in alcune regioni si dimezzò la popolazione, rimasero quasi solo donne) stramò il tessuto sociale che governava la comunità meridionale; il che, spiegano gli antropologi, comportò un arretramento di civiltà che oggi ci viene rimproverato da chi lo produsse, e da noi stessi, dimenticandone le cause.

Ma le regole non sono soltanto quelle scritte o codificate in comportamenti, buona creanza, proverbi e tradizioni. Altre, ugualmente sedimentate in secoli e non meno profonde, condivise e forti, ci educano al senso del bello.

Non tutti hanno la stessa idea della bellezza: in alcune culture sono ritenute irresistibili donne con natiche enormi, taglie forti, cellulite a palettate; in altre (la donna è rappresentazione universale della bellezza), Eva, per essere Elena, deve avere forme più armoniose, snelle e piuttosto un etto sottopeso che sopra. Può accadere si passi, nella stessa cultura, da un canone di bellezza all’altro. In Occidente, si va dalle Veneri dilatate della preistoria (con attributi sessuali al limite del mostruoso), alla linea perfetta di quelle greche e romane; nel Rinascimento non c’è solo la sottile e biondina Primavera di Botticelli, perché nella Tempesta del Giorgione, l’enigmatica signora nuda sul prato, di primavere botticelliane, in chili, ne fa almeno due, e l’icona più vicina all’idea di bellezza, al tempo, era questa, non quella. Oggi si è tornati alle taglie strette (un po’ meno strette, nel dopoguerra).

Ma per capire come la percezione della bellezza abbia subito tale degrado, al Sud, da partorire lo scempio attuale, bisogna prima rispondere a una domanda: come si forma l’idea di “questo è bello, quello no”? Lo scoprì, ma non se ne accorse (lo racconto in Elogio dell’errore), uno dei più geniali (e meno male...) scienziati dell’Ottocento, sir Francis Galton, coetaneo di Darwin. Cercava pure lui il volto del “criminale perfetto”, come Cesare Lombroso, nostra discussa gloria nazionale. L’italiano fu più fortunato: avendo a disposizione teste di meridionali gentilmente offerte dai fratelli d’Italia scesi a liberare il Sud (dalle teste?), scoprì, in solo due mesi, che il delinquente perfetto è calabrese: nascono tarati e traviati (so’ terroni...). Parola di scienziato.

Galton, purtroppo per lui, dovette arrangiarsi: gli permisero di fotografare le teste dei criminali, non di portarsi il lavoro a casa (inglesi nemici del progresso!). E ideò un sistema per sovrapporre i volti dei malfattori su una lastra fotografica. Il ragionamento era: i tratti somatici che li identificano come delinquenti si sommeranno e appariranno in tutta chiarezza. La collezione di facce truci di sir Galton fa impressione; molto meno il risultato dei suoi esperimenti. Cos’era accaduto? Per quanti orribili volti lo scienziato sovrapponesse, quello finale era sempre più bello; e più aumentava il numero delle facce usate (storte, cupe, devastate, ferite, con cicatrici...), più ammirevole era la risultante dalla loro somma.

Galton fu molto seccato: volgari facce di farabutti osavano smentire la teoria di un lord! E non vi dedicò altro tempo. Lo fece, un secolo dopo, un bravo biologo italiano, Alessandro Cellerino, e capì cos’era sfuggito al frettoloso britannico: la percezione della bellezza da parte degli esseri umani avrebbe una “componente biologica” e sarebbero «le caratteristiche medie e regolari a risultare più piacevoli». Vuol dire che i caratteri somatici ci appaiono tanto più belli, quanto più sono diffusi, comuni (come le idee, che sembrano tanto più giuste, quanto più condivise, indipendentemente dal valore dell’idea e di chi la condivide). Mentre disturba la vista di un tale con un occhio più grande dell’altro, le braccia lunghe rispetto al corpo...

È nella natura umana (questo scoprì e dimostrò Cellerino) considerare bello, giusto, quel che è nella regola, nella media. E questa regolarità, questa media, si ottiene con la somma di tutte le eccezioni possibili (la parte che hanno in comune risulta “bella”, quella che se ne discosta, in ogni senso “eccentrica”, no). Siamo biologicamente portati a vedere brutto ciò che è “estraneo”, fuori norma o non vi è ancora entrato o vi è uscito (meccanismo analogo a quello che ci fa considerare pericoloso il forestiero, perché “non è dei nostri”; poi, magari, sposa la cugina di nostra cognata e...). Una volta divenuti comuni, nelle donne della tribù, i tatuaggi su tutto il corpo, la candida pelle di Marylin Monroe fa schifo.

Più il brutto diventa consueto, meno è brutto; più si moltiplicano gli scempi edilizi, meno sono visti come scempi: paradossalmente, quando c’è troppo di brutto, la bruttezza non si vede; ci si abitua, mutano i canoni estetici condivisi (più conosci “l’altro”, meno quello è “l’altro”).

Così, ogni popolazione costruisce, inconsapevolmente, la propria idea di bellezza, influenzata da quel che più conviene (dai tetti molto spioventi delle Alpi scivola meglio la neve; quelli a dorso d’asino, in Puglia, favoriscono la raccolta dell’acqua piovana).

