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La casa degli orrori

 

Eventi ricostruiti da Lorenzo Aragona

 

Napoli, gennaio 2013

 

Raggiungemmo quel palazzo decrepito che distava poche centinaia di metri da casa mia e dal quale ero uscito solo poche ore prima. «Secondo Anna ero controllato ventiquattr’ore su ventiquattro con microfoni e telecamere. I vestiti che ho addosso in questo momento me li ha dati lei, perché sui miei pare ci fossero delle microspie».

Oscar estrasse la pistola e lanciò uno sguardo preoccupato a Viola. «Speriamo di trovare presto questa ragazza, ha molte cose da spiegarci. Coraggio, saliamo in questo famigerato appartamento».

Varcammo il cancello arrugginito e ci ritrovammo in una specie di foresta selvaggia.

Oscar cercò di farsi strada tra le piante intricate che circondavano il palazzo. «Saranno cinquant’anni che nessuno si occupa più di questo giardino. E il palazzo sarà stato abbandonato più o meno nello stesso periodo».

Entrammo nell’edificio, completamente disabitato e in rovina, e raggiungemmo l’ultimo piano. La ringhiera lungo la tromba delle scale era marcia e gli scalini stessi erano in più punti completamente distrutti.

«Che razza di posto, è spettrale!», commentò Oscar.

Giungemmo davanti alla porta dalla quale ero uscito poche ore prima e cominciai ad agitarmi.

«Stai tranquillo, ora non sei solo».

Laddove un tempo c’era stato un campanello, ora non si vedevano altro che fili elettrici malridotti. La porta stessa era in uno stato pietoso.

Oscar provò a bussare. «Polizia, aprite!».

Nessuna risposta.

«Polizia, aprite o buttiamo giù la porta!».

Di nuovo nessuna risposta.

«D’accordo, passiamo alle maniere forti».

Si allontanò di mezzo metro e tirò un calcio contro la porta che si spalancò come fosse tenuta chiusa da un cordoncino di spago. «Troppo facile», commentò entrando con circospezione, la pistola puntata nel buio freddo dell’appartamento. «C’è nessuno? Polizia!».

Ancora una volta non ottenne riposta, così avanzò di qualche metro seguito da me e Viola. Cercò e trovò un interruttore per accendere la luce, ma sembrava che l’intero palazzo non fosse servito da corrente elettrica chissà da quanto tempo.

«Non hai notato stamattina che non c’era corrente?», mi chiese in un sussurro.

Scossi la testa. «Avevo troppa fretta di uscire ed ero ancora in preda alle allucinazioni».

I due poliziotti accesero le torce che avevano con sé e insieme procedemmo in direzione della prima stanza che s’incontrava, la cucina. Oscar avanzò lentamente, con la pistola puntata verso la penombra, all’interno di quell’ambiente freddo e sporco. La sua cautela era quasi eccessiva poiché di pericoli, in realtà, non ce n’erano. Io stesso fui sorpreso nel constatare che la cucina sembrava ancora più malridotta di come l’avevo vista quella mattina, come se avessi perso l’ultimo velo allucinatorio e le cose mi apparissero esattamente per quello che erano.

«Lei era qui che preparava il caffè…», dissi in preda alla confusione più totale, «ma le cose mi sembrano diverse ora».

«Sei sicuro che si tratti dell’appartamento giusto?», chiese Oscar.

«Ma certo!».

«D’accordo, sta’ calmo, continuiamo l’ispezione».

Uscimmo dalla cucina e proseguimmo lungo il corridoio fino a trovarci in un’altra stanza, ancora più malandata della cucina. Il pavimento era completamente a pezzi, c’erano calcinacci dappertutto, soffitto e tetto erano sfondati in più punti e, attraverso i buchi lasciati da tegole ormai scomparse, s’intravedeva il cielo. Davanti a un camino annerito, con la spalliera rivolta verso di noi, si trovava un vecchio divano che un tempo era stato di pelle e in un angolo una grossa scatola di cartone.

