Capitolo 8
Vittoriosa, Malta, 11 luglio, ore 13:00
Il barcaiolo ci lasciò sul molo ai piedi del monumento alla libertà, una piccola collina artificiale coperta di alberi, rocce e statue a fare da benvenuto all’antica capitale dei Cavalieri di San Giovanni.
A poche centinaia di metri da noi ammirammo la serie di yacht di lusso ormeggiata lungo lo Yacht Marina della città. Da uno di questi, una barca enorme, vidi scendere un uomo vestito di bianco, evidentemente il proprietario.
«Chissà che diavolo fa questa gente per avere barche del genere», esclamai.
«Magari sono trafficanti di reperti archeologici», mormorò Àrtemis.
«Se ti riferisci a Viktor, lui non è un trafficante», le fece immediatamente eco Anna, un po’ risentita.
Mia moglie scosse la testa. «Scusami, so che tu lavori per lui, ma ho un odio viscerale per tombaroli e trafugatori di reperti archeologici, li strangolerei con le mie mani. Ho accettato di lavorare per Babikov, però non vuol dire che lui sia diventato di colpo un benefattore ai miei occhi».
La russa sorrise bonaria. «Ti capisco e ti sorprenderà scoprire che spesso agisce proprio come se lo fosse». Anna doveva davvero molto a quell’uomo, come ci aveva spiegato lei stessa, era inutile insistere con quell’atteggiamento. Àrtemis avrebbe dovuto capirlo una buona volta. Dopotutto aveva deciso lei di stappare quella bottiglia di champagne.
Ci inerpicammo su per la salita che dalla marina portava nel cuore dell’antica capitale degli Ospedalieri. Il caldo era ormai intenso e mi sarei strappato volentieri anche i pantaloni e la camicia di lino che avevo addosso.
«Sante ha un appartamento molto bello all’ultimo piano di un palazzo d’epoca», dissi una volta giunti nella raccolta piazza Misrah ir-Rebha. «Gli piace vivere dove i Cavalieri di San Giovanni risiedevano prima della costruzione della Valletta. Ha le mie stesse fissazioni in fatto di atmosfere. Se non sbaglio, ha anche un piccolo appartamento nell’antica capitale Mdina».
Era ormai ora di pranzo e tra i vicoletti di Vittoriosa – o Birgu, in lingua maltese – non c’era anima viva. L’architettura, simile a quella della Valletta, era caratterizzata da un intrico di viuzze ancora più suggestivo, e alcune di queste erano così strette che le immancabili gallarijas quasi si toccavano.
«Ci siamo quasi», dissi indicando il cinquecentesco Auberge d’Angleterre. «Questa è l’antica sede degli Ospedalieri inglesi residenti a Malta, è a pochi metri da qui».
Giungemmo finalmente davanti al palazzo dove abitava Sante. Inserii la chiave nel portoncino di legno e subito una finestra al pianterreno si aprì.
«Sante!», esclamò una voce di donna.
«No, signora, sono un suo amico», dissi in inglese.
Una testa sbucò tra le sbarre della grata che proteggeva la finestra e due occhi iniziarono a fissarci intensamente. «Siete italiani?», chiese invece la donna in un italiano più che decente.
«Sì, possiamo parlare un momento?», domandai speranzoso.
Per tutta risposta, quella richiuse la finestra. Pensai che la conversazione fosse finita lì e che avessi detto qualcosa di sbagliato, ma dopo un istante ricomparve sull’uscio del piccolo edificio a tre piani.
«Chi vi ha dato le chiavi?», chiese lei con fare sospettoso. Era sulla settantina, ben in carne e con un viso che non risultava subito simpatico.
«Sante me le ha lasciate nel suo magazzino», ammisi. «Siamo suoi cari amici e lo stiamo cercando, lei ne sa niente?».
La donna assunse un’espressione preoccupata e fece di no con la testa. «Non lo vedo da parecchie settimane. In genere, quando parte per qualche viaggio, viene a salutarmi, è sempre tanto gentile». Abbassò la voce, guardò a destra e a sinistra e sussurrando aggiunse: «Ho anche pensato di avvisare la polizia».
«Lasci che diamo un’occhiata in casa sua e sapremo dirle se è il caso di fare una denuncia o meno. Siamo preoccupati quanto lei», dissi sperando di tranquillizzarla un po’, quindi aggiunsi: «Piuttosto, lei non ha visto nessuno in giro nelle ultime settimane? Qualcuno che le è parso fosse interessato a questo palazzo?».
La donna rifletté per qualche istante, quindi annuì. «A dire il vero, sì. Sapete, questa è una piccola città e la gente si conosce. Si vede subito se uno è un turista o meno e quell’uomo non lo era».
«Quale uomo?»
«Uno che ho visto un paio di volte passeggiare nel vicoletto, di colore, ma non nero, un marocchino o un tunisino. Aveva uno sguardo cattivo, cercava qualcosa».
«Quando è successo?»
«Forse tre settimane fa. È stato allora che ho sentito dei rumori nel palazzo, di notte. Al secondo piano c’è un bed and breakfast, ma in quei giorni non c’erano ospiti. Sante già non lo vedevo da un po’ e allora mi sono spaventata. Io sono sola, sono vedova, mio marito…».
