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La missione – PARTE PRIMA
Ricostruzione effettuata sulla base dei dossier segreti del Gruppo 9 e delle memorie di Sean Bruce
Berlino, notte tra il 24 e il 25 marzo 1945
Friedrich Müller, di guardia all’ingresso, accese la prima sigaretta di quella giornata. Era un lusso che si permetteva sempre più di rado, mancando ormai tutto nella sua bella città. Aveva acquistato cinque sigarette al mercato nero con la promessa che, se fosse sopravvissuto a quella follia, avrebbe smesso definitivamente di fumare. Immaginò che molti berlinesi avessero fatto voti simili: sebbene la loro forza d’animo non fosse ancora stata piegata, dopo diciassette incursioni aeree dall’inizio dell’anno erano tutti molto provati.
Del resto bastava fare un giro per le strade, di giorno, quando le bombe tacevano, per rendersi conto di quanta morte e distruzione la guerra avesse portato. Lui era uno di quelli che ancora credevano nelle promesse del Führer o almeno nell’idea di Germania che Hitler aveva inculcato nelle menti dei giovani come lui. Ci credeva, ma le rovine che lo circondavano parlavano di un’altra storia. Quella di un Paese la cui resa era solo questione di tempo; quella di un popolo che si era illuso di riuscire a portare i valori dello spirito germanico nel mondo, schiacciando l’arroganza dei giudei, il pericolo comunista e infine le fragili radici degli americani. Il sogno del vessillo uncinato che garriva nel vento era ancora vivo nelle notti di angoscia, quando i bombardieri alleati scaricavano tonnellate di bombe sulla sua Berlino.
Non poteva lasciarsi andare allo sconforto. Aveva una missione delicata da portare a termine insieme ai suoi compagni, qualcosa che andava oltre il presente, oltre Hitler, persino oltre il Reich.
Nel silenzio del crepuscolo, alle porte un’altra notte all’insegna dell’incertezza, il leggero rumore alle sue spalle lo fece sobbalzare.
«Se ci fosse un cecchino nel palazzo di fronte, quella sigaretta sarebbe un bersaglio perfetto, sergente Müller».
La voce del capitano era calda e tranquilla e il sergente tirò un sospiro di sollievo. «È lei, capitano».
«Nervi tesi? Non ce n’è bisogno, questa missione è delicata, ma non presenta particolari rischi».
I piccoli occhi verdi del sergente Müller si posarono sulla figura possente ma allo stesso tempo armonica del capitano Henri Theodore von Tschoudy. Il giovane capitano di origine svizzera, la cui famiglia affondava le radici nel IX secolo, poco o nulla aveva del cliché del soldato ariano: fluenti capelli neri, occhi profondi e scuri come la notte, mascella volitiva. Era uno degli ufficiali delle SS più desiderati del Terzo Reich, sia da donne che da uomini. E Friedrich Müller non faceva eccezione.
Henri von Tschoudy era a capo di quella missione per più di un motivo. La sua vasta cultura, l’eredità del suo nome e il coinvolgimento personale in quella che segretamente era stata chiamata Operazione Outremer, gli avevano fatto meritare quell’onore e quell’onere. Soprattutto la totale devozione al Terzo Reich e al Führer avevano convinto i gerarchi nazisti ad affidargli il delicato compito di custodire quel manufatto, prima che raggiungesse la sua destinazione finale. Il luogo scelto per accoglierlo temporaneamente era, per ironia della sorte, anche uno dei simboli di quel popolo che i nazisti avevano cercato di sterminare: la nuova sinagoga nel cuore del quartiere Mitte.
Non appena il prezioso carico era giunto a Berlino, però, i bombardamenti degli Alleati e la loro avanzata in territorio tedesco avevano suggerito che non fosse il momento giusto per spostarlo. E così Von Tschoudy e il suo piccolo gruppo sarebbero rimasti a proteggere quel segreto fino a nuovo ordine, anche se, con la Germania che crollava giorno dopo giorno sotto i colpi degli Alleati, quell’ordine non sarebbe mai arrivato o sarebbe arrivato troppo tardi. L’unica cosa che nell’immediato avrebbe potuto salvare il Reich – la potentissima bomba atomica – era ormai un’irraggiungibile chimera e sebbene il segreto che Von Tschoudy era stato chiamato a custodire fosse l’unica possibilità di far risorgere il regime moribondo, sembrava che il Reich non fosse più in grado di prendere decisioni importanti.
