Capitolo 45
Chartres, 21 giugno, ore 11:50
Solstizio d’estate
Fin dall’apertura era entrata molta gente all’interno della cattedrale e più si avvicinava mezzogiorno, più i turisti aumentavano. La sera prima il professor Carpenter mi aveva detto che in realtà il raggio di sole toccava il tenone alle 13:50, e non a mezzodì. Fino a quel momento avevo dato per scontato che il fenomeno avvenisse allo zenit, ma evidentemente non avevo letto con attenzione le notizie che avevo trovato.
«Le cose cambiano, signor Aragona», mi aveva spiegato mentre cercavo di mangiare qualcosa in uno dei bistrot affacciati sulla piazza della cattedrale, «e quello che nel 1701 era mezzogiorno, nel tempo è diventato le 13:50. Prima l’adeguamento dell’ora di Chartres su quella di Parigi ha portato a una differenza di quattro minuti, data la posizione di Chartres a circa un grado a ovest della capitale: quando a Parigi era mezzogiorno, a Chartres mancavano ancora quattro minuti. Poi l’allineamento della Francia, nel 1911, al fuso di Greenwich, ha aggiunto un’ora meno cinque minuti all’ora di Parigi, ma solo cinquanta minuti all’ora di Chartres. Se consideriamo anche l’introduzione dell’ora legale, ecco che il fenomeno si verifica un’ora e cinquanta minuti dopo mezzogiorno».
Quella mattina, mentre mi preparavo – Oscar e Andrea erano riusciti a convincere Thomas a farmi seguire l’operazione dal furgone – avevo ripensato alle parole di Carpenter. Mi ero domandato se Asar fosse stato al corrente dell’orario preciso in cui il fenomeno si verificava e come avrebbe reagito in caso contrario. Non avrei dovuto attendere a lungo, comunque.
Mancavano dieci minuti a mezzogiorno ed effettivamente del disco luminoso non c’era traccia. Non ancora.
«Tenente Thomas, qui tutto tranquillo», disse uno degli agenti in borghese sussurrando alla radio.
Dalle telecamere potevamo vedere i curiosi che gironzolavano già attorno alla lastra con il tenone. Di tanto in tanto qualcuno controllava l’ora e poi si allontanava. Ma Asar poteva essere chiunque, io non avevo mai visto il suo volto, ma solo la sua maschera.
A un certo punto un uomo robusto con un cappellino entrò nel raggio di azione delle telecamere. Girò un paio di volte attorno alla lastra nel pavimento e gettò più di uno sguardo verso la vetrata.
«Tenete d’occhio quel tipo», disse Thomas nella trasmittente.
«Ricevuto», rispose uno degli uomini.
Non poteva essere Asar quell’uomo. Anche se aveva sempre indossato una lunga clamide nera, le due volte che l’avevo visto, non mi era parso così “in carne”.
L’uomo con il cappellino infatti si allontanò dopo poco.
«Mancano due minuti a mezzogiorno», osservò Andrea guardando l’ora. «Può darsi che il nostro uomo sia al corrente della questione dell’orario».
«Aspettate un momento!», dissi guardando uno dei monitor. «Quell’uomo…».
Un tipo completamente calvo, con jeans, giubbino leggero, occhiali da vista fumé e una folta barba si era avvicinato al tenone. Era rimasto lì fermo e poi si era messo a parlare con un altro turista. Si vedevano i due chiacchierare e sorridere dopo aver controllato l’ora sull’orologio. Il calvo strinse la mano dell’altro, sembrò ringraziarlo per qualcosa, e poi si allontanò.
«Dubois, sei riuscito a sentire cosa si dicevano?», domandò Thomas.
«Sembra che il calvo non sapesse che il fenomeno avviene tra due ore, tenente», sussurrò il gendarme, «l’altro gliel’ha spiegato».
«Dov’è adesso? Riuscite a vederlo?»
«Sì, è andato verso il coro, sembra un turista qualunque».
«Non perdetelo di vista».