Stava iniziando a raccontare la storia della sua vita e così, intervenendo tempestivamente, Àrtemis la bloccò: «Grazie signora, è stata molto utile, le faremo sapere se riusciamo a scoprire qualcosa».
Liberatici della vecchietta, salimmo al terzo piano. Quel che trovammo nel grande appartamento di Sante, una volta varcata la soglia, non lasciava spazio ai dubbi.
«Santo cielo!», fu l’espressione di sorpresa di Àrtemis.
I mobili erano stati aperti e il contenuto sparso a terra in ogni stanza.
«Un tizio di colore che gironzolava da queste parti e che a quanto pare è riuscito a entrare», commentò Anna.
«Magari un ladro», ipotizzò Àrtemis.
«Sembrerebbe, a prima vista», le fece eco Anna.
«Allora è assai probabile, per non dire certo, che fosse interessato al meccanismo di Aurìchalkos e al filmato», concluse mia moglie.
Già, il filmato. Avevo lasciato un messaggio alla segreteria telefonica del MovieLab, il negozio di fotografia dove Sante doveva aver fatto la copia.
«Spero che i tizi del laboratorio fotografico mi richiamino, così magari riusciamo a vederla quella benedetta pellicola e a capirci qualcosa in più», dissi mentre stavo attento a dove mettevo i piedi. In quel disordine mi balzò agli occhi un dettaglio interessante. «Avete notato? Hanno cercato di fare il tutto in maniera silenziosa, i cassetti non sono stati tirati fuori con violenza, ma ispezionati con cautela».
«Ma non l’hanno data a bere alla signora al pianterreno», aggiunse Àrtemis.
Cercammo un po’ in giro e finalmente lo sguardo mi cadde su un libro appoggiato su un tavolino nel salotto. «Guardate qui!», dissi attirando l’attenzione di Anna e Àrtemis. «The Aquatic Ape Hypothesis – studies on sir Alister Hardy’s theory di Elena Morgano. TAAH: l’indicazione su quel foglietto trovato al magazzino. Sono le iniziali del titolo di questo libro e all’interno ci sono le note alle quali si riferiva Sante.
Credo che la Morgano voglia solo mantenere un basso profilo per non diventare lo zimbello del mondo accademico, ma sono persuaso che lei ritenga la teoria di Hardy qualcosa di più di un affascinante delirio. Il suo intervento a Barcellona è stato illuminante e, quando le ho parlato, ho colto più dai suoi silenzi che dalle sue parole.
Ci guardammo per qualche secondo senza riuscire a capire a che cosa si stesse riferendo Sante.
«Barcellona? Elena Morgano?», domandò Àrtemis. «Ma di cosa sta parlando?».
All’interno del libro, autografato dall’autrice con una dedica a Sante, c’era anche il suo biglietto da visita con il nome, la qualifica – biologa genetista delle specie marine – e il numero di cellulare. Ripiegato nel libro, trovai inoltre il programma di un convegno internazionale.
BLOOP, AQUATIC APES AND SONAR EXPERIMENTS: WHICH FUTURE FOR SEALIFE?
Aquarium de Barcelona, Barcelona, May 28-29
«“Bloop, scimmie acquatiche ed esperimenti con il sonar: quale futuro per la vita nel mare?” Ma che razza di convegno è?», domandai, sempre più confuso.
«E che cosa sono le scimmie acquatiche?», aggiunse Àrtemis.
«Vediamo che c’è scritto nella quarta di copertina del libro».
Grazie alla sua decennale esperienza come biologa genetista delle specie marine, Elena Morgano illustra una delle teorie evoluzionistiche più discusse del Novecento: quella della scimmia acquatica, formulata da sir Alister Hardy. È possibile – si domandava Hardy – che i progenitori dell’homo sapiens, una volta scesi dagli alberi e prima di addentrarsi nelle savane preistoriche, siano passati per una fase acquatica?
L’autrice riporta i punti salienti della teoria di Hardy, nonché le critiche mosse dalla maggior parte del mondo accademico, aprendo una nuova strada per futuri studi.
«Ma perché Sante si interessava a questa roba?», domandò Anna.
Mi strinsi nelle spalle. «Il mare è stata la sua vita per molti anni. È sempre stato affascinato dalle sue creature e dal mistero che circonda alcune di esse», risposi scorrendo distrattamente la biografia di Elena Morgano. «Inoltre ha il fiuto per gli affari, ma è anche un tipo eccentrico. Questa teoria strampalata deve aver stuzzicato la sua immaginazione e… ah, ma guarda un po’».
«Cosa?»
«Sembra che Elena Morgano sia a capo di un istituto di ricerca marina senza scopo di lucro, la Platamon onlus».
«Platamon?», chiese stupita Àrtemis.
«Ti dice niente?»
«Non si riferirà mica a…».
«Le nostre grotte platamonie? A quanto leggo qui, sì».
«Che ne dite di far capire qualcosa anche a me?», intervenne Anna incrociando le braccia sul petto.
«Le grotte platamonie sono delle aperture presenti lungo il fianco del monte Echia, a Napoli», spiegai. «La sede dell’istituto è lì».