Capitolo 1

 

Praga, ultimi giorni di primavera

 

La Moldava scorreva placida tra gli archi del ponte Carlo. Dall’antico parapetto in pietra splendeva dorata alla luce trasversale del crepuscolo. Anatre selvatiche, gabbiani e cigni nuotavano lenti tra i pilastri. Centinaia di persone, turisti, pittori, orchestrine improvvisate, gente comune, rendevano omaggio al grande ponte. Ne accarezzavano le statue, ne ammiravano l’armonia o, più semplicemente, l’attraversavano per raggiungere Malà Strana, la Città Piccola, con i suoi vicoli, i palazzi decorati da misteriose insegne, i ristoranti tipici e gli immancabili negozi di souvenir.

Ero appena uscito da una di quelle birrerie dove solo i cechi vanno, fuggendo dalla calca di turisti, ed ero diretto verso il luogo dell’appuntamento. Era quasi ora. Non volevo far aspettare il misterioso personaggio conosciuto poche ore prima, subito dopo la conferenza alla quale avevo preso parte, organizzata nell’ambito della mostra Magnum Opus: Praga e la tradizione ermetica. Un evento di portata internazionale al quale avevo aderito con grande entusiasmo, come antiquario e studioso di alchimia, fornendo alcuni preziosi strumenti alchemici rinascimentali di mia proprietà.

«La ringrazio davvero per il suo prezioso contribuito dottor Aragona», mi aveva detto Pierluigi Folin, l’elegante curatore veneziano della mostra, quando ci eravamo incontrati quella mattina. «Oltre ai pezzi di grande interesse che ci ha prestato, il suo lavoro di consulente è stato fondamentale».

«Lei mi lusinga, dottor Folin, è stato un piacere mettere a disposizione le mie modeste conoscenze. In realtà ho un rammarico. Vorrei aver portato io il pezzo forte della mostra… esserne il proprietario. Non ci crederà, ma sono riuscito a vederlo finalmente dal vivo solo qui, a Praga».

Il pezzo forte, come lo avevo chiamato, era uno straordinario orologio del XVIII secolo che si diceva fosse stato realizzato dal principe di Sansevero in persona e da lui donato al conte di SaintGermain, inquietante e misterioso personaggio dell’ambiente ermetico-alchemico settecentesco. L’orologio, di proprietà di un imprenditore napoletano di origini nobili e conservato nel caveau di una banca partenopea, non era mai stato esposto prima e pochissime persone erano riuscite a vederlo dal vivo. Il proprietario, un tipo gretto e sgradevole, non lo aveva mai permesso. Si diceva che quell’oggetto fosse dotato di poteri oscuri, ecco perché – solo dietro sottoscrizione di una polizza assicurativa di due milioni di euro – era esposto in quella particolarissima mostra.

«È davvero incredibile che uno studioso come lei, vivendo nella città dove è custodito, non abbia mai avuto la possibilità di vedere da vicino l’orologio alchemico», aveva detto con aria stupita Folin.

Avevo fatto spallucce e sospirato. «Che dirle? Certe cose cadono sempre nelle mani sbagliate».

Quando, superando una calca simile a quella che si crea al Louvre per ammirare e scattare una rapidissima foto alla Gioconda, ero riuscito ad avvicinarmi alla teca dove era esposto l’orologio, ero rimasto stupefatto. Le poche foto che circolavano di quell’oggetto non rendevano giustizia alla perfezione del suo meccanismo e alla bellezza delle incisioni e dei dettagli. Sebbene funzionasse perfettamente, l’orologio era fermo. Sembrava infatti che quando i suoi ingranaggi iniziavano a girare, si creasse un misterioso campo elettromagnetico che generava stranissimi fenomeni. Da ciò il nome di “orologio alchemico”.