«Ricevuto».
Oscar mi guardò con un’espressione interrogativa sul volto. «Che c’è Lorenzo, hai notato qualcosa?»
«Mah… mi sembrava di conoscerlo, ma forse mi sono sbagliato».
Trascorremmo due ore in tensione, passando in rassegna tutte le persone che stazionavano attorno alla lastra del pavimento e la vetrata. A pochi minuti dal fenomeno, si vedeva chiaramente un piccolo disco luminoso che avanzava verso il tenone.
«Ci siamo», sussurrò Thomas, «fra pochi minuti potrebbe succedere qualcosa, occhi aperti!».
«Ricevuto», risposero gli uomini quasi in coro.
Dopo un istante ricomparve il tipo calvo che avevo notato un paio d’ora prima. «Eccolo di nuovo…».
Rimase in piedi a fissare il disco solare, ma adesso sembrava molto nervoso. Si guardava continuamente intorno come se cercasse qualcuno. Si tolse per un istante gli occhiali per massaggiarsi gli occhi e l’attimo prima di infilarseli di nuovo, lo riconobbi.
«Non è possibile… non può essere!».
«Che c’è Lorenzo, chi è quell’uomo, lo conosci?», mi domandò Oscar.
«Fermatelo, è lui! Deve essere lui!», urlai senza rispondere alla domanda di Oscar.
«Dubois, il calvo, fermate il calvo!», ordinò Thomas.
Gli uomini scattarono quasi all’unisono e bloccarono il calvo che fece pochissima resistenza. Lo trascinarono verso un angolo del transetto sud. Thomas aprì la porta del furgone e si precipitò fuori, seguito da Andrea e Oscar. Mi accodai anch’io ma fui fermato da un’occhiata del tenente dell’Interpol francese. «Lei resti qui!».
«Se lo scordi, conosco quell’uomo, fatemi parlare con lui!», dissi mettendomi accanto a Oscar.
«Coraggio, Thomas, portiamolo con noi, me ne assumo io la responsabilità».
Entrammo nella cattedrale e raggiungemmo il transetto sud. L’azione dei poliziotti aveva creato un po’ di agitazione, ma le forze dell’ordine stavano tenendo a distanza i curiosi e così ci portammo rapidamente nel punto in cui avevano bloccato il calvo. Quando mi trovai al suo cospetto non riuscii a credere ai miei occhi.
Gli amici diventeranno nemici. Ricordai le parole della Janara.
«Tu, sei tu…», sussurrai addolorato.
I poliziotti si erano accorti che quell’uomo indossava una barba posticcia e ora che gliel’avevano strappata, davanti a me, seppure senza un capello in testa, c’era il volto familiare di Michele de Sangro.
Non appena mi vide, Michele smise di lottare e si lasciò cadere in ginocchio. «Lorenzo, perdonami…».
Non ci vidi più e mi avventai su di lui, ma Oscar mi fermò. «Michele, ma come hai potuto? Dov’è mia moglie, che ne hai fatto?!».
Michele mi lanciò uno sguardo smarrito e stupito. «Tua moglie? Non ne so niente, di che parli?»
«Tu sei Asar, sei il pazzo che ha architettato tutto questo. Hai ucciso Hašek per rubargli il manoscritto, il bulgaro, minacciato me e altre persone e forse anche rubato l’orologio alchemico. E soprattutto hai rapito mia moglie! Hai il coraggio di far finta di niente?!».
Michele aveva lo sguardo sempre più stupito. «Io ho commissionato il furto del manoscritto e vi ho minacciato con un bluff, Lorenzo, e di questo mi assumo la responsabilità, ma non ho ucciso nessuno, né ho rapito tua moglie! Mi sono inventato la storia di Asar per convincerti ad aiutarmi, perché volevo evitare che qualcuno mettesse le mani su un segreto che Raimondo di Sangro aveva nascosto in maniera forse non efficace. Perché qualcuno avrebbe potuto usarlo per creare altri miti e diffondere altre sciocchezze sul suo conto… Volevo proteggere il nome del mio avo, della mia famiglia. Ho sbagliato e pagherò, ma non ho ucciso nessuno!».