La bellezza non esiste in natura; è negli occhi e nella mente di chi guarda: in ogni comunità, il senso estetico evolve con la storia, come i rapporti sociali, le leggi, i costumi, le consuetudini. E non potrebbe essere diversamente: il giusto e il gusto viaggiano sugli stessi binari (a voi piacciono i labbroni inferiori dilatati da piastre che rendono irresistibili le donne di una certa tribù per i loro uomini? O quelle che allungano il collo con cerchi metallici sovrapposti? E qualcuno fra noi ha in casa un figlio con i capelli rasati, meno la cresta centrale blu elettrico).

Parlando di case, città e paesaggi, certi volumi, linee, rapporti, distanze, colori appaiono “giusti”, altri “disturbano”. Quell’insieme di equilibri e squilibri fotografa la storia del luogo e il senso estetico dei suoi abitanti. Può capitare che un disastro distrugga tutto, ma se quell’umana tessitura di norme, gusto e memoria resta intatta, nulla si perde: Brema bombardata è ricostruita uguale; il Friuli terremotato risorge com’era.

Una comunità perde la sua idea di bellezza, quando smarrisce le regole: dalle leggi alle “buone” abitudini, dalle tradizioni ai canoni estetici. Quando le norme saltano o si deteriorano, saltano o si deteriorano tutte allo stesso modo e tutte insieme, perché nate dalla stessa radice culturale, storica, etnica. Insomma, quando qualcosa va male, tutto va male (non volete crederci? Fidatevi di Murphy: questa è una delle sue “leggi”). Messina, dopo il sisma del 1783, non vide la sua comunità dissolta, nonostante la tragedia, e rifiorì con la superba “Palazzata” sul mare, unica al mondo. Dopo quello del 1908, lo spirito della città si perse per la strage dei nativi e l’arrivo di un preponderante numero di immigrati da ogni parte d’Italia. Nella confusione dei gusti, Messina rinacque confusa e brutta: si perse. (Poi lo spiego meglio.)

Il Sud era rassicurato dalla sua unità territoriale da oltre sette secoli, pur nella turbolenza dei rivolgimenti politici e sociali dell’intera Europa. Persino i conflitti fra cafoni e possidenti erano parte del panorama, specie dall’ultimo scorcio del Settecento, sino all’invasione sabauda che, in cambio di appoggio politico contro il popolo “brigante”, permise a latifondisti e usurpatori di terre comuni, di estendere poteri e poderi. L’ultima fase di quella guerra contadina, diversamente combattuta (non più brigantesca, ma politico-sindacale), durò sino a dopo la Seconda guerra mondiale.

Quando si parla di Risorgimento, si trascura di considerare che fu una guerra e che ci fu chi la vinse e chi la perse. E quando il Sud perse, perse tutto insieme: terra, regno, beni razziati dai nuovi venuti, rispetto per la propria storia (ancor oggi taciuta o narrata come vergognosa), fiducia nel futuro; vide se stesso con altri occhi. Si vide brutto (capita, agli sconfitti): tutto quello che era suo non aveva retto alla prova; quello che giudicava intangibile era stato profanato; i padroni (pur odiati), per continuare a essere padroni, rinnegarono il vecchio ordine, agirono contro la loro gente, per conto terzi e conto proprio (è «il tradimento dell’élite», di cui parla Maurizio Viroli in La libertà dei servi) e dovettero sottomettersi a un padrone estraneo: l’intera scala sociale del mondo meridionale scese di un gradino; e sul più alto apparve un forestiero che si diceva fratello e ti trattava da servo.

Tutto perse valore: la capacità dei padri di essere la soluzione dei problemi della famiglia e di rappresentarla nella comunità (è la loro funzione sociale); la capacità delle donne di incarnare l’onore (divennero preda del vincitore, poi l’assenza dei maschi di casa comportò un allentamento dei costumi); la capacità del proprio paese di provvedere ai bisogni. La ragione per cui gli uomini decidono di stare insieme si indebolì. Dovettero cercarla in altro o altrove; o in altro, altrove.

E brutta apparve ai meridionali ogni cosa che avesse a che fare con la loro sconfitta (ma accadde che quelle norme e quei comportamenti rifiorissero oltremare, come se a perdere fosse stata la terra di partenza, non la civiltà insediatavi; non la storia, ma la geografia).

E bello apparve quello che apparteneva al vincitore.

Per i paesi del Sud, ero ragazzo, passavano presunti rigattieri e veri antiquari, a scambiare tavoli di moderna fòrmica con quelli di noce durati di mamma in figlia, roba vecchia.

La stessa cosa è avvenuta con il gusto estetico: non arricchito dall’incontro con altre sensibilità, ma sostituito da un’idea di bellezza mal copiata, non capìta e fatta propria a forza; come la storia di cui siamo comunque divenuti partecipi, ma partendo dall’assenza della nostra, da un “prima” vuoto. Ne deriva un futuro estraneo, in cui si è ospiti malaccetti, mentre avrebbe potuto essere la casa comune, se ognuno avesse potuto portarvi qualcosa di suo (scambio, non imposizione a mano armata).