Quella mattina, per la prima volta in pubblico, l’orologio era stato messo in funzione. Avevo visto con i miei occhi, seduto tra gli ospiti d’onore nella grande sala conferenze stipata di gente, di cosa fosse capace quell’oggetto. Era stato posto su un grande panno verde, sul tavolo dei relatori, insieme a delle telecamere che potessero consentire a tutti di assistere all’evento attraverso dei maxischermi. L’uomo che aveva in custodia lo straordinario manufatto, persona di fiducia del proprietario, aveva messo alcune barrette di ferro ossidato in un recipiente di vetro contenente una soluzione acquosa. Aveva quindi accostato al vasetto l’orologio e azionato il suo meccanismo. Le lancette avevano iniziato a girare e una deliziosa melodia – suonata dal carillon incorporato nel manufatto – si era diffusa per la sala. Contemporaneamente, dei piccoli automi finemente lavorati sulla cassa si erano messi in movimento: si vedeva una minuscola scena campestre con al centro una fontana, dalla quale emergeva una figura antropomorfa a due teste, una maschile e una femminile. Un rebis alchemico. Sullo sfondo, più piccolo, come a sottolineare la prospettiva, un piccolo sarcofago si apriva e si chiudeva. Dal suo interno usciva ed entrava un cartiglio con su scritto non hoc totum, “questo non è tutto”. Due colonne con capitelli diversi creavano una cornice alla scena. Un prodigio miniaturistico straordinario, come straordinario era stato l’effetto provocato dall’orologio sulle barrette ossidate: dopo pochi istanti, il liquido nel quale erano immerse aveva iniziato ad agitarsi, come se stesse bollendo. In pochi minuti la ruggine si era letteralmente staccata in piccole scaglie dal ferro immerso nella soluzione.

Un coro di esclamazioni si era sollevato dal pubblico, seguìto da un applauso.

«Incredibile, assolutamente incredibile», aveva commentato meravigliato Pierluigi Folin, seduto accanto a me.

Io mi ero incupito e mi era subito stato chiaro perché l’orologio non era mai stato esposto e il suo potere mai mostrato. C’è sempre qualcuno pronto a tirare fuori una rivoltella per un oggetto come quello.

Stranamente, il barone Scotto di Fasano, il proprietario, aveva messo da parte la prudenza e mostrato al mondo il prodigio di cui era in possesso. Mi voltai a guardarlo, seduto in prima fila. Il suo aspetto era davvero inquietante, uno scherzo della natura ingobbito e deforme. L’espressione sul suo volto, irregolare come un ritratto di Picasso, era di compiaciuto trionfo.

Al termine dell’esibizione mi ero avvicinato per salutarlo, per una semplice forma di cortesia.

«Barone, finalmente siamo riusciti a vedere il suo incredibile tesoro».

Scotto di Fasano aveva notato la mia ironia nel pronunciare la parola “suo”. Sorrise e il suo volto sgradevole si deformò ancora di più. «Dottor Aragona, so bene che questo oggetto farebbe la felicità di un collezionista come lei. È proprio per questo, per tenerlo lontano dalla cupidigia di gente senza scrupoli, che lo mostro di rado».

Ci eravamo vicendevolmente antipatici e nessuno dei due lo nascondeva, ma fingevamo una cordialità di facciata.

«Mi meraviglio, infatti, che abbia accettato di esporlo».

Allargò le braccia. «Questa è la più importante mostra sull’alchimia mai organizzata, alla quale lei ha dato un grande contributo, mi dicono. Ma senza l’orologio alchemico sarebbe stata un evento come tanti. ’Na perdita ’e tiempo. Ho avuto inoltre ampie garanzie sulla sicurezza degli oggetti esposti. La società americana coinvolta è tra le più serie al mondo. Non stiamo parlando di qualche semplice negozio di antiquariato di Napoli. Loro fanno circolare milioni di dollari. E ora mi scusi, sono a pranzo con il sindaco di Praga. Si goda pure l’orologio. Finché può…».

Si era allontanato barcollando sulle sue gambe tozze, accompagnato da Stefano de Lucia, il suo inseparabile assistente.

«Stronzo…», era stato il mio saluto mormorato a denti stretti.

Uscendo dalla sala conferenze, ancora immerso nei miei pensieri, ero stato avvicinato da Pierluigi Folin, che era in compagnia di uno strano tipo, piuttosto anziano, e di un giovane di bell’aspetto con capelli corti e baffi sottili.

«Dottor Aragona, prima che si allontani vorrei presentarle un altro prezioso contributore della mostra. Il signor Vladislav Hašek, un appassionato di alchimia come lei».

«Posso avere… onore di stringere la mano al grande Lorenzo Aragona?», aveva detto il vecchio, in un italiano davvero niente male con un chiaro accento dell’est Europa. Stempiato, la fronte spaziosa, con capelli bianchi che gli arrivavano fin sul collo e una foltissima barba, il vecchio aveva un’aria molto cordiale.

«Oh figuriamoci! L’onore è mio».

