Capitolo 37

 

Napoli, 18 giugno, ore 19:30

Tre giorni al solstizio d’estate

 

«Dottor Aragona, proviamo a ristabilire un rapporto più onesto», esordì Asar con la sua solita voce bassa e graffiante.

«Ristabilire un rapporto onesto?», sbottai, «dopo che avete ammazzato un povero vecchio, anzi due a questo punto e forse anche il bulgaro ripescato nella Moldava?».

Lo sentii sospirare dall’altra parte del telefono. «Ho saputo della morte del professor Ricciardi, ma devo deluderla, noi non c’entriamo niente, né con la sua morte, né con i delitti di Praga. Le mie sono rimaste minacce, non ho premuto il grilletto. Il vostro amico professore non ha retto allo stress, è morto di morte naturale, mi creda».

«Perché dovrei?»

«Perché non avrei nessun problema ad attribuirmi la paternità del delitto, anzi mi sarebbe comodo, perché voi ora siete spaventati. Io invece voglio giocare onestamente e per questo le dico che non abbiamo ucciso il professore, né Hašek, né il bulgaro di cui parla».

«Ma davvero? Sulla scena del delitto c’era la vostra firma».

«Faccia funzionare la testa, dottor Aragona. Qualcuno vuole addossare a noi la responsabilità di tutti questi omicidi, mi sembra evidente, e forse anche del furto dell’orologio del barone Scotto di Fasano, quello che lui ha sempre spacciato come opera del principe di Sansevero».

Era forse la prima volta che accennava al furto dell’orologio alchemico e mi sorprese il tono sprezzante con cui si riferì al barone e al suo prezioso tesoro. Mi vergognai all’idea di condividere con quell’uomo la stessa antipatia per il nobile storpio.

«Ah, quindi non avete nulla a che fare neanche con quel furto», dissi per stuzzicarlo.

«Perché mai avremmo dovuto rubarlo?»

«Ci sono dei simboli egizi su quell’orologio, mi è sembrato ovvio pensare a voi».

«Dottor Aragona, ci sono simboli egizi anche sulla banconota da un dollaro, ma non siamo così ingenui da collegare tutto a noi. Quel che ci interessa in questo momento è scoprire il segreto della Cattedrale dei nove specchi. Nell’epistolario, che lei forse non ha avuto modo di approfondire, non si menziona alcun orologio o meccanismo simile. Ancora una volta, noi non c’entriamo. Quanto a Hašek, immagino che avesse qualche nemico nell’ambiente alchemico, qualche nemico più spregiudicato, che non si è limitato come noi a sottrarre al vecchio l’epistolario, ma si è spinto un po’ oltre. Il segreto dei segreti, la fonte della giovinezza, fa gola a tanti, anche a lei non lo neghi».

«Non tanto da uccidere».

«Punti di vista. Comunque non si rilassi troppo, posso ancora mettere in atto la mia minaccia, mi restano cinque obiettivi da colpire con il mio Re Scorpione, quindi non provi più a scherzare con me. Come prima cosa farebbe bene a parlare con il suo amico commissario Franchi perché rilasci il mio aiutante».

Feci una risatina. «Lei è pazzo, crede che io abbia un tale potere? Sono un antiquario, non se lo dimentichi».

«Non importa chi o cosa lei sia, ha ascendente sul commissario e le consiglio di usarlo. Dopotutto, di cosa è incriminato il mio collaboratore? Eh? Me lo dica».

Tacqui e lui riprese.

«Non tiri la corda con me e faccia quel che le chiedo». Fece un’altra pausa, quindi continuò: «Passando ad altro, a che punto è la sua ricerca?»

«Sto procedendo, ho creato un rubino artificiale con le indicazioni del principe, ma avete impedito ai miei confratelli di continuare a lavorare sui testi, rallenterete il nostro lavoro così».

«Dovevamo cautelarci, ma ora che ci siamo chiariti, le cose torneranno come prima», rispose lui con molta calma. «Domattina troverete l’epistolario e il libretto del principe a Palazzo Penne. Porterà con sé il rubino e lo consegnerà al guardiano che troverà lì. Le do inoltre la mia parola che nessuno morirà stanotte, allo scadere delle dodici ore, se riceverò comunicazione del rilascio del mio uomo. Anzi, appena ne avrò la conferma, le darò la buona notte con un messaggio. Intesi?».

Rimasi in silenzio un istante, quindi, già pensando a quello che avrei dovuto dire a Oscar, risposi sconfitto: «Va bene, farò del mio meglio».

Attaccai e chiamai immediatamente Oscar.