Müller abbassò gli occhi imbarazzato. «Ormai non abbiamo più certezze, capitano», disse poi, cercando una scusa per continuare a parlare con il suo superiore. «Per quanto ci possiamo considerare più fortunati di altri nostri camerati che continuano a morire in combattimento, quanto pensiamo di resistere in questa situazione? Quanto tempo ci resta prima che una bomba spazzi via anche noi o i nostri nemici invadano Berlino da ogni lato?».
Müller si rese conto troppo tardi di aver confessato al suo superiore dubbi che avrebbe forse dovuto tenere per sé.
Tuttavia, sebbene il volto di Von Tschoudy si fosse irrigidito, la sua risposta fu posata e non lasciò trapelare alcun risentimento. «Noi abbiamo scelto di servire il Reich fino alla fine, sergente, ed è quello che faremo. Il nostro compito è di rimanere qui, sperando di portare a termine anche la seconda parte di questa missione. Ciò che accade intorno a noi ci deve interessare fino a un certo punto. Finché il Führer è in vita e la sua volontà è che noi restiamo qui, sarà questo che faremo».
«Sì, capitano…».
Müller stava per aggiungere qualcos’altro, ma il rombo improvviso di un aereo gli bloccò le parole in gola. Il volto di Von Tschoudy si fece immediatamente cupo e i suoi profondi occhi scrutarono per un istante il cielo buio sopra di loro, alla ricerca dei bombardieri.
«Eccoli di nuovo. Togliamoci da qui», disse il capitano, prima che una bomba sibilasse tra le stelle e si schiantasse a pochi isolati da loro. Una nube di calcinacci ridotti in polvere li raggiunse in un attimo e così i due ripararono rapidamente nell’edificio.
«Nei sotterranei, Müller, presto!».
Mentre attraversavano di corsa la grande navata della sinagoga, ingombra di macerie dopo le devastazioni subite durante la Notte dei Cristalli e i bombardamenti del ’43, un’altra bomba caduta poco lontano fece tremare quel che restava dell’edificio. La scossa provocata dall’onda d’urto fu violenta. Riuscirono a stento a restare in piedi e a raggiungere l’ingresso dei sotterranei. Lì trovarono il soldato che stava di guardia all’accesso.
«Tutto bene, Bauer?»
«Sì, capitano, solo un po’ di polvere».
Il roccioso Bauer era di tutt’altra stoffa rispetto al gracile Müller e non avrebbe mai ostentato la benché minima traccia di paura. Del resto, crescere sulle alpi bavaresi non era come studiare filologia germanica all’università di Francoforte.
«Se la situazione dovesse peggiorare, riparati nel corridoio o raggiungici di sotto. Per stanotte non penso che avremo invasioni da terra».
Intanto, a un paio di chilometri di distanza dalla nuova sinagoga, un gruppetto di otto soldati delle SS si muoveva con cautela riparandosi come poteva dal bombardamento in atto.
«Non si poteva scegliere un momento migliore», si lamentò il più giovane mentre gli aerei tuonavano senza sosta sulle loro teste.
«Niente storie», lo riprese il comandante, «la notizia di questo bombardamento è arrivata troppo tardi, l’alternativa era rinunciare e rischiare di perdere tutto, forse per sempre».
Il giovane non parve comunque soddisfatto della risposta e mantenne la sua aria seccata.
«Animo François! Se la missione riesce, festeggeremo con un bel bicchiere di Côte de Nuits», lo incoraggiò un altro dallo spiccato accento italiano.
«Lascia perdere il Côte de Nuits, ispanico, non lo apprezzeresti».
«Non sono ispanico», rispose l’altro senza scomporsi, «e per me puoi bere acqua da una pozzanghera se ti fa piacere».
