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Dalla luce alle tenebre

 

Eventi ricostruiti da Lorenzo Aragona

 

Napoli, dicembre 2012

 

Quella giornata sembrava fosse iniziata in maniera egregia. Avevo dormito come un ghiro e un bellissimo sole invernale mi aveva svegliato inondando le coperte.

Mi attardai un po’ nel letto gustandone il tepore: mancavano ormai pochi giorni a Natale e faceva un gran freddo fuori, ma la luce che cadeva intensa annunciava una giornata luminosa e tersa, come non ne vedevo da tanto tempo.

“Si prepara un solstizio d’inverno magnifico”.

Mia moglie era già in piedi ma io avevo ancora sonno, così cercai di ritardare il più possibile il momento di alzarmi. Mi decisi solo quando il profumo familiare e ammaliante del caffè s’insinuò nelle mie narici, a tradimento, e mi convinse ad avviarmi verso la cucina.

Raggiunsi Àrtemis ai fornelli e la baciai sul collo mentre lei era ancora intenta a girare il caffè nella macchinetta.

«Buongiorno tesoro, dormito bene?»

«Benissimo, anche se, a dirti la verità, ho ancora sonno».

Mia moglie si voltò porgendomi una tazzina di caffè e scuotendo la testa. «Sei il solito dormiglione! Ecco, bevi. Svegliati», mi disse.

Adoro l’inverno, la mia stagione preferita. Il caldo dell’estate mi ha sempre creato estremo disagio, preferisco di gran lunga imbacuccarmi in una giornata gelida che boccheggiare sotto il solleone.

Tuttavia, da un po’ di tempo strani incubi, o meglio sogni a tinte forti, occupavano le mie notti, anche se il ricordo svaniva quasi sempre al risveglio.

In ogni caso, per tenere un po’ a bada la mia psiche turbolenta, avevo iniziato a prendere delle pillole, che avrei dimenticato tutte le mattine, se non ci fosse stata Àrtemis a mettermele praticamente in bocca.

«Lorenzo, non voglio che stanotte mi svegli di nuovo perché sogni astronavi di pastasciutta!», mi disse quella mattina raggiungendomi sull’uscio con un bicchier d’acqua e la pillola.

«Ah, così pensi che quei sogni siano dovuti alla mia golosità! Eppure, anche se non ricordo quasi nulla, sono certo di non aver sognato cibo».

«Allora hai qualche amante che si chiama carbonara…».

Uscii di casa sorridendo per la battuta di Àrtemis e mi avviai al garage. Tuttavia, lungo il tragitto e prima di fermarmi a prendere il giornale, ritornai a pensare al sogno di quella notte. La frecciatina di mia moglie ne aveva fatto riaffiorare alla mente un brandello. E in quel brandello non c’era un piatto di pasta, ma un volto. Un volto di donna. Àrtemis non era andata così lontano in fin dei conti. Mi sforzai di mettere a fuoco quei lineamenti, ma tutto ciò che riuscii a recuperare fu il colore dei capelli. Ero più che certo di aver sognato una donna bionda.

Misi da parte per un momento il sogno e mi avvicinai al chiosco dei giornali. «Buongiorno Fausto, il solito per favore».

Diedi i soldi all’edicolante e in quel momento qualcuno mi urtò facendo rotolare le monete per terra. «Mi scusi tanto», disse la donna che mi aveva colpito mentre ci chinavamo insieme a raccogliere i soldi.

«No, lasci stare, faccio io, non importa».

Aveva un cappello di lana calato fin sulla fronte, dal quale fuoriuscivano capelli biondi legati a coda di cavallo, e indossava grossi occhiali da sole scuri. Li abbassò rapidamente e così notai gli occhi di un azzurro stupefacente. Nell’attimo esatto in cui il nostro sguardo s’incrociò, una fitta mi annebbiò la vista per qualche secondo, facendo affiorare sulle mie labbra tre parole: «Ma sei tu!».

La ragazza si rinfilò gli occhiali e si dileguò senza rispondere o lasciarmi il tempo di aggiungere altro. Mi rialzai confuso guardando nella direzione in cui era scomparsa, poi, mi girai verso Fausto.

Aveva il suo solito sorriso e il giornale in mano. «Ecco a lei, dottor Aragona, le auguro una buona giornata». «Sì, sì anche a lei Fausto», risposi porgendogli i soldi, poi, prima di andarmene, aggiunsi: «L’ha mai vista da queste parti?»

«Chi, dottor Aragona?»