«Non mi piace per niente essere tenuto in scacco da questo pazzo», fu il suo commento dopo aver ascoltato quel che avevo da dirgli. «Va bene, Lorenzo, lo rilasciamo, ma solo perché non voglio rischiare più nulla. Per quanto ci riguarda, potremmo ignorare del tutto le loro minacce».

«Come fai a esserne così sicuro?»

«Ho fatto analizzare lo smartphone del tizio che abbiamo arrestato. I tecnici informatici hanno detto che l’applicazione che dovrebbe attivare il rilascio del veleno è in realtà una specie di videogioco, non lancia alcun segnale via internet o via radio. È una simulazione grafica».

«Ma potrebbero comunque farlo dal computer di Asar o da qualche altro apparecchio. Forse l’applicazione del telefono che avete analizzato è fittizia, non possiamo essere sicuri che non siano davvero in grado di farlo».

«È ancora presto per esserne certi al cento per cento, naturalmente, ma quello che abbiamo scoperto in quell’apparecchio fa il paio con la prima analisi dei medici sul cadavere di Ricciardi».

«Ho capito. Quindi secondo te la minaccia è inconsistente?», domandai speranzoso.

«Secondo me sì, ma come ti ho detto non voglio correre altri rischi. Rilascerò quell’uomo, ma ti giuro che è solo un contrattempo. Li prenderò».

Tornai a casa esausto, quasi rincuorato. Non che avessi ingenuamente fiducia in un criminale, ma ragionando a mente fredda, pensai che avesse senso quel che Asar aveva detto. In particolare riguardo all’assassinio di Hašek. L’avevo sospettato subito che quella messinscena era troppo studiata. Come aveva detto Lisáček, esistono alcuni assassini, in particolare i serial killer, che, inconsciamente o meno, vogliono essere catturati e per questo lasciano indizi. Non mi sembrava fosse il caso e se quella messinscena serviva a far ricadere la responsabilità sulla Societas Isidis, allora chi era il vero assassino di Hašek?

A casa trovai Alex, Andrea e Àrtemis. Salutai i primi due e abbracciai Arti. Sembrava si fosse un po’ ripresa, Alex aveva fatto un buon lavoro per cercare di tirarla su. Arti aveva persino cucinato qualcosa per cena. Prima di metterci a tavola, li misi al corrente sia della telefonata con Asar sia di quello che mi aveva detto Oscar.

«Quindi non dovremmo rinchiuderci di nuovo nel caveau della banca e fidarci di quell’uomo?», domandò Arti alla quale ovviamente quella prospettiva piaceva poco.

«Attendiamo il messaggio e decidiamo insieme a Oscar», dissi con tono rassicurante.

Andrea rifletté per un istante. «Mi sembra che tutto abbia senso. Non so perché, ma secondo me quell’uomo sta dicendo la verità».

«Che dirti, Andrea? Adesso c’è anche l’altro cadavere ripescato nella Moldava, il bulgaro, l’hai saputo?»

«Certo, ma non te ne avevo parlato ancora, eri già troppo sotto pressione. Quando sei andato via dal commissariato, oggi pomeriggio, ho ricevuto una telefonata da Lisáček. Mi ha aggiornato un po’ su tutto, anche sul ritrovamento del bulgaro».

«Sembra si tratti di suicidio, giusto?».

Andrea aggrottò la fronte e scosse la testa. «Questo è quello che i miei colleghi praghesi hanno voluto far credere all’opinione pubblica. In realtà Bublan sta seguendo la pista dell’omicidio. Dai primi rilievi della Scientifica e del medico legale, pare che il bulgaro abbia lottato prima di morire, come se qualcuno l’avesse affogato. Il cadavere è stato trovato dalle parti del mulino tra l’isola Kampa e Malà Strana. Gli hanno trovato un bisturi addosso e sembra essere quello usato per fare scempio del corpo di Hašek, ma sia Bublan che Lisáček sono convinti che si tratti di una messinscena».

«Un’altra…», mormorai.

«E non è tutto, perché di messinscena ce n’è ancora una terza. Bublan e Lisáček sono riusciti a far parlare Stefano de Lucia, l’assistente del barone, e hanno scoperto qualcosa che cambia decisamente l’indagine».

«Perché?»

«De Lucia non aveva nessun particolare segno dell’aggressione subìta, solo un bernoccolo, e così è stato dimesso in meno di due giorni. I colleghi cechi l’hanno subito interrogato. Si è contraddetto più volte e alla fine, messo alle strette, ha confessato che si è trattato di una finta. Lui era d’accordo con il ladro che, naturalmente, ha versato una cospicua somma di denaro sul suo conto in banca per ottenerne la collaborazione».

«Santo cielo, quindi de Lucia lo conosce bene».

«Eh no… Quell’uomo è furbo. De Lucia non lo ha mai visto in faccia e anche la sera del furto si è presentato a volto coperto prima di colpirlo alla testa, come stabilito, per ingannare la polizia».

