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Villa Gondemar
Eventi ricostruiti da Lorenzo Aragona
Roma, gennaio 2013
Alle otto e mezzo in punto eravamo davanti al cancello di Villa Gondemar, sede romana dei Missionari del Tempio di Gerusalemme. La giornata era fredda, ma il cielo era azzurro e sgombro di nuvole e nonostante fossimo agitati per quello che avremmo potuto trovare, il tragitto che da Trastevere ci aveva condotto fino all’Aurelia antica era stato piacevole.
«Insomma, stando alle informazioni che ho trovato ieri sera su Villa Gondemar, sembra che in questa zona, secoli fa, esistesse una piccola commenda dei templari», dissi mentre attendevamo che qualcuno aprisse. «È una scoperta recente».
Intanto una voce maschile aveva risposto al citofono.
«Sì, buongiorno, sono il commissario Oscar Franchi, sono in compagnia del signor Aragona, abbiamo appuntamento con padre Palminteri».
La flebile voce che ci aveva risposto emise un impercettibile: «Sì, prego», e il cancello si aprì.
C’incamminammo lungo il vialetto che conduceva alla villa, un edificio molto elegante di fine Seicento, che si stagliava sul cielo azzurro di quella mattina. Tutt’intorno alla villa c’era un bellissimo giardino. In un angolo, in posizione appartata, faceva capolino una chiesetta di certo più antica dell’edificio principale. Passandoci accanto, avemmo la conferma delle informazioni che avevo trovato: sul portale della semplice chiesa, di evidente origine medievale, faceva bella mostra di sé una croce patente, di quelle a braccia uguali, tipiche dei templari.
«È abbastanza inquietante che questi religiosi si facciano chiamare Missionari del Tempio di Gerusalemme», commentò Oscar, «ma se il collegamento con i templari non è solo nel nome, mi sembra di scorgere un disegno ben preciso in tutto questo».
«Tra le curiosità che ho trovato su questi missionari, ce n’è una molto interessante», aggiunsi io quando ormai eravamo quasi davanti al portone della villa. «Pare che il fondatore discendesse da un’antica famiglia nobiliare che, nel Medioevo, annoverava parecchi suoi membri tra i templari. Fare due più due mi sembra a questo punto d’obbligo».
«E come si chiamava il fondatore?»
«Padre Sean Bruce, era scozzese. L’ordine fu fondato alla fine dell’Ottocento».
Sulla soglia della villa ci attendeva un sacerdote di circa sessant’anni con indosso un clergyman nero. Di statura media, radi capelli grigi e un volto ben rasato, dall’espressione seria ma allo stesso tempo cordiale. Il prete accennò un saluto col capo.
«Buongiorno», disse Oscar tendendo la mano, «sono il commissario Franchi e questo è Lorenzo Aragona».
«Luigi Palminteri», rispose l’altro rivelando subito la sua identità. La sua espressione cordiale mutò di colpo quando vide Antonio Navarro. Cercò subito di nascondere la sorpresa che si dipinse sul suo volto, ma per una frazione di secondo sembrò avesse visto un fantasma.
Oscar e io ce ne accorgemmo.
«Vi conoscete?», domandò il mio amico aggrottando le sopracciglia.
Palminteri si affrettò a fare un rapido sorriso imbarazzato e a scrollare la testa. «N-no, no, mi era parso di aver già visto il signore, ma…».
«Ma deve avermi scambiato per qualcun altro, vero padre?», intervenne Navarro completando la frase dell’altro.
«Già, è così».
Oscar e io ci scambiammo un’occhiata. C’era decisamente qualcosa di strano, ma era meglio lasciar perdere per il momento.
«Grazie per aver accettato d’incontrarci, padre».
«Quando ieri al telefono mi ha detto che cercava Anastasio Elpìda, signor Aragona, per un istante ho temuto che fosse qualche seccatore».
«Un seccatore? Perché mai?»
«Prego, accomodatevi, fa freddo fuori», si limitò a dire il sacerdote senza rispondere alla mia domanda e precedendoci all’interno della villa.