«Come chi? La ragazza che mi ha urtato poco fa».

«Veramente io non ho visto nessuno».

«Ma come? Mi ha quasi travolto».

Fausto scrollò le spalle. «Mi dispiace ma non c’era nessuno, dottore… Lei è arrivato solo e nell’ultimo minuto non ci sono stati altri clienti». Lo fissai per qualche secondo poi presi il giornale e me ne andai.

Esclusi che Fausto, nonostante la familiarità che c’era fra noi, potesse arrivare al punto da prendermi in giro. Ma allora che cosa era successo? Che avessi avuto un’allucinazione provocata dal ricordo di un sogno? Scrollai le spalle e non ci pensai più fino al garage, dove, mettendo una mano in tasca per prendere le chiavi della macchina, mi accorsi di un piccolo pezzo di carta appallottolato.

Lo aprii e così lessi.

Cafè Riviera, ore 11:30. Venga da solo e non parli con nessuno di questo biglietto.

Non riuscivo a capire cosa significasse e soprattutto come fosse finito nella mia tasca.

“Ma certo, la ragazza! Allora non era un’allucinazione”.

Ma chi era e cosa voleva da me?

Giunsi all’Églantine – la mia galleria antiquaria – con quell’interrogativo che mi ronzava per la testa e con un’espressione corrucciata, tanto che Bruno, il mio socio, mi guardò con un’aria perplessa, mentre era in piena trattativa per la vendita di una preziosa e costosa consolle Luigi XVI .

Dopo circa un quarto d’ora, Bruno entrò con quella sua andatura dinoccolata e un sorriso smagliante nel piccolo ufficio che avevamo in fondo alla galleria. «Buongiorno Lorenzo, sappi che ho stabilito un altro record. Ho aperto appena mezz’ora fa e ho già venduto al dottor Ciliento la consolle Riesener. Ecco il primo assegno!».

«Bravo, complimenti».

«Ma che cos’hai? Quando sei entrato avevi un’aria pensierosa, è tutto a posto?»

«Sì… be’, veramente mi è successa una cosa strana».

Raccontai a Bruno l’accaduto ma senza dirgli nulla del biglietto. Non volevo dare troppo peso alla vicenda e qualcosa mi diceva che era meglio tenere per me quel particolare.

Il mio socio assunse un’aria tra il serio e il preoccupato poi, con una risatina, scrollò le spalle. «Lorenzo, avrai visto quella ragazza da qualche parte, magari nel tuo quartiere e l’hai sognata».

«D’accordo, ma come ti spieghi l’atteggiamento del giornalaio?»

«Mah… non avrà visto la ragazza perché era impegnato a prendere il giornale. Andiamo, non c’è niente di misterioso nella faccenda! Anzi, occupiamoci di qualcosa di serio. Ora facciamo un bel confronto incrociato tra vendite, acquisti e oggetti cui siamo interessati».

«No, ti prego, l’abbiamo fatto ieri!».

«Ma ieri non avevo venduto il Riesener».

L’ennesimo controllo incrociato di Bruno – come li chiamava lui – durò più del previsto, mentre io diventavo via via sempre più agitato per l’avvicinarsi dell’ora dell’appuntamento. Non avevo ancora deciso se andarci o meno quando, a un certo punto, il telefono squillò e come sempre Bruno fu velocissimo a rispondere. Qualcosa scattò in me. Non so perché lo feci, ma mi alzai meccanicamente e mi diressi verso l’uscita. Bruno, stupito, mi seguì con lo sguardo e io, accostando due dita alle labbra, gli feci segno che stavo andando a prendere un caffè. Afferrai il cappotto e uscii in gran fretta, per evitare che mi facesse troppe domande.

Raggiunsi a piedi il Cafè Riviera che distava neanche un chilometro dall’Églantine. Quando ero ormai a una trentina di metri dall’ingresso del locale, riconobbi sulla soglia la figura snella della ragazza. Era alta, molto alta. I capelli biondi, sempre legati in una coda, e il cappello nero ancora calato fin sugli occhi, coperti dagli stessi occhiali.

Nel vedermi, la ragazza s’irrigidì e agì in maniera imprevedibile: mi venne incontro rapidamente e senza fermarsi si mise prima di tutto un dito sulle labbra poi, passandomi accanto, indicò con la testa il vicolo adiacente al bar verso il quale si diresse. Rimasi lì, imbambolato, poi la seguii. Quel giochino stava iniziando a seccarmi, ma a quel punto ero determinato ad assecondarla.