Andrea, Oscar e io ci guardammo senza riuscire a capire, ma non avemmo il tempo di metabolizzare quello che Michele ci stava dicendo che una voce alle nostre spalle ci fece voltare bruscamente.
«Pistole a terra, tutti, altrimenti le faccio saltare il cervello!».
Urla di paura salirono fin sulle volte della cattedrale, rapidamente la zona attorno al transetto sud si svuotò e i poliziotti cercarono di calmare gli altri visitatori per non far precipitare la situazione nel panico.
Il vero responsabile di tutto era lì, davanti a me. La mente malata dietro a quella scia di sangue e minacce. Con indosso un abito talare, il bel volto impudentemente senza alcun trucco, Riccardo Micali teneva una pistola puntata alla tempia di mia moglie, che aveva la testa coperta da un fazzoletto colorato.
«Arti…», mormorai con il cuore che batteva all’impazzata.
Mia moglie, le lacrime agli occhi, mi guardava terrorizzata. «Lorenzo… aiutami».
«Sta’ zitta, ’u capisti, sta’ zitta e non ti succederà niente!».
«Stia calmo, parliamo», disse Thomas portando le mani avanti.
«Allontanatevi tutti da quella lastra di marmo e tu, tignusu, metti immediatamente il rubino sul tenone. Svelto! Manca un minuto!».
Tutti ci voltammo a guardare Michele che sembrava esitare.
«Michele, ti prego, fa’ come ti dice, hai con te il rubino, vero?», lo implorai.
Michele, tremando per la tensione e la rabbia di dover cedere, lo sguardo fisso su Riccardo, tirò fuori dalla giacca il rubino alchemico che avevo fabbricato con i miei confratelli.
«Presto, sulla lastra!», ordinò Riccardo premendo la pistola con più forza sulla tempia di Àrtemis.
Michele appoggiò la pietra sul piccolo tenone di metallo. Sembrò restare miracolosamente in bilico, a pochi centimetri dal disco solare che ormai era lì vicino.
Trattenemmo il respiro per gli interminabili successivi quarantacinque secondi e quando il raggio toccò il rubino, un bagliore rossastro si diffuse tutt’attorno. Contemporaneamente una traccia che si faceva via via più intensa comparve sulla lastra di marmo. Linee, curve, brevi segmenti, il tutto molto preciso e ben delineato. Dopo un istante la traccia divenne chiarissima e mi tornò alla mente la fotografia di Matteo.
«È la pianta della cattedrale…», mormorai.
Nell’angolo in alto, a sinistra della pianta, approssimativamente tra il transetto nord e il coro, comparve un cerchio composto da nove piccoli punti.
«Eccola! È lì!», esultò Riccardo.
Ipnotizzati dalla pianta apparsa dal nulla, anche i poliziotti stentavano a credere ai loro occhi.
«La Cattedrale dei nove specchi…», disse in un sussurro Michele, «allora esiste».
Riccardo lanciò uno sguardo folle a tutti noi e poi si soffermò su di me. «Tu vieni con me, voi altri fuori! Avete capito? Fuori! Sennò ammazzo la greca!».
Gli uomini rivolsero una muta domanda al loro comandante e Thomas non poté fare altro che indicare l’uscita. «Andiamo, forza, muoversi! Tutti fuori!».
I poliziotti trascinarono via Michele. Incrociai lo sguardo preoccupato di Andrea mentre si allontanava insieme a Oscar e le sorrisi, cercando di trovare dentro di me una forza che non avevo.
«Forza, Lorenzo, muoviamoci», disse Riccardo indicando con la testa il transetto nord.
Avanzai lentamente, passandogli accanto. «Sta’ calmo, Riccardo, faccio quello che vuoi, perché non abbassi la pistola?»
«Zitto, Lorenzo, zitto e cammina!».