Il Sud era terra di bianche case a riva, o su un gradone rosa, rosso, grigiastro di roccia calcarea (Polignano a Mare, Otranto, Cefalù, Pizzo, Amalfi...); il mare è una striscia azzurra sotto, il cielo celeste sopra; in mezzo, a volte, il verde degli ulivi o della macchia mediterranea. La Calabria difetta di bianco edilizio: non calcinò le case al mare, forse perché meno toccata dalla cultura moresca (nonostante diversi insediamenti islamici, quali l’emirato di Amantea, Castel Saraceno, Altomonte, il cui primo nome arabo era Bracallà: “Dio lo vuole”) che dettò i colori alla Sicilia, alla Puglia.

Non so stimare quanto del degrado estetico si debba alle violenze della storia recente, né vorrei farmi influenzare troppo dall’osservazione di quel mio lettore («Tante volte, andando in Meridione e in Sicilia, mi sono chiesto come mai tutto ciò che è bello risale a prima dell’Unità d’Italia, e ciò che è brutto a dopo»), ma una deturpante architettura dell’incompiuto o malcompiuto ha infranto l’identità di volumi e colori del Sud e lo ha reso più uniforme nel brutto. Dopo il sorprendente (pure per lui) successo di Benvenuti al Sud, chiesi a Claudio Bisio come avesse scoperto il Mezzogiorno; nel modo migliore, beato lui: con la Cinquecento, una tenda e una bella ragazza. Gli piacque tutto (del Sud, intendo...). «Una cosa, però, mi incuriosì», rispose (e forse lo disturbò): «i tanti edifici incompiuti, magari abitati, ma non intonacati, con i pilastri vuoti dei piani superiori. È ancora così?»

Meno, ma sì. Le case si costruivano a rate, con l’arrivo delle rimesse degli emigrati. E nascevano già dirute, senza rifiniture, con muri nudi, pilastri di cemento armato che sovrastavano il piano inferiore, già terminato; tondini di ferro emergenti che ricadevano larghi, come fiori secchi; a volte balconi senza ringhiere, finestre senza infissi, portoni ciechi. Le case parlano, dicono dei possessori (ricchezza, educazione, gusti). Quell’edilizia era una corsa in massa all’essenziale: quattro muri non vestiti, ma fondamenta profonde (quanto le speranze di crescita), per alzare un altro piano e un altro ancora, domani che i figli si sposano: dalla casa al palazzo, con l’idea del castello (dentro, solo “i nostri”). Quanto più presto si elevava la costruzione, per riempirsi di famiglia allargata a fratelli e cognati, tanto più abbondante la fortuna dell’emigrato che mandava i soldi per la fabbrica: chiunque poteva valutarne il flusso, dalle file di mattoni alzate.

Case rimaste a un piano e pilastri inutilmente al cielo erano pubblica umiliazione di chi progettò oltre le sue forze; mentre l’insospettata ampiezza di mezzi ed edifici malignava di soldi facili.

Ma all’approssimazione esteriore non corrispondono interni altrettanto miseri. Anzi.

Una lunga storia di razzie ha educato i meridionali a sottacere il benessere, non attirare l’altrui avidità e l’invidia (“a ’mmidje”, “u picciu”). Se entri in quelle case che paiono sorte già in rovina, scopri, a volte, piccole regge; da mostrare all’ospite che può varcar la soglia non sospetto. È come la bellezza delle donne celata dal chador.

Ma quell’orgia edilizia sbagliò i conti. Mi ricorda il marinaio che conobbi in una piccola isola greca dello Jonio: aveva inseguito il riscatto sociale tutta la vita, consumata su navi e mari di tutto il mondo. Ma quando, vecchio e malmesso, si insediò nella villa sul luogo più alto e ambito dell’isola, non era rimasto quasi nessuno: tutti via, compreso i suoi figli, in Inghilterra e Stati Uniti. Finalmente re, ma di un regno vuoto. Rammento il tono risentito, rancoroso con cui mi narrava la sua storia, e l’odio per l’isola che lo aveva tradito.

Troppo spesso, quelle case che hanno dilatato le brutte periferie del Sud e svuotato i centri storici si sono rivelate superflue: i figli non si sposano, e se sì, altrove; troppi vani, poca gente. Lavori per la casa al paese; poi hai casa, ma il lavoro resta fuori; e uno va dove lo trova. La mia città, Taranto, contava 250.000 abitanti, quando la lasciai, primi anni Settanta. È scesa a 190.000. «Le case sono vuote, in vendita, nessuno le compra» mi dice Angelo, fraterno amico, metalmeccanico in pensione che ha vissuto l’epopea dell’industria jonica: a quattordici anni già nei cantieri navali, poi all’Italsider. «Nel mio palazzo siamo tutti vecchi. E cominciano ad andarsene pure loro: che ci fanno qui? I figli stanno a Milano, a Roma. E li raggiungono. Io e Anna restiamo. Non abbiamo figli.»