Proseguii lungo la trafficata via Santa Maria in Portico, dove la ragazza aveva svoltato, ma a un certo punto la persi di vista, come se si fosse volatilizzata. Superai alcuni negozi e un portone poi, giunto al secondo palazzo, mi sentii tirare per il cappotto all’interno dell’atrio.

«Ma che cazzo…».

La mia imprecazione fu soffocata sul nascere da una mano premuta sulla mia bocca. Era lei. Sollevò davanti ai miei occhi un cellulare sul cui display era scritto un messaggio.

Salga lungo le scale, si spogli completamente e indossi gli abiti che trova in questo sacchetto. Io controllerò che nessuno arrivi. Non c’è tempo, la stanno già cercando. Voglio solo aiutarla. Non parli per nessun motivo.

Era proprio il colmo. Una maniaca mi diceva di spogliarmi per le scale di un palazzo in una zona molto popolare di Napoli e per giunta a dicembre inoltrato. Aggrottai le sopracciglia e cercai di liberarmi dalla sua mano ancora premuta sulla mia bocca. Lei abbassò gli occhiali rivelando ancora una volta quelle due gocce di cielo che erano i suoi occhi. Mi guardò supplichevole e mormorò un “ti prego” a fior di labbra.

Tentennai ancora un attimo, quindi presi il sacchetto e mi diressi verso le scale. Per fortuna nessuno salì o scese nei due minuti che impiegai a cambiarmi tremando per il freddo e così, vestito come un teenager, con tanto di cappello da baseball e occhiali scuri, ritornai da lei. La ragazza prese immediatamente il sacchetto nel quale avevo messo i miei indumenti e uscì dal palazzo.

Raggiungemmo un motorino parcheggiato lì fuori. Mise il sacchetto nel piccolo baule posto dietro al sellino, quindi s’incamminò verso la chiesa di Santa Maria in Portico che si trovava alla fine della strada omonima e mi fece un cenno invitandomi a seguirla. Entrammo e, attraversata tutta la navata, sedemmo al primo banco davanti al bell’altare del Vaccaro.

«Adesso possiamo parlare, al contrario dei vestiti che indossava, su questi che le ho dato non ci sono microfoni», disse lei togliendo occhiali e cappello.

Aveva un viso allo stesso tempo dolce e determinato, praticamente perfetto. Gli splendidi occhi azzurri viravano verso il verde acquamarina.

Dopo un istante di straniamento, ritornai in me e andai dritto al punto. «Microfoni? Signorina, si rende conto di quello che mi ha fatto fare e di quello che mi sta dicendo?»

«Lei non si ricorda di me, vero?»

«Certo che mi ricordo! Per causa sua, ho fatto la figura del-l’idiota stamattina con il giornalaio sotto casa».

«Non mi riferisco a stamattina».

La guardai interdetto.

«Non si ricorda dell’incidente di ieri? Del nostro appuntamento al garage del Parker’s, di quello che le ho detto?»

«Incidente? Appuntamento? Ma di che sta parlando?»

«E ovviamente non ricorda nulla dell’altro ieri, di quando ci siamo incontrati nel parco della Villa Floridiana, prima che lei ritornasse a casa».

«Senta, se questo è uno scherzo, è di cattivo gusto. Se sta cercando di spillarmi denaro, me lo dica chiaramente. Ogni altro motivo per me non conta. Sono un uomo sposato e adoro mia moglie e sebbene lei sia…».

«Giusto, parliamo di sua moglie», m’interruppe lei con molta calma.

«Che c’entra mia moglie?»

«Dottor Aragona, la donna che lei crede essere sua moglie è in realtà un’attrice».

«Ma per favore…».

«Mi faccia finire, abbiamo poco tempo, il suo socio si è già insospettito. Noi ci siamo già incontrati, dottor Aragona, e ogni volta le ho raccontato questa storia. Ma lei il giorno dopo dimentica ogni cosa e io devo ricominciare da capo. Tutto questo andrà avanti finché lei non troverà il modo d’interrompere questa sorta di stato ipnotico».

Rimasi a fissarla per qualche secondo. «Lei vorrebbe farmi credere che la mia memoria dura un giorno e poi si azzera? Come in un film? Cos’è, la versione napoletana di Matrix?»

«Esatto».

La cosa mi strappò una risatina e senza aggiungere altro feci per andarmene.

«Non vuole sentire il resto della storia?»

«La prego, mi restituisca i miei abiti e facciamola finita», le dissi con molta calma.