«Viola, dai un’occhiata a quella scatola mentre noi proseguiamo verso le altre stanze».

«È tutto così diverso, da stamattina», mormorai senza riuscire a capacitarmene.

«Forse eri ancora sotto l’effetto della droga, come hai detto tu stesso», ipotizzò Oscar.

Entrammo nella stanza da letto. Almeno quella conservava le sembianze di quella vista poche ore prima. C’erano un letto – una semplice rete di ferro con un materasso e delle coperte – un comodino di legno, marcio, che ancora portava i segni di un passato da mobile d’epoca vittoriana, l’armadio dal quale avevo preso il vestito e uno scrittoio con una gamba sfondata, che si reggeva su alcuni mattoni.

«In quell’armadio ci sono degli abiti protetti dal cellophane, è lì che ho preso quello che indossavo».

Oscar si avvicinò e aprì le ante. Un grosso topo, che non si aspettava quell’intrusione, scappò via squittendo. Oscar fece in tempo a scostarsi per evitare che il roditore gli passeggiasse sui piedi. «Che diavolo…!». Ritornò a guardare nell’armadio puntando la torcia al suo interno e dopo un istante si girò verso di me. «Vieni, guarda tu stesso».

Non potevo credere ai miei occhi. Fatta eccezione per polvere, sporcizia e pezzi di legno fradicio, nell’armadio non c’era assolutamente nulla, nessuna traccia di vestiti, con o senza cellophane. «Questi bastardi stanno cercando di farmi impazzire, li hanno portati via!».

Oscar mi guardò con apprensione per un paio di secondi, poi Viola entrò nella stanza e si guardò intorno con disgusto. «Dio, che schifo. Questo posto è una topaia».

«Nel vero senso della parola…», commentò. «Hai trovato niente d’interessante in quella scatola?»

«Cose strane, cianfrusaglie di nessun valore, portachiavi, monete e un mucchio di giocattoli».

A quell’ultima parola ebbi un sussulto. «Giocattoli hai detto?»

«Sì, un sacco di giocattoli molto vecchi».

«Ma certo, la scatola!», dissi dandomi una pacca sulla fronte.

Andammo tutti e tre nella stanza dove c’erano il divano e la scatola. «I giocattoli, i miei giocattoli…», dissi scavando freneticamente nella scatola.

«Che significa?», mi chiese Oscar abbassandosi per guardare. Mi voltai con occhi spiritati. «Ieri sera credo, ma può darsi che sia successo anche nei giorni precedenti, quella donna, quella che si spacciava per mia moglie, mi ha chiesto di rimettere a posto questa scatola di cianfrusaglie. Quando ho iniziato a farlo, a un certo punto ho ritrovato il vecchio pupazzetto di Spider-Man di cui vi ho parlato, un giocattolo al quale ero molto affezionato da piccolo».

Tirai fuori dalla tasca l’omino blu e rosso e lo fissai intensamente.

«La cosa strana è che nel momento in cui l’ho toccato, ho avuto come una visione, anche se non ricordo chiaramente di cosa si trattasse. La mia mente era offuscata. Forse se mi concentro…».

Fissai per alcuni secondi il pupazzetto, nella speranza che il fenomeno si ripetesse. Ma non accadde nulla. Vuotai il contenuto della scatola sul pavimento e cominciai a rovistare tra quelle cianfrusaglie come un ossesso. Cercavo qualcos’altro che potesse evocare dei ricordi. Poi il cellulare di Oscar squillò. «Sì, pronto. Dimmi Valenti. Capisco. Grazie, tenetemi informato se dovessero esserci novità. Lorenzo…».

Non gli prestai attenzione e continuai nella mia operazione di ricerca.

«Lorenzo, ascolta! Non c’è niente qui dentro e forse quelle visioni erano provocate dalla droga, non dal pupazzetto».