«Lei è importante antiquario ed… esperto, io ho solo piccolo negozio di oggetti alchemici a Malà Strana». Il vecchio si fermò un istante e indicò il suo compagno. «Questo è Riccardo Micali, proprietario di grande azienda di medicinali omeopatici. Vive a Praga da molti anni ed è… ottimo studioso di esoterismo. E mio professore d’italiano!».

«Vladislav è sempre troppo buono, sono solo un suo fedele allievo», disse Riccardo, con un accento evidentemente siciliano, schermendosi.

«Molto lieto», avevo risposto porgendogli la mano e ricevendo in cambio una stretta piuttosto eloquente. Sollevai un sopracciglio e lui accennò un sorrisetto. Un fratello. L’acacia appuntata sulla mia giacca era un segnale abbastanza chiaro e Riccardo aveva colto l’occasione per rivelarsi subito.

«Lei mi fa onore di venirmi a trovare nel pomeriggio al mio negozio?», aveva ripreso Hašek ignorando il rapido scambio di sguardi tra me e il siciliano. «Ho qualcosa di molto interessante per lei».

«Davvero? Di che genere?»

«Venga, venga e scoprirà».

«Vada a trovare Hašek, dottor Aragona, sarà un grande arricchimento per lei, glielo assicuro», aveva aggiunto Folin.

Avevo osservato quello strano tipo e il suo allievo massone per qualche secondo, quindi, con un sorriso, avevo annuito. «D’accordo, come si chiama il suo negozio e dove si trova di preciso?»

«Esca da Pražský hrad e vada sempre dritto fino a Pohořelec. Lontano da negozi di… gingili per turisti. Lo troverà facilmente, signor Aragona, senza sapere il nome».

Se ne era andato non aggiungendo altro, insieme a Riccardo Micali, lasciandomi con quella frase enigmatica. Una di quelle cose che solleticano il mio maledetto sesto senso.

Inutile dire che ero andato all’appuntamento, riuscendo effettivamente a trovare il suo negozio. Seguendo l’istinto.

«Dobrý vecer!», aveva esordito salutandomi, mentre varcavo la soglia di quel suo mondo polveroso e originale.

«Dobrý vecer», avevo risposto.

C’era un’infinità di roba ammucchiata in maniera disordinata lì dentro, come spesso accade in questo genere di botteghe: tazze sbreccate, maschere, amuleti e buffe statuine, ma anche pipette, alambicchi, piccoli recipienti e contenitori con polveri colorate. Un bazar pieno di oggettistica pseudo-alchemica per turisti. Tuttavia, una coppetta contenente alcuni frammenti metallici dagli inconfondibili riflessi nero argento mi aveva attratto più di altri oggetti. Avevo letto il nome sull’etichetta semplicemente per avere una conferma: stibium. Che ci faceva il solfuro di antimonio, così a portata di mano, in quella bottega?

«Benvenuto in mio modesto negozio, Zlatá ratolest, Il Ramo d’oro!», disse il vecchio Hašek vedendomi entrare.

L’avevo fissato per qualche secondo. I suoi occhi profondi erano vispi e allegri, ma tradivano uno sguardo che andava oltre la superficie delle cose. Lo sguardo di un saggio. Anche se i radi capelli bianchi ai lati della testa e sul collo e il naso aquilino, lo facevano assomigliare a un gufo spennacchiato.

«Suggestiva la mia… modesta collezione di strumenti e minerali, non è vero?»

«Certo…», avevo detto sollevando di nuovo la coppetta contenente la stibina. «Non mi sarei aspettato di trovare, tra tante polveri colorate per i turisti, qualcosa di utile ai veri artisti».

«E lei l’ha trovata subito, come ha trovato il negozio!».

«Questione di abitudine, pan Hašek», avevo concluso posando definitivamente il piccolo contenitore. «Perché ha voluto incontrarmi?»

«Ho visto come ha seguito esperimento di orologio alchemico questa mattina. Tutti erano stupiti, lei preoccupato».

«Quell’aggeggio è pericoloso».

Il vecchio gufo era diventato improvvisamente serio e aveva continuato a guardarmi, come per trovare la conferma, nel fondo dei miei occhi, di un qualche suo pensiero recondito. «Oh, molto, molto pericoloso. Ho stima di lei, signor Aragona, ecco perché voglio incontrarla ancora, questa sera, dopo chiusura del mio negozio. Alle otto sul ponte Carlo, sì? Davanti la statua di Jan Nepomucký che – ah, buon Dio – raccomando vivamente di non imitare!», aveva detto tornando a sorridere e facendomi l’occhiolino.