«Dottor Aragona, non sto scherzando. Lei non ricorda nulla di quello che le è successo ieri».

Sbuffai infastidito e tornai a sedere accanto a lei. «D’accordo, se vuole giocare, le concedo ancora qualche minuto. Allora, che cosa ho? Una malattia di cui non sono a conoscenza? Chi è lei? Come fa conoscermi?».

Un sorriso amaro comparve sul suo viso. «Incredibile, questa è la quinta volta che ci presentiamo. Mi chiamo Anna Nikitovna Glyz, sono russa. Parlo italiano perché ho studiato a Roma. La stessa cosa che sta succedendo a lei è successa anche a me, ecco

perché so tante cose».

«Che cosa sa, per esempio?»

«Il suo lavoro, il suo socio, la sua vita: è tutta una finzione. Probabilmente i suoi giorni sono tutti uguali perché così vogliono che sia».

«Un momento… Vogliono? Di chi sta parlando?»

«Non lo so ancora, ma quello che le sta succedendo non è dovuto a una malattia che le cancella la memoria a lungo termine. Lei è costantemente e quotidianamente drogato».

Rimasi a guardarla per un attimo ancora, poi mi appoggiai allo schienale e, scuotendo la testa, sorrisi di nuovo. «Lei ha davvero voglia di scherzare, ma devo ammettere che la sua fantasia è notevole».

«Dottor Aragona, la prego, mi ascolti. Questa sera, tornando a casa, noti l’atteggiamento di sua moglie. Cerchi di capire se mente, se c’è qualcosa d’insolito. E poi, a partire da stasera, cerchi di non bere o mangiare nulla a casa sua. La cosa insospettirà sua moglie, ovviamente, ma è l’unico modo per interrompere la somministrazione di droga, poiché non sappiamo dove la mettono. Dica che non si sente bene, che preferisce non mangiare. Insomma, lei deve smettere di prendere quella sostanza».

Mentre parlava, rimasi immobile a fissare l’altare maggiore, sforzandomi di ricomporre nella mia mente qualche eventuale anomalia notata quella mattina stessa nell’atteggiamento di mia moglie. Un gesto, una parola, uno sguardo fuori posto: niente, tutto mi sembrava ordinario. Mia moglie era stata semplicemente amorevole come sempre e gentile anche nel momento in cui…

Il filo dei miei pensieri si arrestò davanti a un’immagine apparentemente insignificante. Poi due parole affiorarono sulle mie labbra. «Le pillole…».

«Come, scusi?»

«Tutte le mattine prendo delle… pillole perché sto avendo qualche problema: faccio dei sogni molto vividi e…», mi voltai a guardarla, piuttosto sconvolto. «Io l’ho p-persino sognata stanotte… Anna».

«Non era un sogno, ma un ricordo, perché noi ci siamo già incontrati, come le dicevo».

Anna tirò fuori il cellulare e mi mostrò una fotografia che la ritraeva insieme a me. «Questa gliel’ho scattata due giorni fa, di nascosto».

Non riuscivo a credere ai miei occhi.

«La sua mente combatte contro la droga ogni notte, ma poi soccombe», proseguì Anna. «Al suo risveglio lei non ricorda più niente, se non quello che loro vogliono che lei ricordi».

«No, non è possibile. Àrtemis non mi farebbe mai una cosa del genere».

«Lei ancora non capisce, quella non è Àrtemis! Nel momento in cui il velo dovesse cadere dai suoi occhi, si prepari a una sorpresa, perché il vero volto di quella donna potrebbe essere persino sgradevole».

Mi grattai la fronte per un istante, indeciso, ma tornai a guardarla con disincanto. «No, mi dispiace, non ci credo. Non è possibile».

Anna sospirò. «D’accordo. Io ho fatto tutto il possibile. Non posso più aiutarla, ho corso troppi rischi ormai e d’altro canto lei non può essermi di alcun aiuto se non si risveglia. Deve credere in me e trovare la forza di opporsi a tutto questo. Ma deve iniziare questa sera stessa: mi ha detto che le pillole le assume al mattino, ma quelle servono a tenere sotto controllo la sua psiche durante le ore diurne. La droga le viene certamente somministrata anche di notte, o comunque prima di andare a letto, in modo da cancellare il ricordo di quello che ha fatto durante il giorno. Interrompa la catena e forse ci rivedremo. Ora ritorni a recuperare i suoi abiti dal bauletto del motorino e si rivesta. È meglio non farsi più vedere insieme. Buona fortuna».

Anna si alzò e fece per andarsene.

