Capitolo 25

 

Università Federico II, Napoli, 14 luglio, ore 16:00

 

La stanza di Nico, adiacente all’aula dove insegnava archeologica greca e della Magna Grecia, era esattamente come ci si immaginerebbe il rifugio di un archeologo: stracarica di libri, statuette, cocci, mappe, fotografie, strumenti di scavo. Sepolto da qualche parte sulla scrivania c’era anche un computer; in un portaombrelli c’era una collezione di bastoni e, appeso a un attaccapanni, un cappellaccio da ricognizione, come lo chiamava lui, in perfetto stile Indiana Jones.

Nico era in piedi davanti a una finestra, accanto alla libreria che copriva tutti i tre metri di altezza della stanza e che stava pericolosamente collassando sotto il peso di migliaia di testi. Ci accolse con il suo sorriso sornione e, aiutato dall’immancabile bastone, ci venne incontro per abbracciarci.

«Accomodatevi… se riuscite a trovare un po’ di spazio».

C’erano libri anche sulle tre sedie di cui era composto lo spartano arredamento, poste davanti alla scrivania, per ricevere i suoi studenti.

«Prendete un caffè? Eh, vi va?». Non ci diede il tempo di rispondere che aveva già chiamato il bar. «Peppino, sono il professor Valenti Albani, quattro caffè su in dipartimento per favore». Chiuse la comunicazione e sul suo viso tondo comparve improvvisamente un’espressione serissima, altrimenti inconsueta per lui. «Dove l’hai trovato quel video?»

«È prezioso, ma mai quanto quello che stiamo per mostrarti».

Nico si sporse in avanti e Anna gli mise sotto il naso un tablet con le foto della macchina di Aurìchalkos.

«Il collezionista russo Viktor Babikov, per il quale lavoro, ha acquistato questo reperto da un amico antiquario di Lorenzo, Sante Spiteri», spiegò la russa. «Lo ha trovato tra vecchi ricordi del padre ed è autentico».

Ovviamente avevamo subito messo al sicuro nella mia cassaforte inattaccabile le parti della macchina ancora in possesso di Sante e da noi recuperate a Malta. Nico dovette quindi accontentarsi delle foto.

L’archeologo osservò le immagini quasi trattenendo il respiro, concentratissimo a studiare ogni singolo dettaglio. A un certo punto prese un taccuino e iniziò ad annotare qualcosa, riportando più volte gli occhi sul tablet. Alla fine si lasciò andare sullo schienale della poltrona espirando con forza.

«Io… non ho parole».

«Questo oggetto non può essere paragonato a nulla», commentò Àrtemis.

«No, assolutamente no. O forse sì. Mi ricorda la macchina di Anticitera, ma questo… ragazzi, questo sembra che sia uscito ieri dalle mani dell’artigiano che l’ha realizzato. È rame, giusto?»

«Sì, rame», confermai.

«E quelle scritte. Io ho sempre creduto che la vita fosse piena di coincidenze inspiegabili, ma ora la mia convinzione vacilla decisamente».

«Che vuoi dire?».

Prima che Nico potesse rispondere, il ragazzo del bar arrivò con il caffè. Lo bevemmo in silenzio, quindi il professore avviò il computer che aveva davanti, liberandolo da libri e scartoffie. Spostò una fotografia che teneva sulla scrivania – il ritratto di una bella donna su cui era scritto «da Rebecca, la tua fanciulla in nero» – e girò lo schermo verso di noi. C’erano delle foto scattate con il flash in un ambiente molto buio. «Quando stamattina ho finalmente aperto la tua mail, mi sono dovuto appoggiare alla scrivania perché ho avuto come un capogiro. Io credo infatti che dietro a quella porta ci sia l’ambiente che si vede nel filmato».

«Dove si trova e perché dici “credo”? Non l’hai aperta?».

Nico si lasciò andare nuovamente sullo schienale della poltrona con un gesto di stizza e i suoi occhi azzurri si mossero nervosamente verso la finestra. «La porta l’ho trovata scavando in una delle grotte che stanno dietro i palazzi di via Chiatamone, non lontano dal tuo negozio, all’altezza della chiesa delle Crocelle».

Si accese una lampadina nella mia mente. «Ah, e neppure lontano dalla sede della Platamon onlus».

«E cosa sarebbe?»

«Te lo spiego dopo, è un po’ complicato, vai avanti».

«Be’, insomma il monte Echia è una miniera, se solo ci facessero lavorare. Questa porta, per esempio, è una scoperta sensazionale. Ero al settimo cielo, ma la mia gioia è durata pochissimo perché qualche bastardo della Sovrintendenza mi ha bloccato tutto proprio mentre stavo per aprirla. La notte mi sveglio ancora incazzato per come è andata».

«Ma perché?».

Nico agitò una mano come se volesse mandare al diavolo un seccatore immaginario. «Ho rotto le scatole a qualcuno. Quel tizio è arrivato, ha messo i sigilli e mi ha liquidato senza alcuna spiegazione. Ho sputato letteralmente sangue per avere quei permessi e questo… idiota ci ha messo trenta secondi a vanificare tutto».

Restammo a guardarlo in silenzio, dispiaciuti per quel che gli era capitato e per come tale evento sembrasse coinvolgere anche la nostra ricerca.

«Va bene, in ogni caso, non ci faremo fermare», riprese Nico, parlando più per se stesso che per noi. «La cosa più sorprendente è una scritta, in greco e latino, che si trova sulla porta. Un testo che si richiama al caratteristico bilinguismo delle classi elevate del periodo. Per fortuna sono riuscito a fotografarla. Queste due foto sono tutto quello che ho». Ci mostrò una di quelle immagini su cui si leggeva:

 

ὁ διδάσκαλος Πόπλιος Oύεργίλιος Μάρων τῇ Παρθένῳ μ΄ἐποίεσε

Magister P. Vergilius Maro me fecit Virgini.

Alzammo lo sguardo su Nico e lui ci sorrise sornione. «Eh già, Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope!», riprese declamando l’epitaffio sulla tomba di Virgilio. «Che cos’è, mi sono chiesto, che il caro Virgilio fa per questa misteriosa vergine? La porta, è ovvio. È una firma, come quella del signor Aurìchalkos sulla macchina… magari l’autore è proprio questo sconosciuto artigiano. Ma il pezzo forte della scritta è quel virgo, o parthènos in greco. Chi è la vergine?»

«La Vergine Maria? Magari è una versione sconosciuta del famoso passo della IV ecloga delle Bucoliche in cui pare che Virgilio abbia predetto la nascita di Gesù», proposi un po’ ingenuamente.

Nico mi guardò con sufficienza. «E magari dall’altro lato della porta c’è il Santo Graal. Non essere ridicolo, Lorenzo!».

Dopo un secondo fu Àrtemis a dare la risposta. «No, no, no, la Vergine Maria non c’entra niente. Dal greco Parthènos deriva Parthenòpe, ovvero Partenope, la verginale».

Nico annuì e ci mostrò un fermo immagine del video di Sante. Si vedeva il sarcofago aperto. «Capite cosa vuol dire tutto questo?».

Fui io a dirlo, scandendo le parole. «Il sepolcro di Partenope?».

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