Mi voltai a guardarlo furibondo. «Ma di che stai parlando? Non ricordo precisamente le visioni, ma ricordo questa scatola ed è stato il mio vecchio giocattolo a provocarle. Anche Anna ha confermato che è possibile. Forse qualche altro oggetto ha lo stesso potere…».

«Lorenzo, ti prego, qui non c’è nulla. Non c’è il fuoco scoppiettante nel camino, i vestiti nel cellophane, il divano morbido e caldo, il caffè… Lorenzo, non c’è nulla di tutto questo, né quello che hai visto stamattina né quello che, come dici tu, hai visto mentre eri sotto l’effetto della droga. Al telefono era un mio collaboratore. Lui e alcuni agenti sono andati a dare un’occhiata al vecchio negozio di restauri dove dici di aver aggredito quell’uomo».

Io mi limitai a guardarlo in attesa che finisse.

«Non hanno trovato niente, solo un magazzino abbandonato come ce ne sono tanti a Napoli. Non c’erano fogli con strane scritte, né computer o altro. Soprattutto non c’era nessun cadavere». Fece una pausa indicando lo squallore che ci circondava. «E questo è solo un appartamento disabitato e che sta andando a pezzi».

«Ma questi oggetti sono miei, li riconosco!».

«Ma non capisci?».

Lo fissai con un’espressione attonita.

«Sei tu che hai portato qui questa scatola, hai creato tu tutto questo».

«Che stai cercando di dirmi?»

«Sto cercando di dire che forse sei preda di una forte depressione, che probabilmente è all’origine delle tue allucinazioni. L’ultima volta che abbiamo parlato e tu eri ancora nel pieno delle tue facoltà, durante i giorni immediatamente successivi all’assassinio di Bruno, mi hai detto che saresti tornato a Zurigo, ma in realtà lì non ti hanno più visto. I genitori di Àrtemis, che da agosto assistono tua moglie insieme a te, hanno vissuto nell’angoscia. Lo stesso vale per tuo fratello Alex e i tuoi genitori. Stanno cercando di aiutarti in tutti modi, ma gli è impossibile seguire i tuoi movimenti. È difficile anche per noi che abbiamo molti più mezzi di loro. Il dolore ti ha fatto perdere il contatto con la tua vita, Lorenzo, e così ti sei costruito una finta realtà».

Mi alzai e lo fissai con uno sguardo di malinconica delusione. «Tu sei venuto qui già con questa idea in mente, non è vero?»

«No, ti sbagli…».

«Pensi che io sia uscito di senno, o che magari abbia iniziato a bere di nuovo, giusto? Come facevo anni fa. Dimmelo in faccia, Oscar, o provi troppa compassione per questo povero malato per parlare sinceramente?»

«Lorenzo, non ho detto che sei malato».

«L’hai appena fatto, invece. Hai detto che sono depresso».

«L’ho detto per farti capire cosa può essere successo. Non c’è nulla di soprannaturale».

«Allora risparmia la fatica, so trovare da solo le spiegazioni. Se non abbiamo altro da fare, io vado a casa, la mia vera casa, a preparare la valigia».

Oscar si passò una mano sul viso, esausto. «D’accordo, calmati. Come vuoi tu. Permettici solo di accompagnarti».

Esitai.

«Non vuoi neanche offrirmi un caffè? Con tutto quello che sto facendo per te», disse Oscar per stemperare la tensione.

Abbozzai un sorriso.

Giunti davanti a palazzo Aragona, mi diressi deciso verso il lato destro del cancello e spinsi uno dei mattoni di tufo di cui era composto il muro nel quale il cancello stesso era montato. Lo feci scorrere, uno sportello camuffato dello spessore di cinque centimetri circa, e da un piccolo vano ricavato nel muro tirai fuori un mazzo di chiavi.

«Ah, ma allora è il tuo marchio di fabbrica!», commentò Oscar.

«Già, a volte inseguire tesori perduti stimola la fantasia».