«Allora, ci diamo un taglio?», intervenne di nuovo il comandante, «non siamo mica in gita scolastica!».
I due abbassarono gli occhi imbarazzati, mentre gli altri passarono loro accanto fulminandoli con lo sguardo.
Il comandante si fermò alla fine del muro sgretolato di un edificio, prima di girare l’angolo e infilarsi in un’altra strada. Un altro del gruppo gli si avvicinò con una mappa in mano. Capelli rossicci, pelle bianchissima e occhi azzurri dietro i quali si celava una grande intelligenza, il “navigatore” indicò qualcosa sulla sua mappa.
«La direzione è giusta, Nat, anche se la città è messa così male che seguire le indicazioni della carta non è facile».
«D’accordo, cerchiamo solo di avvicinarci il più possibile per poi trovare un posto sicuro e ripassare l’ultima parte del piano».
«Un posto sicuro, già. A me vengono in mente solo il molo di Santa Monica e una bella mattinata di pesca».
Nathan alzò gli occhi al cielo. «Non ti ci mettere anche tu, Kirk!».
Il piccolo gruppo sbucò nella strada principale proprio mentre una bomba colpiva in pieno un palazzo. L’onda d’urto li scaraventò a terra, mentre milioni di detriti volavano da tutte le parti. Rimasero immobili per alcuni secondi, in attesa che la polvere si depositasse, poi il comandante sollevò la testa guardandosi intorno per cercare di capire che ne era stato dei suoi.
«Kirk, tutto ok? State bene?».
A uno a uno tutti risposero all’appello e si avvicinarono al comandante strisciando.
«Nathan, questa ci ha quasi preso», disse Sean Bruce ripulendosi il viso da montanaro scozzese.
Il maggiore Nathan Keller si limitò ad annuire. Sapeva che stavano correndo un rischio mortale e che non era stato possibile procrastinare il bombardamento programmato per quella notte, né tantomeno la loro missione. Significava molto per lui e per i sette uomini insieme ai quali stava rischiando la vita sotto le loro stesse bombe. Il loro obiettivo, tuttavia, non era nei piani di nessuna forza in campo. Non ufficialmente almeno. Ecco perché per quella missione erano stati scelti loro.
Quegli otto uomini, quasi tutti di nazionalità diversa, non erano semplici soldati; non erano neanche combattenti regolarmente reclutati per quella missione, sebbene avessero già combattuto negli eserciti dei rispettivi Paesi. La scelta non aveva tenuto conto di alcun tipo di alleanza militare o merito in battaglia. Erano stati mandati a Berlino non perché erano i più bravi, ma perché erano dei predestinati, uniti da un vincolo antico. E siccome ciò che dovevano recuperare si trovava nel cuore del Reich agonizzante, nessun esercito di supporto era potuto intervenire per aiutarli e nessun ordine era stato dato per interrompere il bombardamento in atto. Dovevano agire immediatamente, perché forse non avrebbero avuto un’altra occasione.
Nathan “Naalnish” Keller ripensò per un istante alla sua famiglia in Arizona, alle ispezioni notturne ad Antelope Canyon, quando i turisti erano lontani e lui e i suoi fratelli si attardavano volentieri tra le straordinarie formazioni rocciose antiche di millenni. Sarebbe tornato volentieri alla sua vita di studioso della cultura del suo popolo, all’insegnamento e alle visite guidate per gruppi scelti. Sarebbe tornato persino a un paio d’anni prima quando aveva contribuito a creare quel codice navajo che era stato decisivo per l’esercito americano in guerra. Nathan era l’americano perfetto: fedele ai Navajo – per i quali lui era Naalnish, “colui che è efficace” – e allo stesso tempo al governo degli Stati Uniti. E proprio per questo la divisa da SS gli creava disagio, perché nella sua concezione della vita e del mondo rappresentava un sovvertimento dei suoi princìpi. Aveva accettato quel disagio, tuttavia, perché oltre a essere navajo e americano, aveva anche ereditato dal padre quel dono – o forse avrebbe dovuto dire maledizione – di far parte di quel piccolo gruppo di eletti.
