Capitolo 41
Napoli, 19 giugno, ore 14:20
Due giorni al solstizio d’estate
La pizza che mangiammo sul lungomare servì a smorzare la tensione che si era creata poco prima. Riccardo era di compagnia e aveva un mucchio di storie da raccontare. Ci parlò del suo trasferimento a Praga nei primi anni Novanta, di come la città fosse terra vergine all’indomani della caduta del muro di Berlino. Italiani intraprendenti avevano fatto affari d’oro all’epoca e ne raccoglievano ancora i frutti. Riccardo era uno di loro. Con la sua azienda di medicinali omeopatici – la Montechiaro – era uno dei principali fornitori delle farmacie di Praga e provincia.
Carlo e io ascoltammo con interesse e a nostra volta gli parlammo un po’ di noi. Io, naturalmente, mi dilungai molto su mia moglie, non nascondendo quanto fossi fiero di lei.
«Sei fortunato, Lorenzo», disse Riccardo mentre sorseggiavamo il caffè a fine pranzo, «io passo da un letto a un altro, senza trovare pace».
Feci un sorrisetto. «Allora dovresti conoscere mio fratello, avete molte cose in comune».
Riccardo si fece una risata e annuì. «Sarà un piacere e sarà un piacere conoscere anche tua moglie».
«Magari stasera a cena», dissi guardando l’orologio. «Ora dovrebbe essere impegnata all’università con il ricevimento studenti. Ne avrà ancora per un’ora. Non ha voluto ascoltarmi e ha deciso di lavorare nonostante non si sia ancora ripresa dalla morte del professor Ricciardi. Anzi, sapete che vi dico? Le faccio una sorpresa e la vado a prendere. Ho tutto il tempo di fare una passeggiata per arrivare da lei».
Ci separammo dandoci appuntamento per cena. Riccardo andò verso il suo albergo e Carlo tornò a casa. La giornata continuava a essere piacevolmente calda e passeggiare lungo via Partenope, nel quartiere Santa Lucia e poi per il centro, si rivelò un ottimo modo per distendere i nervi. Mentre camminavo mi chiamò Oscar che avevo già messo al corrente di tutto quello che era accaduto quella mattina.
«Ho contattato i colleghi francesi e siamo rimasti d’accordo che Andrea Kominkova partirà domani per Parigi. Come membro dell’Interpol, ha piena autorità per supportare la Gendarmérie e mettere fine a questa storia».
«Hmm… mio fratello non la prenderà bene».
Prima di arrivare all’università avevo chiamato il dipartimento della facoltà per assicurarmi che Arti fosse ancora lì.
«Sì, dottore, non è ancora uscita dalla sua stanza, vuole che le lasci un messaggio?»
«No, anzi, non le dica che ho chiamato, voglio farle una sorpresa». Arrivai venti minuti prima della fine del ricevimento e rimasi in attesa fuori la sua stanza. Passarono dieci minuti, poi quindici e nessuno uscì. Evidentemente non c’erano più studenti a colloquio e forse Arti era rimasta a riordinare le sue carte. Bussai, ma nessuno rispose. La sorpresa gliel’avrei fatta comunque, così decisi di aprire la porta.
All’interno della piccola stanza piena di libri, cartelline ordinatamente disposte sul lato destro della scrivania, qualche riproduzione di tavolette scritte in lineare A, carte geografiche della Grecia e un computer – tutte cose che avevo visto decine di volte – non c’era altro. Soprattutto non c’era lei. C’era però la sua borsa da lavoro. Forse era andata in bagno prima di lasciare l’università. Mi accomodai su una delle sedie e sperai che trovandomi seduto lì non si spaventasse.
Attesi altri dieci minuti, ma di Arti nessuna traccia. Cominciai a preoccuparmi e la prima cosa che feci fu di chiamarla al cellulare. Lo sentii squillare nella sua borsa da lavoro. Lo presi e ovviamente la chiamata in entrata era la mia. Fu allora che notai un piccolo pezzo di carta infilato sotto la borsa.
Per il dottor Aragona. Cambio di programma, mi dispiace.
Serpentis hic iacet caput, Àrtemis iacebit in saecula saeculorum.
Ebbi un mancamento. La gambe non mi ressero e caddi pesantemente sulla sedia. Lessi e rilessi quel biglietto, pensando di aver capito male, ma non c’erano dubbi. “Qui giace la testa del serpente, qui giacerà Àrtemis in eterno”. Firmato IPSI. L’avevano rapita sotto gli occhi di decine di persone. E l’avrebbero portata a Chartres.
“Serpentis hic iacet caput”.
Lì l’avrebbero uccisa.
“Àrtemis iacebit in saecula saeculorum”.
Perché continuavano ad accanirsi contro di me? Cos’altro volevano? E cosa c’entrava Arti? Avrebbero potuto continuare a bluffare con il giochino delle sagome verdi e rosse, per costringermi ad aiutarli.
Il sangue lentamente riprese a circolare e così riuscii a rialzarmi. Riacquistai un minimo di lucidità, afferrai la borsa di Àrtemis e uscii spedito dalla sua stanza.
«Dottore non ho visto la professoressa…», gridò il segretario del dipartimento.
«Non si preoccupi», gli risposi mentre mi allontanavo. «So dov’è».