Capitolo 43
Napoli, 17 luglio, ore 02:30
«Oggi lo chiameremmo spot promozionale», disse continuando a tenerci sottotiro. «Ma negli Quaranta si usava di più la parola propaganda».
«Propaganda di cosa?», domandai lanciando di tanto in tanto uno sguardo nervoso alla pistola.
«Dei beni culturali partenopei. Quel filmato avrebbe dovuto essere proiettato in coda ai cinegiornali propagandistici americani, per mostrare ai napoletani come gli occupanti si stessero adoperando per rimettere in sesto anche i monumenti. L’idea dello scheletro della sirena fu una spacconata hollywoodiana, è vero, ma faceva il suo effetto. Comunque, fu girato ma mai proiettato al pubblico».
«Lei come sa tutte queste cose?»
«Mio padre era tra quelli che lo realizzarono. Per rendere la cosa realistica, gli americani vollero un biologo marino come consulente e lui contribuì a far apparire lo scheletro il più verosimile possibile».
«Ma no!», sbottò Nico. «E tutto quello che abbiamo fatto per arrivare fin qui? I cunicoli, la porta, la macchina di Aurìchalkos? Anche quello è tutto falso?»
«Non tutto: in parte la sua è stata davvero una scoperta e neanche di poco conto, professore Valenti Albani. Di quest’area eravamo a conoscenza solo io e pochi altri. Neanche la troupe che girò il filmato ne sapeva nulla, Mario Napoli incluso. E per la verità, il video non fu neanche girato qui, io ho solo ricevuto in dono da mio padre il set che fu usato e che ho ammucchiato in questa grotta. A lei, invece, spetta il merito di aver portato alla luce quello che, dal punto di vista archeologico, è un vero tesoro: un sistema di gallerie scavato dai Figli di Nettuno per raggiungere il loro santuario che però, mi dispiace deluderla, è perduto. Sfortunatamente, questa sua scoperta resterà senza gloria, nessuno ne saprà mai nulla».
«Ma perché? Perché nascondere un simile tesoro?», domandò Àrtemis frustrata.
«La maggior parte di questi cunicoli circonda i laboratori della Platamon onlus di cui sono io proprietaria e non voglio gentaccia a vagare per anni nel giardino di casa mia», rispose secca la Morgano. «E adesso basta! Passerete per la nostra sede, si fa molto prima. I due palazzi adiacenti sono collegati attraverso il monte Echia da questa rete di cunicoli».
La donna si scostò di lato, sempre tenendoci sottotiro e ci fece cenno d’inoltrarci nella galleria dalla quale era entrata. Vidi Nico guardare sconsolato il mucchio di oggetti nel mezzo della caverna. «Uno spot…», mormorò abbattuto.
La galleria in salita, che collegava la grotta dove la Morgano aveva abbandonato i vari elementi del set e i laboratori della Platamon onlus, era davvero breve: in pochi minuti ci ritrovammo davanti a una moderna porta blindata.
«Questo tunnel l’ho fatto scavare io, speravo di raggiungere la falda acquifera. E invece dopo poche decine di metri mi sono ritrovata in quel sistema di cunicoli di epoca romana», disse la Morgano, che chiudeva il gruppo mentre percorrevamo gli ultimi metri di galleria. «Sa che io non li ho mai percorsi tutti, professor Valenti Albani? Fino a poche settimane fa non sapevo neanche dell’esistenza di quel varco superiore, con la porta, il mosaico e tutto il resto. Lei e i suoi amici siete stati bravi, davvero bravi».
«Senza la macchina di Aurìchalkos non avrebbe potuto farlo», disse il professore. «Si sarebbe persa e avrebbe vagato forse per giorni. Non sono semplici tunnel, si tratta di un labirinto».
«La macchina, già», mormorò la donna. «Forse sarebbe il caso che la lasciaste a me».
«Scordatelo», furono le parole aspre di Anna.
Per tutta risposta la Morgano fece scattare il cane della pistola puntandola alla tempia di Àrtemis, la persona più vicina a lei. «Altrimenti?».
Trasalii e strinsi forte il braccio di Anna, pronta a intervenire. Con la sua abilità nelle arti marziali, avrebbe potuto disarmare quella donna in un attimo, ma era fuori discussione che lo facesse mentre mia moglie era sotto la minaccia di una pallottola in testa.
«Sta’ calma, Anna, ti prego, dalle la macchina», mormorai con la voce che mi tremava.
La tensione che si era impadronita dei suoi muscoli si allentò, ma diede comunque sfogo alla sua frustrazione e parole affilate le uscirono dalla bocca. «Se prendi la macchina, sappi che io la recupererò facendoti molto male».
«Lo vedremo», replicò secca Elena Morgano. «Poggia la valigetta a terra».
La russa serrò le dita attorno all’impugnatura della valigetta così forte che le nocche della mano le divennero bianche, ma dopo un istante mollò la presa, soffiando dalle narici come un toro.
Le strinsi una spalla. «La riprenderemo, te lo prometto».
La Morgano abbassò la pistola e Àrtemis mi si avvicinò con passi misurati come quelli di un automa.
La biologa ci intimò di proseguire e, giunti all’ingresso, aprì la porta a vetri schiacciando un pulsante sul banco della reception. «Adesso fuori di qui! Ringraziate di potervene andare con le vostre gambe e, un’ultima cosa, non una parola su quello che avete visto o su quello che vi ho detto. Non ci provate neanche a denunciare me o la Platamon onlus. Ho amici così potenti che dovreste cambiare Paese per rifarvi una vita».
Uscimmo con la coda tra le gambe. Una volta in strada, ci guardammo smarriti per qualche secondo, poi diedi un’occhiata all’orologio.
«Avvisiamo don Gennaro, sono già passate le tre ore stabilite».
Andammo nel palazzo accanto e ci avvicinammo alla guardiola del portinaio dalla quale si accedeva alla sua abitazione. La porta era socchiusa.
«Don Gennaro», sussurrai. «Don Gennaro!». Non ricevendo risposta, guardai gli altri stupito. «Forse è andato nel garage». Prima di uscire, però, sentii un rumore provenire dall’interno dell’abitazione. Entrai per controllare e trovai il portinaio che dormiva alla grande sul divano con i piedi appoggiati su una sedia. Sospirai e uscii in silenzio accostando la porta.
«Se non altro, direi che non ci saranno conseguenze per lui».