I suoi profondi occhi neri, due fessure in un volto giovane scolpito e già segnato dagli eventi, si posarono sui suoi compagni che, come vampiri, emergevano lentamente dalla nube lasciata dalla bomba. «Forza, procediamo. Kirk guidaci, Lev chiudi il gruppo e guardaci le spalle insieme ad Aram».
Kirk McCourt ritornò accanto a Nathan, mentre l’ucraino si mise in coda insieme all’armeno con tutti i sensi allertati. Il gruppo era avanzato solo di pochi metri, riparandosi sotto i palazzi che sembravano ancora in buone condizioni, quando alla fine della strada comparvero alcune figure. Si trattava di un gruppo di dieci soldati della Wehrmacht, anche loro malconci per la bomba appena esplosa. Non appena li videro, Nathan fece un segno impercettibile ai suoi e in particolare a Vladimir, che alzò un braccio per farsi vedere dai tedeschi.
«Heil Hitler! Che cosa ci fate in giro sotto un bombardamento, signore?», chiese il comandante di quel piccolo gruppo di soldati, una volta che si furono avvicinati.
«È quello che vorrei sapere da lei, tenente», rispose in perfetto tedesco il russo del gruppo di Nathan, che con la divisa da capitano era più alto in grado di quel tenente curioso. «Siamo appena passati accanto a un gruppo di civili in difficoltà dietro quell’edificio. Fate in fretta!».
Schmidt esitò un istante, poi si mise sugli attenti e ordinò ai suoi di seguirlo.
Nathan fece segno agli altri di muoversi prima che quei soldati ci ripensassero e poi, sottovoce, sussurrò qualcosa al russo. «Bel lavoro Vlad».
Il biondo interprete di Sverdlovsk – chiamata Ekaterinburg prima della rivoluzione d’ottobre – si limitò ad annuire, mentre la tensione per aver affrontato quell’ulteriore prova si andava stemperando.
Intanto Kirk McCourt aveva ripreso a guidare il gruppo con più convinzione e dopo dieci minuti si fermò e si voltò verso i compagni. «La strada laggiù, perpendicolare a quella in cui ci troviamo, è Oranienburger Strasse».
Nathan annuì, quindi chiamò tutti attorno a sé. «Bene, ci siamo».
Sulla porta d’ingresso della sinagoga comparve una figura imponente, emersa dalla polvere sollevata dalla bomba esplosa pochi istanti prima. La figura avanzò con circospezione per alcuni metri, ma fu subito fermata da una voce proveniente dall’estremità opposta della navata.
«Halt!».
La figura si arrestò di colpo e il caporale Bauer avanzò lentamente, il fucile rivolto verso quell’intruso.
«Abbassa il fucile, soldato, stai puntando la tua arma su un ufficiale delle SS », disse la figura senza muovere un passo.
«Nome e grado, signore, dopodiché lo abbasserò».
Ci fu un istante di silenzio carico di tensione. Il bavarese rimase immobile tenendo sotto mira quello strano ufficiale emerso dalla polvere dei bombardamenti. Cosa diavolo ci faceva da quelle parti? Poco importava, gli ordini di Von Tschoudy erano chiari: nessuno doveva entrare nella sinagoga, a meno che non mostrasse il sigillo.
«Capitano Klaus Maria König», rispose l’intruso interrompendo il flusso dei pensieri di Bauer, «Squadra Speciale Outremer, sono qui col mio gruppo per il recupero».
Quel sedicente capitano König sembrava in regola, il fatto che avesse nominato la Squadra Speciale Outremer lo rendeva insospettabile, giacché pochissime persone erano a conoscenza della missione e del suo nome in codice. Il piano, infatti, prevedeva che una squadra con quel nome in codice dovesse andare a recuperare l’idolo per portarlo altrove.
Bauer si tranquillizzò, ma non del tutto: il capitano König avrebbe dovuto mostrargli il sigillo che avrebbe definitivamente fugato ogni dubbio.
«Mi mostri il sigillo, ma si muova lentamente», disse Bauer.