Dopo la presentazione di Terroni a San Giovanni in Fiore, in Sila, l’assessore Giovanni Iaquinta, mi chiede che me ne pare, del paese. Brutto. «Già...» consente amaro. La moltiplicazione dei vani e degli usci avvenne con “le case degli svizzeri”, quando la gente si spostò in massa da queste montagne a quelle alpine (prima in Belgio; e ne morirono nelle miniere a Marcinelle). L’abbandono del centro storico (da dove si partì, poveri) e la costruzione di una casa moderna più in là, confermavano a se stessi e agli altri la conquista del benessere. Tutti insieme, ma ognuno a modo e gusto suo. Risultato: come in molti altri informi abitati, se non leggi il cartello, non sapresti dove sei; per scoprirlo, devi scendere all’abbazia di fra Gioacchino da Fiore, il visionario.

«Siamo 18.000 e 200» dice Iaquinta «e abbiamo vani per 200.000.»

Quell’edilizia senz’anima né pregio ha conquistato pure il mare (complice la disordinata corsa al turismo di seconde case e quindici giorni d’agosto): una muraglia di indegne palazzine sbarra le coste meridionali per centinaia di chilometri. È qualcosa di più della speculazione spicciola, diffusa, proterva; è una sorta di estraneità alla propria terra, per cui non ci si sente toccati, diminuiti dagli insulti che le vengono inflitti. Si dovesse sintetizzarlo in una frase, sarebbe: «Non è più mia, la uso». La si ascolta nel dialogo intercettato fra due mafiosi calabresi, circa il progettato affondamento, dinanzi alle coste della loro regione, di una nave di rifiuti tossici. «E il mare? Che ne sarà del mare della zona, se l’ammorbiamo?» obietta uno. «Ma sai quanto ce ne fottiamo del mare? Pensa ai soldi, che il mare, con quelli, andiamo a trovarcelo da un’altra parte» replica l’altro (la ’ndrangheta è la mafia più internazionale per investimenti e campo d’azione, ma la più arcaica per radicamento territoriale, tanto che le fonti del suo potere sono ancora a Platì, San Luca, Gioia Tauro, Santuario di Polsi. Eppure...).

La terra che avveleni non è più casa tua; e non è quella che pensi di lasciare ai figli.

Un filo si è spezzato, quello che lega, nello stesso luogo, il tuo passato e il tuo futuro: il primo dimenticato, l’altro visto ormai altrove. E quel posto a perdere si può ridurlo a discarica dei veleni del presente e anche della propria storia.

Con la Campania, la Calabria è la regione che più di tutte, al Sud, maltratta il suo territorio: 5.210 abusi edilizi per 700 chilometri di coste, uno ogni 135 metri. Si potrebbero scorgere significati profondi, oltre l’ovvietà di una economia di rapina.

La prima dea del Mediterraneo fu la Grande Madreterra. Angelo Manna (fertilissimo scrittore e giornalista napoletano) dedicò molto studio all’argomento. E seppe divulgare con efficacia l’ipotesi che la famosissima, imponente statua in pietra ritrovata nella Locride, nel 1905 e ora in Germania, non sia dedicata alla dea greca Persefone, ma alla protettrice dei primi abitatori della Calabria meridionale. Genti italiche, ché quella montuosa sella fra Jonio e Tirreno fu il primo luogo a chiamarsi Italia. Sull’origine del nome sono state suggerite diverse ipotesi. Manna (Quando l’Italia era solo il Sud), sulla scorta delle ricerche di storiografi, mitologi, filologi, glottologi, archeologi, etnologi, numismatici e storici delle religioni, ne propone una di tal fascino e semplicità, che stupisce non se ne sia valutata prima la fondatezza: “Itha”, “Ita”, “Ido”, “Ida” sono radicali «non già preellenici, ma preariani», diffusissimi nel Mediterraneo, rammenta Manna. Si chiamano Ida la montagna presso Troia e quella dell’isola di Creta ove Zeus fu allevato dalla capra Amaltea, di nascosto dal padre Crono; Italia era il nome di una figlia di Temistocle e di una figlia di un re cretese (come l’eroe Idomeneo); e Itanos, Itanon, Ithome, Ithoria, Idalios, Idarna, Ide, Idomene si chiamavano isole, promontori, città e rilievi mediterranei, cui aggiungere l’Ithaca di Odisseo e le isole Itacesiae che erano dinanzi a Vibo Valentia, poi unite alla terraferma. Quel radicale significa: “montagna boscosa”.

Quindi la statua della Locride, riassume Manna, raffigurerebbe la «Grande Madre delle Selve dei monti e dei cicli vitali», il cui nome era: Idalia, Italia; lo stesso, «storicamente parlando [...] della più antica comunità della penisola italiana». Una dea venerata già da mille, mille e trecento anni quando, tremila anni fa scarsi, i Greci arrivarono in Calabria. A lei erano dedicati moltissimi templi (andati persi) sulle vette. Un nuovo potere sopravvenne, altri dei prevalsero; e Italia, come sempre per le divinità sconfitte, passò a governare il sottosuolo, dea dell’oltretomba (a regnare sul passato, la vita che fu, se spodestata dal presente): divenne Persefone, signora della Morte, lei che lo era stata della Vita (il che potrebbe spiegare il suo sorriso, appena un’ombra, più misterioso e vago di quello della Gioconda. Tanto che è detta Persefone Gaia, a suggerire, forse, l’incongruenza fra sorriso e morte).