«Un momento, come faccio a ritrovarla se… Sì, insomma se mi dovessi risvegliare

«Se ciò accadesse, non deve preoccuparsi, riuscirà senz’altro a trovarmi. Il consiglio che le do è di mantenere il sangue freddo nel momento in cui la nebbia cadrà dai suoi occhi. Il mondo le sembrerà orribile, la sua vita profondamente diversa. Forse sarà doloroso, come quando si è in crisi di astinenza da una droga. Lei però continui a fingere finché non ci saremo incontrati di nuovo. Anche a casa, non faccia cose strane, cerchi di essere il più naturale possibile. Lei è costantemente spiato, la sua abitazione ha mille occhi. Mi raccomando, ne va della sua vita». Mi porse delle chiavi. «Indossi di nuovo i suoi abiti e lasci le chiavi sotto il sellino dello scooter».

Scossi la testa, incredulo. «Se quello che dice è vero, io dovrei dubitare di tutto a questo punto. Persino della mia identità».

Anna sorrise. «Questa è l’unica certezza su cui può fare affidamento. Lei è Lorenzo Aragona», aggiunse prima di andarsene.

Uscito dalla chiesa, mi guardai intorno con circospezione e, forse suggestionato da tutta quella storia, mi parve che più di una persona seguisse i miei movimenti. Finsi di non farci caso, raggiunsi il motorino e indossai di nuovo i miei vestiti, quindi ritornai all’Églantine in preda a dubbi atroci. La storia di Anna aveva dell’incredibile e dentro di me non facevo che ripetermi che sarebbe stato meglio dimenticare tutto e continuare a condurre la mia vita tranquilla.

Avrei tanto voluto farlo, ma ho sempre avuto un certo talento per ficcarmi nei guai. Così decisi che quel giorno avrei almeno iniziato a fare attenzione a qualche particolare a cui magari non avevo mai dato troppo peso. Potevo cominciare da Bruno.

Lo trovai ancora seduto alla scrivania. Quando mi vide entrare, interruppe quello che stava facendo e mi fissò per alcuni istanti, prima di chiedere: «Ma dove sei stato?»

«Sono andato a prendere un caffè, non hai visto il gesto che ti ho fatto prima di uscire?»

«Un caffè piuttosto lungo! Sei stato fuori quasi tre quarti d’ora. E poi abbiamo una fantastica macchinetta del caffè proprio qui».

«Ma che fai, mi controlli?»

«Chi, io? Ma figurati. È solo che fa freddo e…».

«Avevo bisogno di una boccata d’aria. Parliamo d’altro piuttosto. Ci sono stati clienti?».

Bruno parve stupito, come se non si aspettasse una domanda inerente al lavoro. Una cosa alquanto curiosa. «Oh, sì, ha… ha chiamato De Paolis, è interessato all’orologio del XVIII secolo che hai preso di recente a Vienna».

Non me ne ricordavo per niente, ma sparai un nome a caso. «Ah, il Breguet di Maria Antonietta?»

«Esatto».

«Ottimo e quando viene a discutere i dettagli della vendita?»

«Forse domani».

«Ah, capisco».

Alle 13 andai a mangiare con Àrtemis alla mia trattoria preferita. Ci andavamo spesso a pranzo, anche se era distante dai nostri luoghi di lavoro. Ma io adoravo quel posto, così Arti mi accontentava accompagnandomi quando poteva.

Lungo il tragitto, tuttavia, non riuscii a smettere di pensare alla conversazione appena avuta con Bruno. La mia provocazione quasi inconsapevole aveva avuto un successo insperato e la mia preoccupazione era terribilmente cresciuta. Bruno era un eccellente antiquario, assai preparato, avrebbe almeno dovuto sorridere alla mia battuta sapendo che al mondo esistono solo due modelli di Breguet Marie-Antoinette, l’originale del XIX secolo e una copia fedelissima, realizzata nel 2005. Due orologi preziosissimi, mai stati in vendita, ma solo esposti in musei. Nessun antiquario, a meno che non l’abbia rubato per rivenderlo sul mercato nero, potrebbe mai possedere un Breguet Marie-Antoinette. Sarebbe come avere la Maja Vestida di Goya esposta nella vetrina del proprio negozio. E questo poteva significare solo una cosa, solo un’unica agghiacciante cosa: Bruno non era Bruno, o se era lui stava recitando una parte. Ma perché?

«Dottor Aragona, oggi abbiamo pasta e fagioli, zuppa di ceci e ragù di carne?», disse Teresa che gestiva l’osteria insieme con i genitori.