Il capitano König, che aveva tenuto le mani alzate fino a quel momento, ne infilò lentamente una nella giacca e ne estrasse un piccolo oggetto metallico rotondo, come una medaglia.
«Me lo lanci», disse Bauer sempre tenendo König sotto tiro. L’oggetto metallico volò fino a Bauer compiendo una parabola perfetta.
Il bavarese esaminò il sigillo, quindi abbassò il fucile e si mise sull’attenti. «Benvenuto, signor capitano!».
«Riposo soldato».
König emerse dall’oscurità, così Bauer poté vederne con chiarezza i lineamenti. I piccoli occhi di König, due fessure incastonate in un massiccio volto squadrato, si appuntarono sul bavarese solo per un istante.
«Oh merda…!», riuscì a esclamare prima che un proiettile sparato da una pistola silenziata lo centrasse in piena fronte.
König si avvicinò al corpo ormai senza vita di Bauer e sospirò. «Mi dispiace, amico, ma sei nato nel Paese sbagliato».
Recuperò il sigillo e corse rapidamente verso l’ingresso della sinagoga, da dove fece un cenno con una mano. Dall’oscurità emersero Nathan e la sua squadra che, silenziosi come gatti, si precipitarono all’interno dell’edificio.
«Ottimo, Vlad!», disse il maggiore Keller.
«Ehi, mi sono già meritato un paio di bottiglie di vodka se non sbaglio», replicò Vladimir alzando un sopracciglio mentre conduceva i compagni all’ingresso del corridoio.
«Be’, capitano König», disse ironicamente Nathan, «non è colpa nostra se hai studiato in Germania e parli tedesco come un fottuto nazista. Però le due bottiglie te le sei guadagnate, hai ragione».
Il russo annuì con un sorrisetto, poi si avvicinò al corpo di Bauer e, aiutato da François e Sean, lo nascose dietro a un pilastro. Quindi i tre tornarono verso il gruppo che intanto si era radunato nel corridoio buio e freddo.
«Bene ragazzi, ora arriva la parte difficile», disse Nathan rivolto ai suoi, «anche se giungere fino a qui, non è stato proprio uno scherzo. Cercate di restare vivi, per favore, altrimenti dovrò vedermela da solo». Fece una pausa, durante la quale gli uomini si concessero un sorriso, quindi, con lo sguardo duro, continuò: «Non c’è bisogno che vi ricordi ancora quali sono gli ordini. Se necessario, nessuna pietà. L’importante è recuperare l’idolo e la chiave del traditore».
Tutti annuirono, con il volto incupito: non dovevano dimenticare di essere ancora in guerra. Tuttavia, il legame che li univa, la fratellanza di cui facevano parte, aveva impresso nel loro codice di princìpi il rispetto per tutti gli esseri umani e il ripudio della violenza. Avevano accettato quell’ultima missione che prevedeva la possibilità di dover eliminare il nemico in nome del giuramento che li legava in un mistico sodalizio.
Quando Nathan ebbe scorto la determinazione negli occhi di tutti, pronunciò sottovoce solo tre parole: «Bene fratelli, nakam!».
«Nakam!» risposero tutti sempre sottovoce.
Gli otto entrarono nel corridoio, senza emettere il minimo rumore, favoriti dal bombardamento che continuava all’esterno. Sapevano dove recarsi e cosa aspettarsi. Quell’informazione, a recupero avvenuto, sarebbe stata pagata molto bene da un’agenzia governativa statunitense che, segretamente, svolgeva ricerche fuori dell’ordinario. Qualunque sgradevole sorpresa la squadra di recupero avesse trovato, sarebbe stata la prova della malafede dell’informatore. E non ci sarebbe stata alcuna ricompensa.
Il corridoio che stavano percorrendo piegava a sinistra. A quindici passi da loro una porta immetteva nei sotterranei, dove i soldati tedeschi erano a guardia dell’idolo. Nathan e i suoi si fermarono a un metro appena dalla porta, appiattendosi contro il muro. Era fondamentale a quel punto non farsi scoprire. Doveva esserci un altro soldato di sentinella e dovevano eliminarlo.
