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NON SAPEVO
«Noi abbiamo fatto questo?» Mi sento colpevole del suo dolore. È un uomo probo che parla, lo rivela quello che dice, e come lo dice. Ho appena finito di raccontare del massacro per rappresaglia compiuto dai bersaglieri a Pontelandolfo e Casalduni, nel Beneventano, due delle decine di paesi del Sud rasi al suolo, perché restii a dismettere un re, il proprio, per un altro, il Savoia, che non conoscevano e parlava francese.
È un uomo che va per i sessanta, portati benissimo; ha dignità: non reagisce rifiutando quel che lo disturba così tanto, né rigettando, per delusione o opportunismo, quanto fin lì lo inorgogliva: i piemontesi hanno fatto l’Italia. «Ma non sapevo così...» mormora. Vuole capire e spiegare. La sala del castello, a Cisterna d’Asti, è zeppa. Lui ha figura composta e davvero risorgimentale, con baffo e pizzetto: gli manca la divisa e potrebbe posare per il monumento al bersagliere. Persino può darsi lo sia stato, perché proprio non gli va giù: «I bersaglieri... io che portavo i miei figli ad applaudirli alla Festa della Repubblica... hanno stuprato, sterminato...». Chiederò di lui, poi. È di Canale d’Alba, si chiama Gino Scarsi, impegnato nel recupero di tradizioni e musica popolari. Una persona molto stimata.
Come immaginate che parli un piemounteeeise? Ecco, così. Argomenta, con buoni argomenti. Se la prende con la limitatezza dell’insegnamento: «A scuola eravamo trenta: uno solo parlava italiano. L’Italia era il grande contenitore, ma noi non andavamo oltre la nostra vasca, qui, il Piemonte, e nemmeno tutto». Era convinto di essere un buon italiano, perché cercava di far bene il suo lavoro, rispettando i suoi doveri, valutando la portata dei diritti suoi in rapporto a quelli altrui. Era convinto di sapere com’è nato il nostro Paese e gli piaceva quella storia di pochi che fanno cose grandi (anche a me, sa?, anche a me). Adesso è confuso. Non lo dice così limpidamente, con un discorso consequenziale, questa è una sintesi, perché lui si interrompe, riprende, conclude, ricomincia per completare. Ma ci conquista tutti con la sua onestà. Se avesse saputo, lo avrebbe raccontato ai suoi figli. Poi ci atterra, quando trae le conseguenze del suo ragionamento: «Dobbiamo andare in questi due paesi, bisogna chiedere scusa. Organizziamo dei pullman, me ne interesso, se volete, già domani» dice agli altri in sala.
«Guardi che lei non deve scusarsi di nulla» lo interrompo. «È giusto conoscere anche quello che di orribile c’è nel nostro comune passato, non diverso da quello di altri grandi Paesi, nati nel sangue. Ma quel passato orribile non è opera sua, dunque di cosa vorrebbe emendarsi, lei?»
Si alza una giovane donna: «Io lo sapevo. Da poco: ho letto il suo Terroni e altri libri. Sono la figlia» dice indicando l’uomo che ha appena parlato. «Ho sposato un meridionale; gli ho chiesto di portarmi al suo paese, al Sud, che non conoscevo: me ne sono innamorata subito. Spero di riuscire a ricondurvi i miei suoceri, un giorno: non ci sono più tornati, dopo essere venuti qui. Perché, per loro, sarebbe troppo dolore, dicono.»
È un atteggiamento che conosco e ammiro: non ho mai avuto una reazione negativa, nei miei incontri con i lettori al Nord; al più un dolente stupore, voglia di capire e fare qualcosa (talvolta un argomentato obiettare, molto raramente un rifiuto, con educato e silenzioso allontanarsi dalla sala).
Il professor Marco Ravera, ordinario di Filosofia morale alla facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Torino, fu uno dei primi a cercarmi, pochi giorni dopo la pubblicazione del libro. «Ho sempre avuto» racconta «la tendenza a interessarmi della storia, soprattutto “dalla parte dei vinti”, cioè di coloro la cui voce è stata troncata.»