Attraversammo la navata ormai deserta, io davanti e Riccardo con Àrtemis dietro. I nostri passi risuonavano come una marcia funebre.
«La tua azienda, la Montechiaro… che sciocco, Jerôme Clairmont… Chiaromonte… Montechiaro. C’era anche un Jerôme Clairmont tra gli utenti del forum Alquimia. Hai voluto dimostrare quanto fossi bravo con la cabala fonetica? Tu sei anche il ladro dell’orologio alchemico, non è così?»
«Non sei l’unico esperto di esoterismo!», commentò sprezzante il siciliano. «Girolamo Chiaramonte, alchimista di Lentini, a lui mi sono ispirato per il mio pseudonimo. L’orologio è parte di questo mistero e né tu, né quel vecchio ottuso l’avete capito. Hašek ha avuto quello che si meritava. Mi ha tenuto nascosto tutto, vecchio rincoglionito, e si è persino fatto fregare il manoscritto da quegli idioti della confraternita egizia. Cosa avrei dovuto fare? Sono dovuto intervenire». Riccardo fece una pausa e scoppiò a ridere. La sua risata echeggiò sinistra tra le volte e i pilastri della cattedrale. «Che grande messinscena che ho ideato, di’ la verità Lorè!».
«Tu sei pazzo, Riccardo», mormorai ormai giunto dall’altra parte del transetto.
«Basta! Che ne vuoi capire tu?».
Nel punto indicato dalla pianta non trovammo niente di particolare.
«Che cosa significa? Dov’è l’accesso?», si domandò furioso Riccardo, la pistola puntata dietro la schiena di Àrtemis.
Allargai le braccia, disperato. «Riccardo, non c’è alcun accesso, lo vuoi capire? La Cattedrale dei nove specchi non esiste, è un simbolo, un’invenzione letteraria…».
Il suo sguardo di fuoco, che strideva con l’abito da prete che indossava, si accese come se avesse avuto una diabolica illuminazione. «Ma quale invenzione, ho capito! La cripta! È lì che dobbiamo andare! Verso l’ingresso principale, presto!».
Ritornammo sui nostri passi, passammo sopra al labirinto e ci dirigemmo verso destra, dove si trovava uno degli accessi alla cripta. Scendemmo nel sottosuolo, lì dove erano i resti degli edifici di culto costruiti in epoche precedenti all’ultima fase della cattedrale, quella del XIII secolo. Un cartello ci informava che stavamo entrando nella cripta di San Fulberto del secolo XI. Davanti a noi si parò una galleria con cappelle che si aprivano sui lati. La percorremmo in fretta e ci rendemmo conto che seguiva esattamente la lunghezza della cattedrale soprastante.
Alla fine della galleria ci ritrovammo al cospetto della replica della Vergine del sottosuolo, la famosa statua lignea venerata da secoli a Chartres, posta dietro a un altare di fronte al quale erano sistemate numerose sedie. Era la Chapelle de Notre-Dame-de-Sous-Terre.
Riccardo si guardò intorno agitato, trascinando a destra e a sinistra la mia povera Àrtemis. «Dov’è, dov’è?!», urlò.
«Calmati», dissi cercando di mantenere il sangue freddo, «non siamo ancora arrivati al punto indicato dalla mappa, evidentemente». Mi guardò in cagnesco e poi mi fece segno con la testa di proseguire.
Superai il divisorio che separava la cappella dal resto della cripta. Subito dietro, in una rientranza nel muro sulla destra, c’era il famoso Pozzo dei forti, dal quale si diceva che i sacerdoti galli attingessero l’acqua per le abluzioni sacre.
«Forse è qui, forse è una delle cappelle lì davanti», provai a improvvisare.
«Ok, fai strada!».
Avanzai di qualche altro metro e mi fermai presso un’apertura nel muro, alla mia destra. C’era un cartello che diceva “la crypte Saint Lubin, IXeme siècle”.
Guardai Riccardo. «Forse è qui, questa parte mi sembra molto antica».
Riccardo fece un cenno con la testa. «Prima tu».