Lo sfarzo che ancora caratterizzava le decorazioni della nobile residenza era bilanciato dalla semplicità dell’arredamento. Gli affreschi dai colori splendenti, che rappresentavano muse e divinità greche, impreziosivano gli alti soffitti. Passammo davanti a un paio di stanze e in una, gettando lo sguardo distrattamente, intravidi una figura seduta su una sedia a rotelle che rivolgeva le spalle alla porta e guardava fuori da una finestra. Non so perché, ma quella rapida visione m’inquietò. Scrollai le spalle e cercai di concentrarmi sul motivo per cui eravamo lì.
Padre Palminteri ci condusse fino a un salottino arredato in modo semplice: un divano, un tavolino e un paio di poltrone. Alle pareti due quadri di missionari in abito sacerdotale.
«Il signor Elpìda è stato nostro ospite per alcuni anni, signori», riprese il sacerdote, con una certa tensione nella voce, invitandoci a sedere. «Una brava persona, molto discreta, con un gran dolore dentro. Una persona chiaramente in fuga da qualcosa. Ha fatto una grossa donazione al nostro Ordine chiedendoci in cambio di poter essere nostro ospite e noi l’abbiamo accolto cristianamente».
Al telefono, padre Palminteri era stato molto vago con me e non aveva neanche detto se Anastasio Elpìda fosse ancora vivo oppure no e chi era quel Giovanni che aveva firmato la cartolina. Ci guardammo con imbarazzo per qualche istante, ciascuno di noi soppesando le parole del sacerdote e l’eventuale risposta.
Padre Palminteri sembrò disorientato e quasi infastidito da quell’atteggiamento, ma poi si ricompose e accennò un altro timido sorriso. «Allora, chi è per voi Anastasio Elpìda? Perché lo state cercando?».
Esitai un istante prima di rispondere e Oscar intervenne per evitare che mi sfuggisse qualcosa di compromettente. Evidentemente anche lui aveva pensato che quel sacerdote nascondesse più di quanto rivelasse. «Vede padre, Elpìda è un caro amico del signor Aragona e del signor Navarro. I signori non hanno più sue notizie da anni, ma di recente sono venuti a sapere che Elpìda potrebbe aver trovato accoglienza da voi. A quanto pare l’informazione era giusta».
Padre Palminteri soppesò le parole di Oscar, scambiò un rapido, intenso sguardo con Antonio e poi si soffermò più a lungo a guardare me. «Se ha tenuto nascosto il luogo in cui viveva, doveva avere dei buoni motivi», disse infine lasciando intendere che credeva alle parole di Oscar. Quell’uomo sapeva, ma era ancora diffidente.
Allora provai a intervenire, cambiando registro e rivolgendomi a lui con dolcezza. «Padre, la prego, ci dica la verità. Ci dica almeno se è vivo o morto».
Il sacerdote ci guardò ancora per un istante poi sorrise di nuovo, questa volta in modo triste, e sospirò. «Venite con me».
Attraversammo la villa e incontrammo soltanto un paio di giovani missionari pronti a uscire. «Padre, se non occorre altro, noi andiamo».
«Certo ragazzi, ci vediamo in Vaticano nel pomeriggio», rispose Palminteri, poi, rivolto a noi, aggiunse: «Come sapete domani c’è il vertice internazionale sui diritti umani organizzato dal Vaticano e dall’Unione Europea. È un evento straordinario che sancirà la cooperazione tra la Chiesa cattolica e i governi di mezzo mondo per lo sviluppo dei diritti umani. Saranno presenti leader europei, il segretario di Stato americano, il ministro degli Esteri russo e i vertici mondiali della Chiesa. Il summit rientra nella recente svolta progressista del Vaticano, dopo anni di chiusura. Il nuovo papa è
un vero illuminato».
«E voi siete coinvolti nell’organizzazione?», domandò Oscar.
Padre Palminteri sollevò le sopracciglia come a voler dare enfasi alle sue parole. «Io, veramente, ho collaborato alla stesura di parte dell’accordo. Sono nella commissione di Diritto internazionale del Vaticano. Ho contribuito a mediare tra l’eccessivo entusiasmo del nostro giovane Santo Padre e certe posizioni troppo conservatrici di alcuni vescovi. Sono professore di Diritto canonico e consulente per i rapporti internazionali del Vaticano in materia di diritti umani».