Così antico il legame di questa gente con la terra, e tanto forte, che mai nessuno era andato via. Finché gli uomini avvertono se stessi e la propria terra vittime della stessa violenza, il legame non si spezza, forse persino si rinsalda. Perché si produca lo strappo definitivo, deve accadere altro, la gente deve sentirsi tradita dalla terra e dal passato; dai suoi dei e dai suoi re; dalla sua storia, dall’idea di poter costruire futuro insieme, nello stesso posto. E da padri di inadatta sapienza a proseguire il cammino: è allora che li rinneghi e te ne vai, pensando di non tornare.

Per chi cerca la vita altrove, quello che lascia, è già un cimitero. Che si può riempire di veleni, macerie: la terra dei morti è terra morta, non le si fa ulteriore danno versandovi scarti di un meglio forestiero. Accade quando la terra appare, a chi ci vive, fosse pure da millenni, esausta come la sua storia.

C’è una vicenda terribile e affascinante che lo narra in modo esemplare. Per duemila degli ultimi quattromila anni, nel Mezzogiorno fiorì, in maniera non continuativa, una ricchissima civiltà rupestre: intere “città” scavate nella roccia, lungo le pareti delle gravine, i burroni che si aprono, per chilometri, a crepare la Murgia. L’area in cui si sviluppò questa cultura va dal Salento, valle della Memoria (che vi dicevo?...), nel Brindisino, sino alla Lucania (i Sassi di Matera ne sono la parte più settentrionale), e zone più ridotte in Calabria e Sicilia. Il cuore è nel Tarantino, nelle gravine di Massafra, Crispiano, Ginosa, Laterza (la più profonda, oltre 200 metri, larga 400, per 12 chilometri) e altre. Caduto l’impero romano, la gente del luogo tornò a vivere in grotte scavate nella friabile roccia tufacea di questi burroni, ricavandone “palazzi” a più piani, non costruendo, ma asportando. Non si trattava di cavernicoli, ma di popolazioni colte, civili, guidate da monaci di rito bizantino, cui si aggiunsero quelli in fuga dall’impero d’Oriente, per il furore delle persecuzioni iconoclaste (il divieto di raffigurare la divinità), e poi dalla Sicilia e dalla Calabria, per le incursioni saracene.

Erano comunità relativamente floride e per molti versi autonome. In una regione arida come la Puglia, sapevano sfruttare la permeabilità degli strati di roccia sovrapposti, in modo che nelle cavità percolassero, dopo mesi, le piogge dell’inverno (quando le visitai per la mia inchiesta giornalistica, durava siccità da tre anni, ma nelle vasche delle grotte, l’acqua c’era); l’umidità raccolta lungo pareti e fondo degli orridi (a volte percorsi da deboli rii che possono divenire rovinosi torrenti con le precipitazioni) sostiene una ricca macchia mediterranea e consente colture specializzate. Nelle grandi turbolenze dei secoli dopo la fine dell’ordine garantito da Roma, per sfuggire alle razzie di barbari invasori, quelle città si resero invisibili, nonostante chiese e basiliche a tre navate, grandi farmacie con i prodotti della conoscenza dei monaci, frantoi... Quasi tutto meravigliosamente affrescato, in stile basiliano, con immagini i cui colori e perfezione ieratica han resistito sino a oggi.

Quelle comunità avevano rito ortodosso, monachesimo orientale, parlavano greco, produssero cultura, coltivarono un’economia certo non misera, a giudicare dalla ricchezza cromatica con cui furono adornati gli antri (i colori costavano tanto, specie alcuni, come l’azzurro). Nella rovina di un equilibrio che aveva retto il mondo per un millennio, ne trovarono un altro recuperando parte del loro passato: si “incastellarono” (protessero) scendendo nei luoghi bassi della terra.

Finché vennero i Normanni, che si fortificavano in alto, sostenevano il monachesimo benedettino e una comunicazione pittorica religiosa non codificata come la basiliana; ed esercitavano un potere centralizzato che aveva nel latino la sua lingua, a proporsi eredi del disfatto impero d’Occidente.

Tutto quello che la popolazione rupestre sapeva, faceva ed era, non ebbe più valore. La sua lingua divenne inutile: ogni atto nei confronti del nuovo potere doveva essere in latino, così quelli notarili di compravendita di beni, terre (ne sono stati recuperati diversi), consentendo raggiri per ignoranza; la mediazione con i potenti della terra e del cielo non fu più garantita da monaci basiliani, ma benedettini. Persino le parole con l’Eterno erano in altra lingua e liturgia; in abbazie, per raggiungere le quali bisognava uscire allo scoperto, risalire le gravine. Dio era lo stesso, ma la via per giungere a lui non era più la tua.