«Un altro uomo mascherato…».

«Sì, che forse però ha commesso un errore, si è presentato con un nome, sicuramente falso, ma che forse può avere un qualche significato: Jérome Clairmont».

«Un francese?»

«No, de Lucia ha confermato più volte che si tratta di un italiano».

Scossi la testa. Un altro tassello che aggiungeva caos più che ordine.

Alex intanto aiutò Arti a portare la cena in tavola. Sedendosi fece un sospiro e prima di affondare la forchetta nel suo piatto disse: «Coraggio, mangiamo qualcosa in pace adesso, sperando di non dovervi accompagnare alla banca e farvi digerire nel caveau».

Mangiammo quasi in silenzio e solo quando eravamo ormai alla frutta sentii il tipico suono che faceva il mio telefono al sopraggiungere di un SMS.

«Scusate, può essere importante», dissi alzandomi per controllare. Il messaggio non aveva mittente, impossibile identificare il numero di chi lo aveva spedito.

 

Il mio uomo è stato rilasciato. Faccia sogni d’oro, per stanotte nessuno morirà. Le restano ormai due giorni. Asar

Tirai un sospiro i sollievo e informai subito Oscar.

«Cosa dobbiamo fare? Fidarci o rinchiuderci nel caveau?», gli domandai. Mancavano ancora alcune ore allo scadere delle dodici.

«Viola ed Enzo Amato restano a casa, ma voi siete liberi di scegliere diversamente. Io sono convinto che non accadrà nulla».

Andrea e Arti si erano avvicinate per ascoltare. Si scambiarono uno sguardo e poi Arti esclamò: «’Fanculo, io resto a casa mia!».

Andrea sorrise e le accarezzò una spalla. «Anch’io».

Sorrisi a mia volta e dissi: «Oscar, puoi ringraziare il direttore della banca, restiamo tutti a casa».

«Andrà tutto bene, vedrete. Ci sentiamo domattina, cercate di risposare».

Dopo cena quell’inguaribile dongiovanni di mio fratello riuscì a convincere Andrea a distrarsi un po’, andando a bere qualcosa nella zona di vico Belledonne a Chiaia, piena di bar e locali notturni e quasi sempre affollata di giovani. Alla fine, e nonostante la tensione di quei giorni, era riuscito a strappare alla graziosa poliziotta ceca un appuntamento.

Arti prese un tranquillante e andò a letto dopo poco, ma io rimasi a studiare la terza poesia del principe di Sansevero. Rilessi quelle che secondo me erano le parti chiare, come il riferimento a un sacello che quasi certamente doveva essere una chiesa, un luogo di Napoli ben preciso.

Mentre rileggevo riga per riga la poesia, ricevetti un messaggio da Carlo Sangiacomo.

 

Lorenzo, spero che tu non stia ancora dormendo. Ho passato tutto il pomeriggio ad arrovellarmi su quella poesia. Credo di aver capito a cosa si riferisca.

Non persi tempo e lo chiamai immediatamente.

«Dimmi che porti un po’ di luce in questo buio pesto, fratello».

«Solo se ammetterai che è con l’aiuto di Dio che questo può avvenire», rispose lui.

«Ci mancherebbe, se hai trovato la soluzione, riconoscerò l’importanza di Dio, dei santi, di Maometto e della Fata turchina! Ma prima che tu prosegua ho anche io qualcosa di importante da dirti».

Gli raccontai di quello che avevo trovato nella Cappella Sansevero, interpretando la seconda poesia. Lui rimase in silenzio per qualche istante, poi riprese: «Be’, mi sembra che s’incastri alla perfezione. Segui il mio ragionamento. I primi due versi ci dicono semplicemente che siamo stati bravi a scoprire il segreto dell’albedo, cioè la sequenza che tu hai trovato sotto il coperchio della cassa. Con questo segreto ora possiamo entrare nel sacello dove la pietra di rubedo può essere tramutata in ruscello dalla nostra arte».

«Esatto, il sacello può essere una chiesa, ma questa pietra che diventa ruscello?»

«Non una chiesa, ma una cappella», mi corresse Carlo, «la più famosa cappella della città».

Riflettei un istante. «Ma non può portarci per due volte nello stesso luogo».

«Tu ragioni come un massone e un alchimista, pensi che la cappella in questione sia la Pietatella, la Cappella Sansevero», mi rimproverò Carlo. «Ragiona invece come il classico napoletano timorato di Dio. Qual è il sacello, la cappella più importante della città dove una pietra rossa diventa un ruscello?».

Avvertii un brivido lungo la schiena e capii al volo. «Santo Dio, hai ragione, la Cappella del Tesoro di San Gennaro!».

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