Dovette notare lo stupore sui nostri volti, perché sentì il bisogno di aggiungere: «Il fatto che io viva lontano dalla mondanità del clero non deve trarvi in inganno. Adesso andiamo, non ho molto tempo».
Raggiungemmo un grande salone, che un tempo doveva ospitare le feste della nobile residenza, e varcammo un’ampia porta finestra che immetteva nel giardino.
Padre Palminteri girò attorno alla villa e si diresse verso la piccola cappella che avevamo visto prima. «Villa Gondemar è stata costruita in un antico podere appartenuto ai Poveri Cavalieri di Cristo, meglio noti come templari. La cappella è molto preziosa, a Roma è una delle poche di epoca medievale così ben conservata. Era parte della loro antica commenda».
Mi stupì che il sacerdote ne parlasse con tanta nonchalance. «È una scoperta straordinaria per gli studi sui templari, non si aveva conoscenza di una commenda in questa zona della città. La soprintendenza cosa ne pensa? Mi sembra che l’attribuzione ai templari sia recente».
Padre Palminteri si fermò un istante e si voltò a guardarmi. «La soprintendenza può richiedere un permesso per studiare la cappella quando vuole, signor Aragona, ma se si aspetta che noi apriamo i battenti all’esercito di coloro che inseguono i misteri dei templari, si sbaglia di grosso. Questo è prima di tutto un luogo di preghiera e di studio».
Non aggiunse altro e riprese a camminare. Girò quindi sul retro della cappella. In un fazzoletto di terra, chiuso da una bassa recinzione di ferro dall’aria vetusta, c’era un piccolo cimitero che non avevamo potuto vedere poco prima. Ci dirigemmo proprio lì e le nostre speranze si polverizzarono in un istante.
Passammo davanti ad alcune pietre tombali risalenti a epoche in cui, teoricamente, i templari dovevano essere solo un ricordo e camminammo finché padre Palminteri non si fermò davanti a una lapide semplice, molto recente e un po’ isolata rispetto alle altre.
«Ecco, Anastasio Elpìda è qui. È spirato serenamente nel suo letto circa cinque anni fa. Era molto vecchio. Mi dispiace, siete arrivati tardi».
Non c’erano fotografie sulla lapide e neanche la data di nascita, di cui evidentemente il nonno non aveva mai detto nulla ai monaci. C’era il nome, Anastasio Elpìda, la data della morte e un piccolo e all’apparenza insignificante segno: una croce cerchiata. Era la sua firma, il simbolo dei Nove. Aveva fatto in modo che comparisse sulla sua lapide cosicché noi potessimo riconoscerlo.
Fui più deluso per quel che ormai non poteva più dirmi che addolorato per il fatto di constatarne, finalmente, la morte. Per me era infatti morto quarant’anni prima.
Navarro ostentò un composto dolore. Aveva forse nutrito la speranza di potere riabbracciare il suo vecchio amico.
Provai a consolarlo, ma capii al volo che voleva essere lasciato solo nel suo dolore.
Oscar mi si avvicinò e, comprendendo il mio stato d’animo, mi appoggiò una mano sulla spalla.
Scossi la testa e continuai a guardare la lapide. «Forse è solo un segno del destino, Oscar, forse devo semplicemente accettare la sorte che attende mia moglie e starle accanto fino alla fine. Tutto questo è folle, lo è stato fin dall’inizio e adesso sta diventando addirittura grottesco».
«Sai, è buffo che sia io a dirti questo, considerando il mio scetticismo, ma ti avrei dato ragione fino a qualche giorno fa, prima che molti dei fili di questa matassa cominciassero ad annodarsi da soli. Adesso non ne sono più tanto sicuro. Io credo che ci sia qualcosa di vero dietro a tutta questa storia. In fondo tuo nonno ha sacrificato la sua vita per proteggervi da questo segreto. Non posso credere che sia solo una leggenda».
Lo guardai stupito. Aveva ragione, lui era in genere molto razionale, era la bilancia che riequilibrava la mia immaginazione e sentirlo parlare in quel modo mi fece pensare che non avesse tutti i torti.