Avevo sorriso anch’io. Jan Nepomucký, o Giovanni Nepomuceno in italiano, uno dei martiri più famosi della storia ceca, era confessore della regina di Boemia. Il re Venceslao IV, un sovrano crudele e corrotto, era gelosissimo della moglie e pretendeva che Giovanni gli svelasse i segreti della confessione. Il religioso resistette fermamente, nonostante le insistenze e le ripetute minacce di morte, finché un giorno Venceslao dette l’ordine di giustiziarlo, gettando poi il suo cadavere nella Moldava.

Il vecchio mi aveva fissato ancora per un istante con i suoi occhi espressivi e penetranti. «Una storia triste, tragica, come spesso raccontano i ponti…», aveva proseguito con voce bassa e lirica. Gettai uno sguardo attraverso la vetrina del negozio: la piazza era tranquilla e lontana dalle macchine fotografiche che immortalavano il cambio della guardia all’ingresso del castello.

«Perché alle otto e non adesso?», avevo domandato infine tornando a guardare Hašek.

«Le darò qualcosa di molto prezioso», era stata la sua risposta, «qualcosa che non ho qui».

«Perché a me, se è una cosa così preziosa?».

Hašek assunse un’aria malinconica. «Lo devo a un vecchio amico e poi lei è persona giusta».

In quel momento erano entrati alcuni clienti, mettendo fine alla nostra chiacchierata. Prima di congedarmi, il vecchio aveva ribadito: «Alle otto, signor Aragona, alle otto».

Gli avevo lanciato uno sguardo però, prima di salutarlo con un cenno del capo, non ero riuscito a trattenermi dal fargli un’ultima domanda. «Adesso può dirmelo, come poteva essere sicuro che sarei riuscito a trovare il suo negozio? Ce ne sono vari qui in piazza».

«Insegna di negozio, non poteva sfuggire al suo sguardo. Sbohem. Vada con Dio».

Appena fuori mi ero voltato, sicuro di non aver notato nulla di particolare pochi minuti prima. Ma mi sbagliavo. Ai lati della targa che riportava la scritta “Zlatá ratolest” vi erano due rami intrecciati che un tempo dovevano essere stati dorati. Sotto ciascuno di essi, piccoli e scoloriti, altri due simboli a me familiari: quelli del mercurio e dello zolfo.

La cosa mi aveva strappato un sorriso.

Dopo essere stato al negozio di Hašek, avevo gironzolato per un po’, fatto shopping da bravo turista nel Vicolo d’Oro, dove la tradizione vuole abbiano dimorato molti alchimisti, quindi mi ero diretto verso il ponte Carlo. Ero arrivato all’appuntamento qualche minuto prima. Ancora oggi non so dire perché ci andai. Certamente per curiosità: morivo dalla voglia di sapere che cosa aveva da darmi Hašek di così prezioso. Il misterioso discorso del pomeriggio mi aveva trasmesso un certo disagio, in verità, e così mi ero riproposto di non mollare il vecchio finché non avesse chiarito fino in fondo tutta la faccenda.

Ora ero lì, sotto la statua di san Giovanni Nepomuceno. La targa sul basamento splendeva di un color oro abbagliante, consumata dalle mani che l’accarezzano di continuo. Si dice, infatti, che chiunque voglia tornare a Praga debba sottoporsi a questo rito, al quale anche io mi prestai, pur senza averne bisogno: tornare nella città boema era un piacere abituale e incommensurabile per me, nonostante i sempre più rumorosi assalti dei turisti.

Non appena mi appoggiai al parapetto, avvertii una presenza alla mia destra. Qualcuno che, con aria leggermente agitata, si era messo a scrutare il fiume che diventava sempre più scuro con l’approssimarsi della notte.

«Proprio una bella città, non trovi?».

Lo guardai per un attimo, sorpreso ma non troppo di ritrovare accanto a me il siciliano che avevo conosciuto poche ore prima.

«Di una bellezza commovente direi… fratello».

«Già». Il giovane riportò rapidamente gli occhi su di me, guardò con circospezione a destra e a sinistra, quindi mi porse la mano destra. Ricambiai il saluto ed ebbi la conferma di non essermi sbagliato: era un massone.

«Mi manda Hašek», disse senza convenevoli.

«Ah, lui dov’è?»