Non si hanno notizie che quel contrasto culturale sia sfociato in scontro armato; anzi, tutto depone per il contrario. Grazie a indagini condotte con la fotografia aerea, vennero alla luce, presso Mottola, i resti di un grande centro rupestre; forse il più importante, la capitale di quella civiltà. Non se ne sapeva nulla. Nessun segnale di aggressione o sciagura ne spiega l’abbandono. Si ipotizzò che gli stessi abitanti abbiano condannato l’insediamento, abbandonandolo, forse distruggendolo e depredandolo, per trasferirsi altrove, stremati dalla condizione in cui li aveva posti l’improvvisa inutilità della loro cultura. Nemmeno il nome si è salvato della perduta capitale; solo in quello della contrada si può intravvedere una traccia del suo destino: Casalrotto. La civiltà dei luoghi bassi perse e fu rinnegata. Un cronista medievale, Lupo Protospatario, nel 1023 ne annotò la fine, con sintesi chirurgica: «Fabricatum est castellum Mutulae»; e Mottola eresse le sue difese sulla collina più elevata della zona, da cui dominare la piana sino al mare e la Murgia verso l’interno. Documenti tardivi, nel Medioevo, testimoniano l’estinzione di Casalrotto, ridotta a pochissimi abitanti.

Ci sono voluti quasi mille anni, perché qualcuno riscoprisse il valore di quella storia rifiutata. Si devono a don Cosimo Damiano Fonseca (massafrese, accademico dei Lincei, docente all’Università di Lecce, fondatore di quella della Basilicata, a Potenza) studio e iniziative per salvare tale immenso patrimonio; fu lui a dargli un nome: civiltà rupestre.

Non ovunque le cose andarono così: il professor Pietro Dalena (scoprì una parte di Casalrotto), ordinario di Storia medievale all’università cosentina di Arcavacata (ma è nato a Mottola, abita a Massafra, è stato allievo di Cosimo Damiano Fonseca e collabora, con lui, al Consiglio Nazionale delle Ricerche), ha spiegato nei suoi libri, Medioevo rupestre. Strutture insediative nella Calabria settentrionale e Da Matera a Casalrotto, quanto il fenomeno rupestre fosse esteso anche nelle due regioni vicine; e racconta che nel ducato normanno di Puglia e Calabria, ma specie in questa, le comunità grecaniche riuscirono a conservare lingua e liturgia, però integrate nella gerarchia cattolica romana e non più bizantina (la comunità di Rossano si sollevò, nel 1092, quando vollero imporle un presule latino; ne pretesero uno greco, ma accettarono di versare a Roma i tributi previsti). Ancora oggi è così: rito greco, obbedienza latina, pure nell’ultramillenaria abbazia fortificata di San Nilo, che era calabrese, alle porte di Roma, a Grottaferrata.

E le basiliche affrescate, le “città” scavate nelle gravine? Sotto quelle erette in alto: quasi ogni casa, a Massafra e non solo, prosegue sottoterra, dove, ridotte a cantine, depositi, buttatoi, esistono, celati al mondo, gli ambienti di una cultura sconfitta e abbandonata. E hai basiliche trasformate in ovili, pareti dipinte rovinate dai fuochi dei pastori, dagli escrementi delle greggi, dalle picconate negli occhi dei santi, inferte da superstiziosi allevatori; mani di calce, per secoli, sull’arte finissima di grandi e anonimi pittori; sfregi, solo per ingannare il tempo, da ragazzini per gioco o da materiali e macchinari malstivati in templi divenuti depositi. Dinanzi a quelle immagini di santi ci si inginocchiava; poi, uomini e animali vi hanno deposto i propri escrementi.

Perduto il valore del percorso umano che aveva generato quei capolavori, svanì la sensibilità alla bellezza che produsse; e la si distrugge, ignorando che è la propria radice, l’identità nascosta. Quel sontuoso passato è, in ogni senso, messo sotto i piedi, disconosciuto e offeso. Lessi, molti anni fa, che quando i Greci vennero a colonizzare le nostre coste meridionali, a Metaponto, sul Bradano, costruirono i templi (poi detti Tavole Palatine perché, secondo una tarda leggenda, vi si riunivano i paladini di Carlomagno), avendo cura di non disturbare l’ordine dei ruderi degli edifici sacri eretti, secoli prima, dai pionieri della colonizzazione protostorica, essenzialmente micenea (al padre Laerte, prima di rivelarsi, Odisseo dice di essere signore di Alibante: Metaponto). A riprova del rispetto per quella cultura di cui si sentivano partecipi, pur se ormai estinta su quelle terre, e per i loro dei, ancora imperanti. Mentre, dopo la caduta di Roma, «in certe zone dell’impero d’Oriente alcuni templi pagani furono oggetto di distruzione violenta da parte di fanatici cristiani. Ci furono persino casi in cui le stesse autorità imperiali furono conniventi e alcuni vescovi se ne fecero promotori» riferisce il professor Dalena. «Nel Medioevo, invece, spesso le statue romane venivano riutilizzate per la realizzazione della calce»: il loro tempo era giunto alla fine, portandosi via gli dei e un intero mondo.

E non è questo, quanto descritto da Luigi Zoja, a proposito della fine della civiltà messicana? Perdi la tua, la senti nemica e la distruggi in te e intorno a te; vivi in quella di un altro, da perdente, e ti adatti al ruolo, confermandolo con comportamenti che ti rendono “meno”. Sino a convincerti di esserlo. Sono in tale condizione popoli strappati dal proprio passato da molti secoli, e non da solo 150 anni, com’è accaduto ai meridionali.

