Capitolo 10

 

Praga, ultimi giorni di primavera, ore 10:24

 

«Ciao tesoro, come stai?».

Mi ero spostato in un angolo della stanza per avere un minimo di privacy. La voce di Àrtemis mi riportò per un attimo alla mia amata vita quotidiana, fatta di affetti e giorni tranquilli, trascorsi a lavorare all’Églantine – la mia galleria antiquaria – o a fare esperimenti nel laboratorio alchemico, o ancora a discutere con i miei confratelli durante le riunioni della mia loggia massonica. Giorni che avevano un valore grazie alla presenza di mia moglie.

«Tutto bene, Arti, e tu?»

«Sì, sto bene. Indovina un po’ chi è venuto a trovarci?»

«No, non dirmelo!».

«Sì, i miei ci hanno fatto una sorpresa! Me li sono ritrovati neanche mezz’ora fa davanti alla porta di casa, hanno preso il primo aereo da Atene stamattina».

«Fantastico! Non vedo l’ora di riabbracciarli. Per quanto tempo resteranno?»

«Immagino per quattro o cinque giorni… Tu quando pensi di tornare? Come sta andando la mostra?».

Tentennai. Come al solito non volevo che si preoccupasse per i casini in cui mi trovavo spesso e così, tanto per cambiare, dissi una mezza verità. «Sta andando bene, anche se c’è stato un furto».

«Oh no! Non dirmi qualche pezzo nostro».

«No, no, si tratta dell’orologio alchemico, la polizia sta indagando e mi ha chiesto una consulenza».

«L’orologio alchemico del barone Scotto di Fasano?»

«Esatto».

«Pfff, se l’è cercata, sgorbio insopportabile!».

«Dài, Arti, è un fatto grave», dissi poco convinto. Condividevamo la stessa antipatia per quel tipo.

«Sì, certo. Speriamo che questa cosa non ti faccia perdere troppo tempo però».

«Farò in modo di tornare al più tardi domattina».

«D’accordo, Aragona», disse lei come faceva quando voleva canzonarmi o rimproverarmi. «Ah, quasi dimenticavo. Stamattina presto, prima che i miei comparissero dal nulla, sono scesa per fare un po’ di spesa e quando sono tornata ho trovato una lettera indirizzata a te nella cassetta della posta».

«Bene, la vedrò quando torno».

«La cosa strana è che non è stata spedita, qualcuno è passato proprio durante la mezz’ora in cui sono mancata e l’ha infilata nella cassetta. Non c’è il mittente, ma un simbolo con una sigla stampato sulla busta. Forse qualche messaggio segreto dei tuoi fratelli».

Arti pronunciò l’ultima frase con tono ironico. La mia appartenenza alla Massoneria era una di quelle cose per le quali mi prendeva in giro. Era troppo pragmatica per accettare che persone rispettabili, con indosso dei grembiulini, si riunissero in un luogo decorato in maniera bizzarra, con colonne, squadre, compassi e cieli stellati. Non ero mai riuscito a farle cambiare idea su quel punto.

«Può darsi. Com’è fatto questo simbolo?»

«C’è un geroglifico egizio, una figura femminile alata. Subito sotto c’è una specie di sigla inserita in una croce di Sant’Andrea, IPSI… ISIP… non saprei».

Avvertii distintamente il cuore perdere un colpo e un brivido attraversarmi il corpo. «IPSI hai detto?»

«Sì, i, pi, esse, i. È proprio quello che ho detto».

«Cosa… cosa credi che possa contenere la busta? Una lettera, o magari qualcosa di solido?»

«No, direi che c’è solo della carta al suo interno, niente di solido. Se vuoi la apro…».

«No!», dissi quasi urlando e attirando l’attenzione dei poliziotti e del barone. «No… non importa. Ci penso io. Anzi guarda, torno stasera, ci ho ripensato. T-tu sta’ attenta».

Ci fu un attimo di silenzio.

«Attenta a cosa, Lorenzo?»

«Ma niente… attenta, così, in generale. Ti voglio bene Arti, a più tardi».