«Vede,» mi scrisse «io sono, lo si capisce del resto dal mio cognome, un piemontese, e per giunta con ascendenze valdostano-savoiarde. Uno che ama la sua terra, i suoi monti, la cultura a cui appartiene. E che nei confronti del Sud non ha mai nutrito alcuna avversità; tuttavia, questo devo pur confessarlo, un senso di estraneità, come se si trattasse di un mondo ignoto, lontano, diverso, con cui non si capisce bene quali legami possano esservi, se non appunto quello, accidentale e forzato, di una guerra di conquista e di un nazionalismo imposto per più di un secolo da chi aveva ingannato gli uni e gli altri, i “settentrionali” e i “meridionali”. Appunto: non ostilità ma estraneità: la guerra di camorra? una cosa che riguarda “loro”... le bombe di mafia? non più vicine di quelle che scoppiano a Baghdad... roba che non “ci” riguarda... e così via. Ignoranza la mia, disinformazione, ottusità: le parole son queste e non mi tiro indietro. Poi il bello è che, sul piano dei rapporti individuali e personali, ho molti amici del Sud, coi quali discorro spesso di queste cose, e ciò ch’è curioso è che finiamo sempre per trovarci d’accordo, pur muovendo da prospettive lontanissime, con un processo d’avvicinamento che si realizza nel dialogo aperto e franco (a riprova di quel che dice, informo che con il professor Ravera, dopo uno scambio di lettere, siamo diventati amici, ci siamo incontrati al Salone del libro di Torino; N.d.A.).
Ma è stato appunto il suo libro a mettere in crisi questo mio atteggiamento, istintivo, ripeto, e non razionale. Da quando l’ho letto la mia identità piemontese e savoiarda è come in crisi, cerco i miei amici napoletani e siciliani, mi sforzo di rinsaldare i legami, consiglio anche a loro di leggere quel libro, così come lo consiglio a chiunque, come me, desideri sapere “di più”. E non le nascondo, mi consenta di parlare a cuore aperto, anche se non ci conosciamo, che è come se su di me, sulla mia Torino, sulle mie splendide montagne fosse scesa un’ombra. Non è che mi senta “colpevole”, la “colpa” è sempre individuale, e sappiamo tutti quali orrori porti con sé l’idea della “colpa collettiva”, ma oppresso da quell’ombra sì. E così, se mi è consentito questo paragone, la disposizione d’animo con cui Le scrivo è un po’ simile, credo, a quella di quel giovane tedesco, nato dopo il 1945 e dunque “individualmente” non imputabile di nulla, che scrisse al filosofo ebreo V. Jankélévitch per avere una parola da lui, per poter “capire” di più.»
Il professor Ravera mi ha chiesto un elenco di libri da leggere, per approfondire i temi trattati in Terroni. E dalle sue lettere successive, credo li abbia divorati. Anche lui pensò di andare, un giorno, «in pellegrinaggio da solo a Pontelandolfo e a Casalduni, per inginocchiarmi e chiedere perdono di qualcosa che ignoravo, di cui nessuno mai ci aveva detto nulla, e che tuttavia mi opprime. Come mi opprime, fino al pianto (non esagero, è vero), l’immagine di quella giovane cui vennero mozzate le mani per avere graffiato il bersagliere che voleva violentarla. E l’altro giorno, trovandomi a passare in via De Sonnaz (già, perché qui c’è una via De Sonnaz! E penso che a Torino non ci siano dieci persone che sappiano chi era davvero costui e che cosa ha fatto!) ho sputato per terra.» (De Sonnaz era un generale savoiardo che al Sud ribattezzarono Requiescat, perché dove passava lui, dicevano non restasse vivo un meridionale. Naturalmente, è un Padre della Patria; N.d.A.)
Qualche tempo dopo, il professor Ravera mi segnalò d’aver visto, nella sala del Circolo ufficiali della Zona militare di nord-ovest di Torino, un quadro enorme, circa cinque metri per otto, raffigurante l’incoronazione di Alfonso d’Aragona a re di Napoli, «con tanto di Vesuvio sullo sfondo». E, giustamente, si chiese: che ci fa qui? «Tu ne sai qualcosa?» mi scrisse. Girai il quesito a chi poteva saperne più di me: «Niente di più probabile che provenga dalla sala maggiore del palazzo Aquilecchia di Melfi, in Lucania, discendenti dei nobili di Aragona» mi spiegò Alessandro Romano, buon pescatore in archivi e capitano della risorta Armata borbonica (alcune decine di “militari” da parata) che sfila nelle commemorazioni duosiciliane. Il palazzo «fu letteralmente saccheggiato dagli invasori» fratelli d’Italia, e poi svenduto «per fronteggiare i ricatti savoiardi». Bottino risorgimentale...