Scesi di un altro livello ancora. Le poche luci che illuminavano quegli spazi sotterranei servivano a malapena a non cadere. Dopo pochi gradini ci ritrovammo davanti a un pilastro imponente, al centro di un ambiente di forma circolare. Un cartello spiegava di cosa si trattasse. Iniziai a leggere.
Cripta carolingia di Saint Lubin.
Costruita nel IX secolo, dopo l’attacco dei Vichinghi, si può raggiungere grazie a una scalinata del XVIII secolo. Si tratta di una parte della chiesa carolingia del vescovo Gislebertus, dove si conserva una parte di un antico muro gallo-romano, forse i resti delle mura di cinta del santuario pagano. È situata sotto al coro della cattedrale attuale, proprio in corrispondenza dell’altare maggiore. La cripta ha assunto il nome di Saint Lubin solo nel 1857. Appoggiato al muro antico, c’è un imponente pilastro. Realizzato con materiali riciclati da edifici precedenti, probabilmente l’ex tempio gallo-romano, è appoggiato su una lastra di calcare. Per molti rappresenta il vero e proprio centro della cattedrale…
Restammo a guardare il massiccio pilastro, che poggiava circa un metro più in basso rispetto a dove ci trovavamo noi, come se fossimo a un passo dal segreto di quel luogo.
«Il centro della terra…», mormorò Riccardo, «il pilastro del mondo».
«Potrebbe essere qui», annuii sperando che si decidesse ad abbassare la pistola, «sì, la testa del serpente tellurico schiacciata dal pilastro di fondazione, ha senso».
«Sì, ma dov’è? Dov’è la Cattedrale dei nove specchi?!», si domandò di nuovo esasperato, agitando nervosamente la pistola.
«Aspetta, sta’ calmo, fammi continuare a leggere il cartello…».
Secondo alcuni studiosi, dietro il pilastro si celerebbe una camera dolmenica composta da dodici menhir, corrispondenti a un calendario megalitico solare. Non c’è alcuna certezza in merito, essendo gli scavi archeologici, iniziati negli anni ’20 da René Merlet, ancora in corso.
Effettivamente, a destra del semicerchio dove si trovava il pilastro, c’era un varco nella roccia, chiuso da una catena con un cartello “divieto di accesso ai non addetti ai lavori”. Gli scavi di René Merlet.
Riccardo e io ci scambiammo un’occhiata e io capii al volo. Prima di scavalcare la catena e inoltrarci nell’angusto e buio spazio degli scavi, il siciliano tirò fuori una torcia elettrica da sotto la tonaca da prete e la gettò ai miei piedi. Illuminai una pericolante scala di legno che conduceva ancora più in profondità, ma il passaggio s’interrompeva bruscamente, dopo circa tre metri. Era un vicolo cieco.
Scossi la testa, esausto. Mi voltai verso Riccardo e allargai le braccia. «Che facciamo? Se è qui dietro per noi è impossibile raggiungerla».
Lo sguardo di Riccardo era sempre più folle. «Se il Saint-Germain l’ha vista, vuol dire che è raggiungibile!», sibilò con la schiuma alla bocca.
«Cosa vuoi che faccia? Io…».
«Lorenzo…», sussurrò Àrtemis, lo sguardo fisso sul pavimento di pietra calcarea.
Mi voltai e lo vidi. Un piccolo disco formato da nove punti lampeggiava impercettibile nel buio, tra la polvere e i detriti.
Mi guardai intorno facendo luce con la torcia. Nel cunicolo c’erano alcuni attrezzi. Afferrai una pala e iniziai a spostare un po’ di polvere. Ora si distingueva una lastra grezza di forma quadrata al centro della quale lampeggiava, quasi impercettibile, il cerchio.
«Com’è possibile che gli archeologi non l’abbiano mai visto?», mi domandai inginocchiandomi per osservare più da vicino.