«L’abbiamo accolto con affetto, era una persona amabile», disse padre Palminteri, lanciando più volte intensi sguardi su Navarro, «ma portava dentro una grande tristezza. Abbiamo cercato di fargli sentire il calore di una famiglia. Lasciamolo riposare in pace. Ora, mi dispiace, ma ho davvero necessità di preparare alcune carte per oggi pomeriggio. Possiamo rivederci dopo il summit se volete, fra un paio di giorni».
Mentre ritornavamo verso la villa, Oscar si accostò al sacerdote. «Padre, io ho ancora molti dubbi riguardo Elpìda. Vorrei vedere le sue cose, spero le abbiate conservate. Nel passato di questa persona ci sono punti oscuri che mi preme mettere in luce. Mi dica quando può concedermi altro tempo».
«Non sapevo ci fosse un’indagine in corso, commissario».
«Mi sta chiedendo di venire con un mandato?»
«Oh no, non ce n’è bisogno, s’immagini. Sarò ben lieto di mostrarle i pochi oggetti che Elpìda aveva con sé, ma deve darmi un paio di giorni, come vi dicevo prima, perché è una cosa un po’ delicata e non posso affidarla a nessun altro confratello, sono io il padre superiore dell’Ordine a Roma ed è una mia responsabilità».
«D’accordo, aspetterò fino a dopo il summit».
«Anche se…».
«Anche se?».
Padre Palminteri si fermò un istante e lanciò un’occhiata enigmatica a tutti noi, soffermandosi ancora a lungo su Navarro. «Forse ci sono segreti, nella vita di Elpìda, che sarebbe bene restassero tali».
Senza aggiungere altro si voltò e si diresse verso l’uscita della villa. Prima di giungervi, però, incappammo nel tipo sulla sedia a rotelle che avevo intravisto in una delle stanze. Ora che lo avevo davanti, mi resi conto che si trattava di un uomo molto anziano. Aveva un volto sereno, sopracciglia molto folte, lunghi capelli grigi sul collo e radi sulla testa. Il naso era dritto e la bocca, senza denti, si muoveva in maniera grottesca, come se mormorasse qualcosa. E gli occhi, oh, gli occhi erano incredibilmente intensi e mi turbarono.
«Giovanni, quante volte devo dirti che non è prudente che tu vada in giro da solo», lo rimproverò padre Luigi affrettandosi a riportarlo nella sua stanza.
Giovanni! Guardai Navarro, che era fuori dalla visuale del vecchio e che sembrò smarrito.
«Io non mi chiamo Giovanni!», protestò il vecchio cercando di afferrarsi al muro, «io mi chiamo Sean, Sean Bruce!».
«Ma sì, ma sì», disse Palminteri cercando di calmarlo, «non vi preoccupate, passate pure, Giovanni è innocuo».
Passammo accanto alla sedia a rotelle rivolgendo un timido sorriso al vecchio. Stavo per superarlo quando, rapidissimo, mi afferrò per un braccio e mi tirò verso di sé, perché potessi udirlo. «Quelle che restano le ho tutte io», mi sussurrò con la sua voce impastata, «lui le ha lasciate a me».
Finalmente il vecchio si calmò e così padre Palminteri riuscì a staccarlo da me e a riportarlo nella sua stanza. «Giovanni, ma che ti è saltato in mente?».
Noi intanto avevamo superato la stanza e mentre il sacerdote ci raggiungeva, potemmo sentire chiaramente il vecchio ripetere: «Io mi chiamo Sean, Sean Bruce!».
Padre Palminteri allargò le braccia come per scusarsi dell’accaduto. «Abbiate pazienza, Giovanni, come Elpìda, è un vecchio eroe di guerra solo al mondo, di cui abbiamo deciso di occuparci. In genere è molto tranquillo ma ogni tanto crede di essere padre Sean Bruce, il devoto sacerdote scozzese che fondò il nostro ordine alla fine dell’Ottocento».
Un eroe di guerra come Elpìda, come mio nonno. «Quelle che restano, le ho tutte io», aveva detto Giovanni alias Sean Bruce, «lui le ha lasciate a me». Un’idea mi balenò nella mente. Credetti d’intuire cosa avesse voluto dire il vecchio.
La telefonata che Oscar ricevette da Benjamin Grazer mezz’ora dopo non fece che confermare i miei sospetti.