«Vladislav ha avuto un incidente, lui… non può venire», disse con fare enigmatico Riccardo Micali, mentre continuava a guardarsi nervosamente intorno. Provai a seguire il suo sguardo per capire cosa stesse cercando, ma lui mi strinse il braccio con forza. «Non voltarti. Forse qualcuno ci osserva».

Tornai a fissare il fiume davanti a me, cascando dalle nuvole per quest’altra stranezza. La mia passione per l’alchimia e il mio interesse per le scienze ermetiche mi avevano spesso messo in situazioni non proprio ordinarie, tuttavia quel giorno stavo stabilendo il record di esperienze curiose. Chi diavolo poteva essere quell’uomo che si era manifestato come un fratello massone e sembrava stesse fuggendo da qualcosa, o da qualcuno?

«Chi dovrebbe spiarci?»

«Non lo so, ma Hašek mi ha messo in guardia».

«Ma insomma, chi è Hašek?».

Riccardo riprese a guardare la Moldava. «È un grande iniziato, Lorenzo. Nella ristretta cerchia degli alchimisti moderni il suo nome simbolico è leggendario».

«Allora dovrei conoscerlo», commentai.

«Oh, sì. Tu lo conosci come Basile Cobalière».

«Cosa…?».

Feci per girarmi e guardarlo in faccia, ma lui mi fermò di nuovo. «Non voltarti».

Sbuffai innervosito, cominciavo ad averne abbastanza di quel gioco. «Insomma, Hašek è Basile Cobalière? Il leggendario alchimista di Praga? Nel forum Alquimia su internet, quello riservato agli iniziati, lui ha sempre dispensato illuminanti consigli. Nessuno sa chi si celi dietro a quello pseudonimo, come fai tu a saperlo? Hašek stamattina ha detto che sei un adepto promettente».

«Avere un’azienda farmaceutica, specializzata in omeopatia, mi ha fatto avvicinare naturalmente alla spagiria e all’alchimia, ma la maggior parte delle cose che so su questi due argomenti la devo a lui. In ogni caso, oggi pomeriggio, poco dopo che tu sei andato via dal suo negozio, mi ha chiamato. Era spaventato, qualcuno lo aveva minacciato. Mi ha detto che per lui sarebbe stato troppo pericoloso venire all’appuntamento e mi ha pregato di passare da casa sua a prendere questo per darlo a te».

Fece scivolare sul parapetto un sacchetto di velluto blu, della dimensione di un pugno. L’afferrai discretamente, senza distogliere lo sguardo dal fiume.

«Che cos’è? Quando l’ho incontrato nel suo negozio parlava di dovere un favore a un amico».

«Mi ha detto solo di riferirti che è ciò di cui hai bisogno, che devi stare attento a come lo usi e a coloro che potrebbero fare di tutto per averlo».

Fece una pausa, si voltò ancora una volta, poi tornò a guardare il ponte. Il suo viso regolare, perfettamente rasato, salvo che per i sottili baffetti, e gli scurissimi capelli corti pettinati di lato, mi ricordò uno di quegli attori italiani degli anni ’50 e ’60 che tanti cuori avevano infranto con le loro facce da latin lover.

«Ora è meglio che…», riprese dopo qualche secondo ma interrompendosi di colpo. Qualcosa aveva attirato la sua attenzione. «…Ci hanno trovati!», esclamò terrorizzato biascicando le parole e tradendo il forte accento siciliano.

«Ma chi?», chiesi spaventato facendo per girarmi.

«Non voltarti», sibilò Riccardo. «Fai finta di nulla, forse riusciamo a fregarli. Ritorna verso Malà Strana, ma stai alla larga dal negozio di Hašek, mi raccomando. Buona fortuna e che il Grande Architetto ti protegga!».

Si allontanò in gran fretta mischiandosi tra la folla, mentre io ero paralizzato dalla paura. Tremando, infilai il sacchetto nella tasca della giacca e meccanicamente mi rincamminai nella direzione dalla quale ero venuto. Nell’incerta luce dei lampioni, che già da un po’ si erano accessi per il sopraggiungere della sera, mi sembrò che due persone, provenienti dalla parte di Staré Mĕsto, la Città Vecchia, si affrettassero verso di me. Potevano essere due dei tanti turisti che affollavano ancora il ponte Carlo, tuttavia decisi di allontanarmi e mi diressi rapidamente verso la parte opposta, a Malà Strana.