«Sei proprio suonato, Aragona… Ti voglio bene anch’io, a dopo».

Chiusi la comunicazione e tornai dai due poliziotti e da Scotto di Fasano. Il mio viso aveva cambiato di certo espressione, perché sia Lisáček che Kominkova mi guardarono stupiti.

«Qualcosa non va, signor Aragona?», domandò la ragazza.

«Sì, veramente…», tentennai, indeciso sul da farsi. Sembrava proprio che il cerchio intorno a me si stesse chiudendo in maniera rapidissima. Avevo bisogno di aiuto. «Poche ore fa mia moglie ha ricevuto una lettera con uno strano simbolo stampato sulla busta, una specie di geroglifico egizio, accompagnato dalla sigla IPSI. Non… non so che dire, sembra che io sia più coinvolto di quanto pensassi e ora ho paura per mia moglie».

Lisáček e Kominkova si scambiarono uno sguardo, mentre Scotto di Fasano fece un gesto eloquente, come per sottolineare di avere ragione.

«Lo sapevo, che vi avevo detto?», aggiunse con tono arrogante.

Lo ignorai e continuai a guardare i due poliziotti. «Signori, se non ci sono accuse nei miei confronti, vorrei chiedervi il permesso di poter partire stasera stessa. Devo assolutamente fare luce su questa cosa».

«Anche noi, signor Aragona», disse Lisáček mantenendo la calma. «E come giustamente fa notare anche lei, il suo coinvolgimento non è più solo secondario quindi dovremmo chiarire il suo ruolo qui, prima di lasciarla andare».

Lo guardai incredulo. Mi ero fidato di lui e adesso mi stava dicendo che non mi avrebbe lasciato partire. Scotto di Fasano incrociò le braccia soddisfatto. Spostai il mio sguardo su Andrea Kominkova, disperato. La ragazza dovette scorgere in una frazione di secondo ben più di quello che sperassi e così, appoggiando i palmi delle mani sulla scrivania di Lisáček, si rivolse all’ispettore.

«Gustav, andrò io con lui. Se il furto dell’orologio e l’omicidio sono collegati come sembra, credo che la faccenda debba passare all’Interpol. Ovviamente ci coordineremo e ti terrò costantemente informato sugli sviluppi».

Lisáček non parve contento. Rifletté per un istante poi, sospirando, annuì. «Se Bublan è d’accordo…».

La Kominkova fece un sorriso di circostanza. «Non voglio medaglie, Gustav, ma solo trovare i responsabili, come te».

«Scusate, ma il mio orologio? È stato rubato qui e qui deve trovarsi ancora, l’ha detto lei ispettó!», sbottò il barone intromettendosi di nuovo.

«Come ha sentito, barone, l’ispettore Kominkova seguirà l’indagine a Napoli, sembra esserci una pista che conduce lì», disse Lisáček spazientito. «Magari questo ci aiuterà anche a capire se c’è un traffico di oggetti d’arte tra Praga e Napoli e a ritrovare il suo orologio. E comunque, da ventiquattr’ore i miei uomini stanno battendo tutte le piste. Non sarà facile per i ladri portarlo fuori dal Paese, questo glielo assicuro».

Lasciai il commissariato insieme ad Andrea Kominkova.

«La ringrazio per essere intervenuta, ispettrice», dissi imbarazzato mentre raggiungevamo un bar, e rivolgendomi a lei in italiano.

Andrea scosse la testa, mantenendo un’espressione seria, mentre ordinava due caffè per entrambi. «Non l’ho fatto per aiutarla, o meglio, non solo. Io ho sicuramente più libertà di movimento di Lisáček e questo caso mi stuzzica. Mi metterò in contatto con i colleghi di Roma per avere supporto logistico. Ho bisogno di qualche ora per prepararmi, lei intanto può informarsi sull’ultimo volo utile». Mi diede il suo biglietto da visita. «Ci risentiamo dopo pranzo».

«D’accordo».

Prima di andare per la sua strada si fermò. «Ah, un’altra cosa».

«Sì?».

Sorrise. «Puoi chiamarmi Andrea».

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