Nathan rivolse un’occhiata d’intesa a Vladimir, che annuì. Il capitano lanciò quindi un sassolino in direzione della porta, e la reazione non tardò.
«Chi è là?», disse una voce, «Bauer sei tu?»
«Sì, ho bisogno di una mano, puoi venire?», replicò Vladimir enigmatico, tenendo la voce bassa per non farsi scoprire.
«Ma che diavolo…?», disse la sentinella.
I pochi secondi che il soldato impiegò per raggiungere il punto in cui si trovavano gli otto uomini sembrarono interminabili. Tutti trattennero il respiro, i muscoli si tesero come corde e così i nervi, che dovevano rimanere saldi.
Nella semioscurità del corridoio, Nathan, che si era accovacciato, vide sbucare la canna del fucile della sentinella. Sapeva che avrebbe dovuto agire con una mossa precisa e rapidissima per evitare che l’uomo premesse per primo il grilletto.
Il soldato avanzò di pochi centimetri e nel momento in cui si accorse di una presenza contro il muro, due mani afferrarono il suo fucile strattonandolo con violenza. Contemporaneamente il pugnale di Nathan gli si conficcò nel cuore saettando veloce dal basso, mentre una mano premuta sulla sua bocca gli impedì di gridare.
Fu una morte rapida e silenziosa. Il gruppo era riuscito ancora una volta a non farsi scoprire. Si portarono quindi tutti all’ingresso dei sotterranei, dove Sean Bruce e François David armarono i loro fucili con un potente gas soporifero.
«Adesso facciamo dormire i più fortunati», sibilò Nathan.
Gli otto si riversarono giù per la stretta scala che conduceva ai sotterranei, silenziosi come una belva feroce che si avvicini alla preda inconsapevole, e continuarono a scendere finché una flebile luce proveniente dal livello inferiore indicò che i sotterranei erano lì vicino. Si fermarono pochi gradini prima che la stretta scala finisse e rimasero immobili per alcuni secondi, il tempo necessario per capire che nella sala sottostante gli uomini dormivano ignari.
Quando tutti ebbero indossato le maschere antigas, Nathan fece segno a Sean e François di procedere. I due si disposero in modo da far arrivare i loro proiettili soporiferi all’interno della stanza. Si scambiarono uno sguardo d’intesa e spararono.
Il rumore della percussione fece destare alcuni soldati che a loro volta svegliarono i compagni. «Allarme, allarme!», si sentì urlare, «siamo stati attaccati, sveglia!».
Ma tra la nebbia creata dal gas e la sua azione soporifera, la loro reazione fu limitata. Qualcuno, tuttavia, tentò di risalire verso il piano superiore, tossendo e incespicando, ma appena il suo muso spuntava dalle scale era falciato dalla precisione di Vladimir, la cui pistola silenziata non risparmiò nessuno.
La reazione durò pochi secondi. Alla fine il silenzio regnò nel sotterraneo. Prima che tutti potessero accedervi, Sean e François spararono altri due colpi di gas soporifero. Pochi secondi ancora, poi tutti entrarono nell’angusta stanza coprendosi le spalle a vicenda.
Tutti gli uomini di guardia all’idolo erano stati messi fuori combattimento, chi temporaneamente dal gas, chi definitivamente dalle pallottole.
Nathan si aggirò per la stanza alla ricerca dell’uomo che li aveva costretti a giungere fino a Berlino, mentre gli altri legavano i soldati storditi. Con sua grande sorpresa, lo trovò abbracciato all’oggetto per il quale si trovavano lì, messo fuori combattimento dal gas pochi secondi dopo essersi avvicinato all’idolo. Aveva persino tirato fuori la pistola dalla fondina e ancora la stringeva nella mano destra.
«Abbiamo finito Nathan», disse McCourt avvicinandosi.
Nathan annuì, mentre il suo sguardo era ancora fisso a terra.
«Ah, bene», commentò Kirk, «pare che tu l’abbia trovato. Lo schifoso traditore».
«Già», rispose Nathan con la voce contraffatta dalla maschera antigas.
«Allora, procediamo?», chiese ancora McCourt.
«Sì».