La distruzione identitaria che, in tutto il Sud, il Risorgimento produsse con violenza, nel corso di molti anni, a Messina si ebbe da un giorno all’altro, con il sisma del 1908. La città era industre, fiera, con il gusto del collezionismo d’arte (tipico di ricchi centri commerciali) e un carattere estetico riconoscibile: la “Palazzata” identificava Messina, come il Colosseo Roma. Ma non furono terremoto e maremoto a disperdere quel carattere: a ripopolare la città furono pochi superstiti e tanti forestieri giunti dal resto dell’isola e d’Italia, dal Nord, sino alla «confusione babelica dei più svariati dialetti». Si operò con sciatteria, «in una ricostruzione edile “pacchiana, impersonale e quasi ‘coloniale’”», rammenta Andrea Giovanni Noto, in Messina 1908, citando, a sua volta, uno studio su La più recente e più meridionale conurbazione italiana. «Se i superstiti guardavano al passato e tentavano di legare alla nuova realtà quel patrimonio di conoscenze e tradizioni che avrebbero voluto trasmettere alle nuove generazioni, queste, invece, sentendosi slegate da ogni memoria ed estranee da qualsiasi tradizione vivevano “l’avventura della creazione del mondo o di dopo il diluvio”.»

Alle osservazioni di Noto, bisogna aggiungere che, negli eredi dei sopravvissuti, scattò quel meccanismo di rimozione della memoria che salva da dolori troppo grandi. Cos’era stata Messina fu dimenticato, per poterne fare un’altra; e la fecero pochi messinesi immemori e molti estranei, ognuno con la sua tradizione, un suo dialetto e la propria idea di bellezza; senza il tempo per fondere stili, colori e volumi in un nuovo ordine, nella fretta di costruire, comunque e ovunque, per necessità e interesse immediati. Ancora oggi, quell’irruenza senza disegno e ritegno è il (non) carattere della città.

La vicenda di Messina è quella del Sud, con tempi diversi e contratti, ma stesso punto d’arrivo: dimenticanza di sé, parodia dell’altro.

Prevalgono, così, dissonanti con il clima mediterraneo, architettura, urbanistica e arredamento che «sono originariamente, e spesso anche essenzialmente, legati all’ambiente nordico» scrive Eglo Benincasa, in L’arte di abitare nel Mezzogiorno. «A cominciare da quel predominio dei vuoti sul pieno, cioè delle finestre sui muri [...] che da noi, dove il Sole non è una dea benigna [...] ma un dio furioso e incombente, sono assolutamente fuori posto. Delle finestre così invadenti da noi possono solo servire a riempire la casa di piombo fuso in estate.»

In millenni, il meridionale aveva imparato che a queste latitudini è sano abitare fra muri larghi, magari di pietra e paglia (come i trulli), disinfettati dalla calce e interrotti da poche aperture. Spogliarsi non è una difesa, a certe temperature: nel deserto, ci si veste di lana.

Il Mezzogiorno teme la corruzione dello scirocco, vento asfissiante e lurido di sud-est, che risveglia le paure dei pazzi, i pensieri più vergognosi. Le vecchie case del Sud, nonostante i muri spessi e chiusi, avevano a volte un ambiente interno, privo di finestre e spifferi: la camera dello scirocco, in cui rifugiarsi se alitava il fiato laido d’Oriente. Una difesa che diventava imperativa nel primo pomeriggio, quando Scirocco libera il suo spirito più temuto e potente: il Demone della Controra, epifania satanica responsabile delle più infami, inconfessate turpitudini, non di rado (considerate l’ora e la condizione) consumate in famiglia.

Oggi, le case dei meridionali hanno perso sapienza; si ergono indifese, con muri di foratino di cinque centimetri e grandi vetrate su cui il Demone può affacciarsi. A Bagnara Calabra mi mostrano una sintesi di questa virata culturale: la demolizione di un’antica casa protesa sul mare, sostituita da un informe parallelepipedo: «C’era la camera dello scirocco...» borbotta il mio accompagnatore. E credo non ci sia modo migliore per far intendere la corruttiva potenza dell’aria di sud-est: Bagnara è esposta ai venti del nord e dell’ovest; fra le sue case e il soffio d’Oriente si ergono, a difesa, i bastioni d’Aspromonte! Eppure...

«La classica casa mediterranea non si affaccia sulla strada, a cui piuttosto volge le spalle» scrive Benincasa «ma sull’atrio, sul cortile, sul patio, insomma su uno spazio coperto interno.» Anche se «il meridionale ama vivere abitualmente all’aperto; ma all’aperto riparato dal sole d’estate e dal vento d’inverno. Al semi-aperto potremmo dire, per intenderci. Il simbolo architettonico più significativo della civiltà mediterranea è il portico [...]. Perfino il tempio, la chiesa degli antichi, non è altro che un porticato intorno a una celletta».

Una cultura si svela e riconosce dal modo di abitare. «La civiltà è una questione di spazio» dice Benincasa. E dell’organizzazione che a quello spazio si dà. Uno spazio con delle regole. Il Sud, perdute le sue regole di spazio comune, si espone in uno sregolato: ognuno lo occupa, disegna e sfregia a proprio (dis)gusto. E chi più può, più lo fa, per una dovizia di mezzi che moltiplica disordine. Così, chi per scialo, chi per miseria, si produce un paesaggio urbanizzato che non ha più senso proprio, né quello altrui che tenta di tradurre.