Con passo veloce, ma senza correre, cercavo di scivolare tra i passanti e di tanto in tanto sfioravo il sacchetto nella tasca. All’improvviso la tentazione di girarmi fu incoercibile. Non c’erano dubbi, due uomini dall’aspetto poco rassicurante mi tenevano gli occhi incollati addosso: spalle squadrate, abito scuro di pessima qualità e capelli cortissimi. Quentin Tarantino li avrebbe scelti per scimmiottare dei malavitosi balcanici.

Accelerai, costringendomi a non voltarmi più, ma credendo di sentire – a tal punto ero spaventato – il rumore dei passi dei miei inseguitori. Attraversai velocemente la torre posta a guardia dell’estremità del ponte, dal lato di Malà Strana, e proseguii fino a un fastfood che, data la bella stagione, era dotato di tavolini all’aperto all’interno di un delizioso cortiletto. Preso dal panico, m’infilai nel palazzo e iniziai ad aggirarmi tra i tavoli affollati di giovani. Dopo qualche istante, i due uomini comparvero all’ingresso del cortile: non sembravano intenzionati a lasciarmi andare. Aggredirmi in quel luogo era improbabile, ma non per questo ero salvo. Non potevo uscire, infatti, perché come due cani da guardia erano rimasti all’ingresso del locale e non mi toglievano gli occhi di dosso. Avrei voluto prendermi a schiaffi. Nonostante i guai in cui mi ero spesso cacciato, sfuggire a degli inseguitori non era proprio il mio forte.

Ormai rassegnato, stavo ritornando verso l’uscita, disperato ma deciso a finirla in un modo o nell’altro, quando la fortuna decise di darmi una mano. Nel locale c’erano una quindicina di ragazzi italiani in gita scolastica, con tanto di docente e chitarra, che si preparavano a uscire dopo aver cenato lì. Mi venne un’idea.

Avvicinandomi e mettendo il braccio sulla spalla di uno stupito ragazzotto, gridai: «Forza ragazzi, cantiamo tutti insieme…».

Mi guardarono incerti per un attimo mentre, vincendo il mio imbarazzo, cominciai a intonare un pezzo di Ligabue. Gli avventori del fastfood osservarono tra il divertito e l’infastidito quei rumorosi italiani che uscivano cantando a squarciagola. Mi ero piazzato in mezzo al gruppo abbracciando due studenti di venti centimetri più alti di me e cantando con loro. La mia sortita sconvolse i piani dei miei inseguitori che, nel vano tentativo di afferrarmi, si lanciarono addosso ai ragazzi che mi circondavano. Pessima idea.

«Ehi, ma che maniere sono?», dissi rivolto ai due.

I ragazzi li guardarono in cagnesco e il livello di adrenalina cominciò a salire. I due inseguitori si trovarono di fronte un branco di cani da caccia e quel che ne seguì fu una rissa vera e propria. L’insegnante cercava di placare i suoi studenti, mentre i due cercavano di difendersi. La mischia coprì la mia fuga.

Rivolsi un grazie silenzioso ai miei involontari complici e ritornai sui miei passi, di nuovo verso il ponte Carlo.

Il sollievo per averla scampata durò poco. Mentre avanzavo spedito per le strade della Città Vecchia l’angoscia cominciò a invadermi come un olio nero e denso. Lo sentivo salire dallo stomaco e più andavo avanti più si mescolava e prendeva forma e vigore, giungendo fino alla gola e procurandomi conati di vomito. Mi appoggiai al muro di un palazzo, massaggiandomi lo stomaco e respirando profondamente per reprimere la nausea. Lentamente riuscii a calmarmi un po’ e così ripresi il cammino.

Giunsi alla Prašná brána, la Torre delle Polveri, svoltai a sinistra e m’infilai nel mio albergo. Il concierge notò l’agitazione sul mio volto e porgendomi la chiave mi chiese premuroso se stessi bene.

«Tutto a posto, grazie», risposi telegrafico.

Prima di tornare in camera gli chiesi se ci fossero messaggi per me.

«No, signore, niente».

Meglio così. Dopotutto, l’unica persona che avrei voluto sentire in quel momento, mia moglie Àrtemis, mi aveva chiamato la mattina, prima della conferenza. Non era proprio il caso di coinvolgerla di nuovo in una delle mie solite storie folli.

Presi l’ascensore con la testa piena di dubbi, di numerose domande e nessuna certezza se non una: buttarmi sul letto e annullarmi per qualche ora.

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