«Per me zuppa di ceci», disse Àrtemis.

Io esitai un istante, indeciso se mangiare o meno. A quel punto mi sembrava che tutto congiurasse per tenere la mia mente annebbiata, incluso quello che mangiavo al ristorante. Rimasi a guardare Teresa. La sua faccia era simpatica e sorridente come al solito. Cercai di capire se quello che guardavo era il suo vero volto o qualcosa di deformato dalla droga. Ma come avrei potuto di stinguere la realtà dall’immaginazione?

«Mah, forse non prendo niente, Teresa», risposi senza pensarci.

«Come scusi?», domandò lei sgranando gli occhi.

La guardai stupito e poi feci un sorriso. «Non ho molta fame, è grave?».

Teresa scosse la testa poco convinta e, prima di andare verso la cucina, lanciò una rapida occhiata ad Àrtemis.

«No, no, dottore, va bene».

Arti mi fissava con un’espressione che era un misto d’incredulità e disappunto. «Non dovresti saltare il pranzo, non fa bene alla salute».

Ricambiai il suo sguardo mantenendo un’espressione seria. «Ho un po’ di nausea, ma è tutto a posto».

Arti non ribatté e cambiò discorso. «Tutto bene giù al negozio?»

«Sì, certo, tutto bene», risposi senza pensarci troppo, poi aggiunsi: «Bruno ha quasi venduto il Breguet Marie Antoinette».

«Ah, dovresti proprio ringraziarlo. È così preciso e ordinato, non come te che lasci miliardi di oggetti sulla tua scrivania per anni».

«Già, dovrò mettere a posto prima o poi».

Mentre Àrtemis mangiava, di tanto in tanto la scrutavo senza che lei mi vedesse. La sua risposta era stata anche più stupefacente di quella di Bruno: dopo aver visitato una mostra in cui i due Breguet erano esposti, era stata proprio lei a regalarmi il catalogo. Àrtemis doveva sapere anche meglio di Bruno di cosa stessi parlando. Ma non me la sentivo di arrivare alla medesima, inquietante, conclusione. Non ancora.

Tornai al lavoro e per il resto del pomeriggio rimasi attonito a fissare lo schermo del computer o a gironzolare tra i mobili esposti. Bruno, intento a fare i suoi conti, sembrava non interessarsi a me, anche se un paio di volte colsi di sfuggita il suo sguardo teso mentre seguiva i miei movimenti. Per due volte uscì senza dire nulla, ritornando dopo circa un quarto d’ora ogni volta. C’era decisamente qualcosa di anomalo, ma io cercai di comportarmi fino alla fine di quella giornata nel modo più normale possibile.

Verso le 19 lasciai l’Églantine e mi avviai verso casa. Le strade, le persone, persino i semafori ai quali mi capitava di fermarmi mi sembrava che fossero lì per me, per farmi seguire un percorso prestabilito. Era chiaro che si trattava di una suggestione, le cose erano al loro posto, come sempre.

A casa trovai mia moglie intenta a preparare la cena. «Ciao tesoro, sono a casa».

«Ciao!», rispose lei dalla cucina mentre io mi liberavo del cappotto all’ingresso.

Le parole di Anna mi risuonavano nelle orecchie come un’angosciosa filastrocca dell’orrore. Non volevo assolutamente credere a quello che mi aveva detto, ma non facevo che pensarci in continuazione.

Entrai in cucina e cercai di essere il più naturale possibile. Baciai Àrtemis, mostrando un volto sofferente.

«Che cosa hai? Sembra che tu non stia bene», mi chiese stupita.

Annuii. «Già, ancora non mi sono ripreso dall’ora di pranzo, ho la pancia ancora scombussolata. Vedo che stai preparando i bifteki… Peccato».

«Perché peccato?»

«Perché non credo di riuscire a mangiarli».

Arti sgranò gli occhi. «Ma come? Li adori».

«Sì, sì, ma proprio non mi sento bene. Anzi, scusami un istante ma ho la nausea».

Senza aggiungere altro andai in bagno. Mi guardai allo specchio, studiando il mio viso, i capelli arruffati, la barba. Respirai profondamente, quindi feci una cosa disgustosa: infilai un dito in gola e mi provocai alcuni conati di vomito. Dovevo avere un aspetto provato per mettere in atto il mio piano. Mi limitai a sputare un po’ di saliva, ma quando mi guardai di nuovo allo specchio, sembravo abbastanza sottosopra.