Riccardo fece un sorriso compiaciuto. «Perché loro non avevano il catalizzatore del principe di Sansevero. È chiaro adesso, la lastra appare solo quando lo si posiziona sul tenone il giorno del solstizio d’estate. Presto, prendi quel piede di porco e sollevala!».
Feci come mi aveva detto e con un notevole sforzo riuscii a fare leva con la sbarra e a sollevare la lastra. Illuminai il varco e vidi una scalinata scavata in maniera approssimativa nella roccia.
«Dopo di te, Maestro Aragona».
Scendemmo ancora di più nelle viscere della terra e, respirando affannosamente, varcammo la soglia del luogo più incredibile che avessi mai visto. Alla luce della torcia comparve una camera composta da otto massicci pilastri, otto menhir o piedritti, quattro per ogni lato, e sormontata da quattro enormi architravi, che precedeva una piccola grotta circolare. La camera dolmenica dei druidi galli esisteva davvero.
Su ciascun piedritto era appeso quello che sembrava un disco circolare concavo, come uno scudo. Mi accostai a quello più vicino per illuminarlo meglio e notai che erano metallici. Un nono scudo, rivolto leggermente verso l’alto, era appeso su un menhir isolato che si trovava al centro della parte circolare della camera.
«Oddio…», mormorai.
Riccardo iniziò a ridere. «Eccola, Lorenzo, eccola!».
Quegli scudi antichissimi riflettevano, seppure in maniera distorta, come degli specchi. Nove specchi. La Cattedrale dei nove specchi era in realtà un antico luogo di culto dei druidi, le cui conoscenze, unitesi sincreticamente a quelle egizie, forse tramite i romani, erano racchiuse in quel luogo. Avanzai di qualche passo, illuminando quel tempio arcano con la torcia, e dopo un paio di metri poggiai il piede su una pietra circolare. L’illuminai e mi resi conto che era l’esatta riproduzione del labirinto della cattedrale superiore. O forse ne era il prototipo.
Riccardo si avvicinò e mi porse qualcosa. «Usalo».
Era l’orologio alchemico. Lo guardai senza capire.
«Prima che quell’idiota di Hašek si facesse fregare il manoscritto ho avuto modo di studiarlo, cosa credi? E se quella sera sono venuto sul punte Carlo e ti ho consegnato le parti restanti e la fialetta è solo perché ero arrivato a un punto morto. Il tempo stringeva e tu potevi davvero dare un’accelerata alla mia ricerca. Ho avuto ragione e tutto sommato anche il vecchio. Nel manoscritto si accenna rapidamente allo “strumento” inventato dal principe».
Annuii. «Sì, mi ricordo quella parte adesso che ci penso».
«È quello, è l’orologio. Forza, posiziona le lancette a mezzogiorno meno nove minuti e appoggialo sul labirinto».
Feci come voleva lui. Il carillon dell’orologio iniziò a emettere la melodia che avevo ascoltato a Praga. Attendemmo alcuni secondi, ma non accadde nulla.
Riccardo, dapprima infuriato, cominciò ad assumere un’espressione smarrita. «Perché? Perché?». La sua pistola riprese a premere contro il fianco di Àrtemis facendola contorcere per il dolore.
«Aspetta, sta’ calmo, ho capito!», dissi raccogliendo l’orologio da terra. Riccardo sembrò riacquistare il controllo e ricominciò a seguire quello che stavo facendo io. «La melodia da usare non è questa, ma la composizione di Mozart».
«Perché?»
«Forse è stata composta in modo particolare, così da creare le frequenze giuste».
Non hoc totum.
Quel “questo non è tutto”, inciso sul piccolo cartiglio che usciva dalla cassa quando gli automi dell’orologio iniziavano a muoversi, doveva essere un messaggio ben preciso.
Notai che la cassa dell’orologio poteva essere aperta. Con un piccolo scatto misi in luce i meccanismi finissimi di quel gioiello di microingegneria. Su una serie di venti piccoli dischi, a stento visibili a occhio nudo, erano segnate le note musicali.