Quando cominci a sapere, guardi con altri occhi. «Prima la cosa mi sarebbe sfuggita e non mi avrebbe indotto a interrogarmi» mi disse Ravera.
Così Paolo Occhipinti, mio direttore a «Oggi» (poi concorrente, quando andai a dirigere «Gente»), milanese da molte generazioni, ma di cognome ragusano, era rimasto sconcertato dalla lettura delle stragi, dei massacri, dei furti riportati nel mio libro. Fu a lui e a Umberto Brindani, nel frattempo passato a dirigere «Oggi», che chiesi la prima presentazione del libro. Occhipinti mi conosce da trentacinque anni e per venticinque abbiamo lavorato nella stessa redazione; ma sul «Corriere della Sera», ha letto che le mie sarebbero «fantasiose ricostruzioni» (poi sono diventate «cose note») e il «Corriere» è il primo giornale che Paolo legge, ogni mattina. Un giorno, mi dice che nella biblioteca appartenuta al padre, nella quale aveva cominciato a mettere ordine, aveva trovato un libro del 1863, un Quaresimale del Contemporaneo, «in cui sono dette le cose che scrivi tu, identiche». Me lo ha regalato, con una dedica: «Mio padre aveva una madre piemontese, un bisnonno siciliano e un nonno napoletano. Io sono milanese. Capisci perché mi tocca talvolta di essere... neutrale».
Qualunque cosa sia accaduta in questo Paese, il Paese ora è questo ed è il nostro. È Paolo Occhipinti, è i 15 milioni di italiani, dice Claudio Martelli, l’ex ministro, che è uno di loro (ha padre milanese e madre siciliana), nati dallo scontro, dall’incontro e dall’amore fra meridionali e settentrionali.
A Cisterna d’Asti mi ha invitato la professoressa Giovanna Cravanzola («vuol dire: guardiano di capre»): piccoletta, irrefrenabile, mi viene a prendere ad Asti e per tutto il viaggio, quasi metro per metro, mi racconta la sua terra, con una conoscenza, una passione! Ti dice persino a che ora del giorno è più bello il paese; e quando ci sono le nubi basse, e la nebbia colma la valle, ma le case sono nel sole; affacciarti al mattino su quel panorama di tetti e campanili che sbucano dalle nuvole sotto i tuoi piedi «è una gioia che riempie per tutto il giorno». Diresti che sua madre è calabrese? «Mia nonna mi parla in reggino, io non capisco una parola, ma la sto ad ascoltare.» Il cuoco e proprietario Lino Vaudano (trattoria Garibaldi: «Non è colpa mia,» ride «si chiama così, perché l’aprì un garibaldino») offre il meglio della tradizione culinaria locale, ma il genero e aiutante è meridioniale pure lui (ho capito bene?); e viene con il suocero, che vuole conoscermi: è nato a Gioia del Colle, come me, cresciuto a Taranto, pure lui («Fermiamoci qui, ho già troppi parenti!» dico); a riaccompagnarmi ad Asti, la sera, sono tre giovani donne (salutano due loro amici: meridionali): una è insegnante di Manduria (precaria qui); una è segretaria comunale, ma di Napoli; l’altra è veneta, maestra precaria pure lei, sposata a un astigiano («Mio suocero, quando gli venni presentata dal figlio, mi disse: “Veneta? Lo sai che voi facevate la fame e venivate a lavorare qui?”. “Vero, ma io non faccio la mondina,” risposi “insegno. E mi sono trasferita per amore”»).
Come si fa a separare geograficamente questa Italia?
L’insegnante e giornalista che mi interrogava pubblicamente sul libro mi aveva detto: «Noi, al Nord, non ci siamo accorti di tutti questi vantaggi conquistati a spese del Sud, come tu scrivi nel libro». E non puoi dargli torto: chi ha, non sa di avere, finché ce l’ha. «Fidati delle gambe,» gli ho risposto «quando la gente si muove, insegue quel che le manca. Prima dell’Unità, i meridionali non venivano qui, adesso sì. Vuol dire che prima non aveva bisogno di farlo. Qualcosa, da un momento all’altro (c’è una data, sui libri di storia) è venuto a mancare; ma solo ai meridionali; mentre dal Nord, da cui emigravano a milioni, nessuno, dopo un po’, è più andato via.»