Non tornai in cucina, ma mi sistemai in salotto davanti al camino con una coperta addosso e un’aria sofferente, aspettando che Àrtemis venisse a cercarmi.

«Ah, sei qui», disse infatti dopo pochi minuti, entrando nella stanza. «Non ti trovavo. Allora? Come va?»

«Non so, ho vomitato, mi sento uno straccio. Forse è influenza, ecco perché neanche a pranzo avevo fame».

«Capisco, allora non vuoi proprio niente?», domandò lei accarezzandomi una guancia e guardandomi con quei suoi occhi da gatta.

«Magari fra un po’, se mi sento meglio. Scusami, vorrei tanto le tue polpette, le adoro…».

Arti si alzò e mi parve leggermente contrariata. «D’accordo, come vuoi. Io vado a mangiare allora. Tu mettiti pure a letto».

«Ma no, vengo a farti compagnia».

«No, no, se stai male vai pure a letto, non preoccuparti». E ritornò in cucina.

Quell’atteggiamento brusco riaccese i miei sospetti, ma decisi di fare come diceva lei. Mi alzai e mi diressi verso la stanza da letto. Passando davanti allo studio, mi cadde lo sguardo su uno scatolone piazzato al centro del tappeto.

«Arti, che cos’è questa scatola?», gridai per farmi sentire.

«Dai un’occhiata se te la senti, è roba vecchia, magari non ti serve più», rispose lei sempre a voce alta.

Scavai in quelle cianfrusaglie, vecchi orologi, portachiavi e altri oggetti di nessun valore che avevo accumulato fin dall’adolescenza. Ma lì dentro c’era anche qualcosa di cui non mi sarei mai disfatto: i miei giocattoli.

Soldatini futuristici, robot transformer, mattoncini Lego, tutti carissimi ricordi. Arti sapeva quanto ci tenessi. In mezzo a tutti quei vecchi giocattoli, ne ritrovai anche uno al quale ero particolarmente legato da piccolo, un pupazzetto di Spider-Man con gli arti calamitati. Nel prenderlo in mano, una luce improvvisa mi abbagliò la vista, una luce che scomparve un attimo dopo per lasciare il posto a una serie confusa d’immagini. Vidi volti a me sconosciuti emergere come da una nebbia, figure in abiti di foggia antica o in divise militari dell’ultima guerra. Uno di questi personaggi avanzò, uscendo dalla folla. Al contrario degli altri, il suo volto mi sembrava familiare. Sollevando una mano mi mostrò una chiave. Al posto della dentellatura, però, aveva uno strano simbolo. Una ruota raggiata, simile al segno usato in alchimia per identificare il sale comune.

Un secondo dopo, la visione era svanita, lasciandomi smarrito al centro della stanza, lo sguardo ancora sul pupazzetto.

Continuando a guardare il piccolo omino di plastica, ero giunto quasi inconsapevolmente nella stanza da letto.

Mi spogliai e, tenendo stretto il pupazzetto come un bambino, m’infilai sotto le coperte. Rimasi per qualche istante seduto nel letto guardandomi intorno, senza avere idea di quali potessero essere le mie prossime mosse.

La mia stanza da letto era sempre la stessa: i mobili art nouveau, l’armadio Gaillard, il mio scrittoio Bugatti, i rarissimi poster di Privat-Livemont, ogni cosa era al suo posto. Non poteva essere tutto frutto di allucinazioni.

Mentre mi sforzavo, insieme con Spider-Man, di venire a capo di quel pasticcio che era la mia mente, sentii dei passi nel corridoio. Nascosi il pupazzetto sotto le coperte e attesi. Àrtemis entrò nella stanza con una tazza in mano. «Allora, hai dato un’occhiata alla scatola?»

«Oh sì, ma guarderò meglio domani, ora non ne ho troppa voglia, scusami».

«Nessun problema. Ecco, ti ho preparato una tisana per lo stomaco. È un portento, vedrai che ti aiuterà».

«Ah grazie», dissi avvertendo un brivido lungo la schiena. Mia moglie stava cercando di farmi bere qualcosa, dopo che avevo rifiutato di mangiare. Sempre seguendo la suggestione, avevo deciso che non avrei mangiato o bevuto nulla. Non potevo rifiutare ancora però, altrimenti si sarebbe insospettita troppo, così presi tempo. «Mettila qui sul comodino, la berrò fra un attimo».

Arti fece come le dissi, anche se sembrava poco convinta. «Ti senti meglio comunque?»