Per esempio, l’idea di una separazione fra quartieri alti e bassi era quasi ovunque estranea al Sud: nei più degradati angoli di Napoli antica, dei centri storici meridionali, trovate palazzi fastosi, nobiliari, fra casamenti popolari e botteghe artigiane, mercatini; la reggia di Portici non è stata costruita con il vuoto intorno (come Versailles, per capirci), ma fra le case, perché quello era il modo di abitare, persino del sovrano (e le regge di Caserta, Capodimonte e Largo di Palazzo, oggi piazza Plebiscito, non hanno mai avuto mura di recinzione, direttamente accessibili da parte di chiunque). Mi raccontava Pasquale Squitieri che, quando andò a Torino a girare un film sulla vita di meridionali “emigrati alla Fiat”, la cosa che più lo offese furono le case: gliele avevano costruite fuori città, per tenerli discosti.

Il Sud distrugge le sue linee, i suoi volumi, la sua concezione del bello e insegue quello che non è suo e non riesce a far suo o ad armonizzare con quel che c’era. Nel Mezzogiorno, più che altrove, vale la descrizione del «grande malato d’Italia», fatta da Salvatore Settis, in Paesaggio Costituzione cemento: «coste luminose e verdissime colline divorate da case incongrue e “palazzi” senz’anima [...]. Villaggi che per secoli avevano saputo crescere conservando l’impronta di una cultura dell’abitare tanto più nobile quanto più povera sono sempre più spesso assediati da nuovi, anonimi quartieri». Di quel modo di abitare estraneo, il Sud scopiazza la forma e non afferra la sostanza, figlia di altri climi e altra storia, vista, però, come vincente.

Anche Stoccolma, come altre città nel mondo, per diventare “moderna”, negli anni Sessanta, Settanta del Novecento, ha barattato il suo ordine per un altro (palazzoni vetro-cemento e World Trade Center); ma per scelta consapevole. Le due, tre isole su quattordici rimaste indenni, ci raccontano la capitale nordica quando era se stessa, prima che un gusto globalizzato si imponesse lì, come a Tokyo o a Dubai.

Nel nostro Sud, la mutazione risultò da un ordine infranto con la forza: nata da un incontro, ma per stupro. «Amore, padre di Bellezza» rammenta Benincasa, in altro contesto «è figlio di Povertà, di Penia (e di Poros, che corrisponde al nostro Arrangiarsi).» E, mancando amore, niente bellezza. Se una civiltà è un’idea di spazi, significa qualcosa che quelle case costruite come e dove capita, senza armonia d’insieme, siano linde come templi all’interno (lo spazio proprio), mentre fuori, nello spazio comune, il luogo pubblico, predominano lo sfregio e lo sporco? Il rispetto va a chi lo merita (o si pensa lo meriti) e a quel che ci appartiene; non a chi lo pretende e ci è estraneo, o a quello che non riconosciamo più come nostro.

Risultato: i centri storici che rappresentavano l’anima meridionale sono spesso vuoti; le moderne periferie che dovrebbero rappresentare l’anima “ricevuta” sono incomprensibili: l’anima prima è persa, l’altra estranea. E “bello” è quel Sud che ha saputo rimanere se stesso, riconoscibile come tale (Costiera Amalfitana, Procida, Bari vecchia, Matera dei Sassi, Ragusa...). Solo dove la coscienza di sé è rimasta forte o è stata recuperata si salva l’apprezzamento per il bello che fu e che tale resta, perché ricorda da cosa nacque, da quali valori.

E se riscopri questi, ritrovi quello.

Adesso, quel che ancora domina è lo scempio. Ma lo si comincia a riconoscere come tale e non è più sempre vera la sconsolata osservazione di Settis su «un’informazione ridondante che non sa trasformarsi in conoscenza, meno che mai in presa di coscienza».

A mano a mano che i meridionali riconquistano il rispetto del proprio passato, tornano a valorizzare le vecchie case abbandonate, a vederle belle, ci spendono soldi, le rimettono a posto («AD», rivista-principe di architettura, vende, ora, più al Sud che al Nord). I centri storici già considerati ghetto, scarto dei vinti, posto degli ultimi (che non erano riusciti a evaderne), divengono sciccoso rifugio di giovani acculturati che ripercorrono, all’incontrario, la strada dei genitori (che ne fuggirono, per fuggire la miseria, preferendo «case incongure e “palazzi” senz’anima»); e di intellettuali, cui si accodano commercianti, speculatori, villeggianti o pensionati inglesi, tedeschi, ai quali non par vero trasferirsi al sole, in muri d’epoca, comprati a prezzo basso (ma sempre meno basso).

Il valore delle antiche forme risorge e racconta una storia (e risorge, perché racconta una storia). È un ricominciare da sé, da quel che fummo: non sarà mai quel che era, ma ci sarà anche quel che era. Dev’essere un buon segnale questo ritorno, se può restituirci il perduto senso della bellezza: cominciamo a vederci con gli occhi dei forestieri che non scorgono, su quei muri, l’ombra della propria sconfitta.

Aprile Pino - 2011 - Giù Al Sud
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