Sollevai lo sguardo. Riccardo mi fissava intensamente avvinghiato ad Àrtemis, il cui volto era sempre più terreo.
«Posso infilare la mano nella giacca?», domandai tenendo gli occhi su Riccardo. «Ho la sequenza di note nel mio cellulare».
Riccardo annuì lentamente. «Se fai lo stronzo, ammazzo prima lei e poi te».
«Tranquillo», dissi prendendo lo smartphone, dove avevo davvero memorizzato la sequenza iniziale della sonata di Mozart.
Spostai i dischetti all’interno dei meccanismi dell’orologio e quando ebbi finito richiusi la cassa. Posizionai le lancette alle dodici meno nove, diedi la carica e appoggiai l’orologio sul labirinto inciso nella pietra del pavimento. Mi rimisi in piedi e insieme a Riccardo ritornai sui miei passi all’inizio della camera dolmenica.
La musica di Mozart, prodotta dal sofisticato carillon dell’orologio alchemico, cominciò a volteggiare tra i piedritti, rimbalzando letteralmente sugli specchi sospesi. Più la sequenza di note si ripeteva, più gli specchi ne amplificavano il suono che aumentò di frequenza, diventando sempre più alto.
«Sono come degli amplificatori…», mormorai, «l’intera camera è un grosso amplificatore… non c’è nessuna fonte dell’eterna giovinezza. Il segreto è questo».
Gli otto specchi ai lati vibravano come dei grossi diapason e a un certo punto anche il nono, posto in fondo alla camera e un po’ più isolato iniziò a vibrare intensamente. Il volume aumentò ancora e se da un lato la perfezione della melodia di Mozart induceva a restare calmi, dall’altro c’era il pericolo di rimanere storditi da quell’incredibile effetto acustico.
Mi voltai verso Riccardo. «Dobbiamo uscire da qui… rischiamo che ci scoppino le orecchie», dissi alzando la voce, giacché il suono cominciava a essere molto forte.
Riccardo mi guardò smarrito e al contempo rapito da quell’effetto.
«Riccardo, per favore, usciamo!».
Il siciliano sembrò riaversi per un attimo, salvo poi cedere di nuovo al delirio. «È questo, non capisci?», urlò, «è questo il potere che temeva il conte di Saint-Germain, un potere incontrollabile!».
Non potevamo temporeggiare oltre, il suono stava diventando assordante. Temetti che l’intera camera potesse crollarci addosso. Mentre Riccardo sembrava ormai preda della sua follia, lanciai uno sguardo ad Àrtemis e poi alla torcia elettrica che avevo in mano. Mia moglie sembrò aver afferrato il mio segnale. Feci un leggero cenno con la testa e spensi di colpo la torcia.
«Che diavolo fai, Loren… ah!».
Piombati nel buio più totale, immersi nell’assordante suono della camera dolmenica, colpii violentemente il viso di Riccardo con la torcia fidandomi dell’istinto.
«Lorenzo, scappa!», urlò Àrtemis che a tentoni era riuscita ad allontanarsi verso la scala di pietra.
Ne seguii la voce e mi precipitai da quella parte. Prima di raggiungere i gradini scavati nella roccia sentii un sparo e subito dopo avvertii un dolore lancinante al braccio sinistro. Quel figlio di puttana mi aveva preso. Stringendo i denti risalii rapidamente in superficie, dietro ad Arti.
«Oddio, sei ferito!», disse mia moglie terrorizzata non appena mi vide.
«Non ti fermare, corri!».
Intanto il suono proveniente dalla camera dolmenica sembrava attenuarsi ai livelli superiori e l’effetto assordante era meno intenso. Ripercorremmo la cripta di Fulberto a ritroso, correndo a perdifiato. Dietro di noi, a un certo punto, sentimmo esplodere colpi di pistola.
«Bastardo!», esclamai tenendomi il braccio sanguinante. «Non fermarti, Arti, la porta è lì davanti!».
Risalimmo i gradini che ci separavano dalla cattedrale e sbucammo nella navata nord.