Fui contento di avere Oscar con me nel momento in cui varcavo la soglia della mia vera casa. Entrando, fui colto infatti da una sorta di vertigine e dovetti fare uno sforzo per non svenire dal-l’emozione. Perché se fino a poche ore prima ero convinto di vivere la mia solita vita, nella mia bella casa, ora era evidente che sia io che Àrtemis mancavamo da quell’appartamento da molto tempo.

Una leggera coltre di polvere si era posata ovunque. Per il resto sembrava tutto a posto.

Vagai per le stanze come fossi un estraneo e mi soffermai su oggetti davanti ai quali ero passato migliaia di volte, come vecchi ricordi o fotografie. Presi tra le mani una foto che ci ritraeva insieme al mio amico maltese Sante e a sua moglie Carmen, una foto fatta a Granada alcuni anni prima. Un sorriso amaro mi comparve sul viso. «Ho sempre fatto passare un mucchio di guai alla mia povera Àrtemis. Ho cercato di proteggerla in ogni situazione, ma puntualmente ho messo a repentaglio la sua vita. E ora…».

Le lacrime non mi permisero di continuare.

«La malattia di tua moglie non è colpa tua», disse Oscar, rimasto dietro di me con discrezione. «Lei ti ama molto e ha sempre apprezzato il tuo desiderio di conoscenza, nonostante i rischi».

Mi voltai a guardarlo. «A cosa mi è servita questa conoscenza, se non ho saputo neanche proteggere le persone che amo?».

Oscar si strinse nelle spalle. «Ci sono innumerevoli ostacoli che neanche con il sapere più approfondito possiamo superare, lo sai meglio di me».

Posai la fotografia. «Non pretendo tanto. Ma la natura… Su quella posso intervenire. Sono un alchimista. Nella stanza accanto ho un piccolo laboratorio dove ho compiuto ogni sorta di esperimento. Se anche tutte le medicine del mondo dovessero fallire, troverò il modo di salvare mia moglie».

Oscar annuì. «Sono sicuro che ci riuscirai. Ora va’ a preparare la valigia, mentre noi diamo un’occhiata in giro».

Quando entrai nel mio studio per prendere alcune cose che volevo portare con me, mi accorsi che qualcosa non andava. I cassetti della scrivania erano aperti e il contenuto era stato sparso in giro. Stessa sorte era toccata ai documenti contenuti nella libreria, mentre la cassaforte non era stata trovata. Mi resi conto subito, però, che non si trattava di ladri, perché tutti i pezzi di valore della mia collezione erano al loro posto. Che cosa cercavano veramente?

Con i pensieri che mi turbinavano nella testa, feci in fretta la valigia e tornai da Viola e Oscar, che mi aspettavano in salotto, con un’espressione corrucciata in viso.

«Che cosa succede?».

Oscar venne verso di me. «A meno che tu non abbia rovistato nei tuoi cassetti mentre eri sotto l’effetto della droga, buttando tutto all’aria, direi che i tuoi nuovi amici sono stati qui per cercare qualcosa. E questo non fa che fugare ogni dubbio su quello che ti è successo».

Annuii. «Già, hanno rovistato anche nello studio e in camera da letto, ma nulla è stato rubato».

«Che cosa cercavano, allora?».

Risposi di getto. «Probabilmente la griglia di Cardano».

Oscar annuì. «Possibile che sia così importante da indurre a uccidere pur di averla? In ogni caso noi la faremo analizzare per cercare di trovare qualche impronta o altre informazioni utili».

Mi ricordai di un particolare che avevo dimenticato fino a quel momento. Frugai in una tasca e sorrisi. Un’altra conferma che non avevo immaginato tutto.

«Insieme alla griglia, fai analizzare anche questa. La donna che si spacciava per mia moglie ha cercato di farmela inghiottire questa mattina».

La pillola.

Oscar annuì, quindi si accorse che i miei occhi continuavano a guardare l’ora. Mi sorrise bonariamente. «Andiamo, mangiamo qualcosa insieme e poi ti accompagno all’aeroporto. Non mi fido a lasciarti qui da solo».

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