«Sì, ma ho ancora nausea, ecco perché voglio aspettare a berla».

Lei mi guardò per un istante in un modo strano, come se volesse capire se stessi mentendo. «Ok, prendila però, ti aiuterà anche per la nausea. Io sono nello studio, ti raggiungo fra poco».

«Fai con comodo».

Appena se ne fu andata gettai uno sguardo alla tazza come se fosse un oggetto alieno. Avevo pensato immediatamente di buttare via il contenuto, ma qualcosa mi trattenne. Mi ritornarono alla mente le parole di Anna.

“La sua abitazione ha mille occhi”.

Possibile che ci fossero davvero telecamere nel mio appartamento? Che ogni mio movimento o parola fossero spiati?

Ormai ero in preda a quei pensieri ossessivi e non riuscivo a liberarmene. Mi dissi che se fosse stato tutto uno scherzo non sarebbe successo niente, al massimo Arti avrebbe considerato il mio atteggiamento solo un po’ più bizzarro del solito. Tutto qui. Ma se invece Anna aveva ragione? A quel punto – e la sola idea mi provocò una discreta tachicardia – avrei dovuto ricomporre i pezzi della mia vita e soprattutto rispondere alla domanda che stavo cercando ancora di non pormi: dove era Àrtemis, la vera Àrtemis?

Mi guardai intorno con circospezione, per capire dove potessero essere nascoste eventuali telecamere, poi presi la tazza, l’accostai alle labbra e feci finta di berne un sorso. La tisana non era eccessivamente calda. Allora spensi tutte le luci e misi in atto il mio stupido piano.

Quando Àrtemis venne finalmente a letto, trovò la tazza vuota. Andò in bagno, ritornò, indossò il suo pigiamone e s’infilò sotto le coperte. Io le davo le spalle ed ero rannicchiato su me stesso in posizione fetale, così lei mi accarezzò solo leggermente la testa e si voltò dall’altro lato.

Dopo circa un paio d’ore, durante le quali ero rimasto immobile, facendo solo finta di dormire, il mal di stomaco che avevo simulato era diventato reale. Spasmi a tratti violenti e sudore freddo mi assalirono; le orecchie iniziarono a fischiare e a tratti potevo udire delle pulsazioni, come se il cuore fosse balzato via dalla sua sede naturale e si fosse sistemato nel cervello. Fitte lancinanti, come lunghi spilli, mi attraversavano la testa. Ero senza difese. Non potevo invocare aiuto giacché l’unica persona che avrebbe potuto soccorrermi, era probabilmente la causa di quella che aveva tutta l’aria di essere una crisi di astinenza. Non potevo neanche alzarmi per cercare sollievo: se quella donna, quella che fino a poche ore prima avevo creduto fosse la mia adorata moglie, era lì per controllarmi, si sarebbe immediatamente insospettita. Dovevo resistere.

Aprii gli occhi e ancora una volta, nella penombra, vidi la mia stanza da letto così come la conoscevo. Tutte le cose erano al loro posto, ma adesso, nella debole luce proveniente dall’esterno, potevo vedere figure danzare come fuochi fatui, allucinazioni della mia mente che stava combattendo contro la droga, di certo contenuta anche nella tisana che però, molto lentamente, mi ero rovesciato addosso, cercando di non bagnare le lenzuola ma solo il mio pigiama.

Le figure continuavano a danzare nella stanza. A poco a poco emersero chiaramente dei ricordi, memorie di un passato recente. Ricordai allora di aver davvero visto Anna prima di quel giorno; ricordai di averla incontrata nel parco della Villa Floridiana, come mi aveva detto anche lei; ricordai una grossa macchina nera, ma non riuscii a mettere a fuoco il luogo dove l’avevo vista, né perché. Riaffiorarono anche altri momenti insignificanti della mia vita recente: il dolce risveglio al mattino, le premure di mia moglie, l’ordine e la precisione di Bruno, il dottor Ciliento che acquistava la console Riesener…

“Un momento”, mi sforzai di pensare con lucidità, “Bruno oggi ha detto che il dottor Ciliento ha staccato il primo assegno per l’acquisto della consolle Riesener. Ma la stessa cosa è successa ieri”.

Con grande sforzo, cercai di ritornare indietro ad almeno due o tre settimane prima, ma mi trovai davanti a un vuoto. Il ricordo più prossimo che riuscivo a recuperare risaliva addirittura al-l’estate trascorsa in Grecia con Àrtemis.

“Ma come è possibile? Se siamo davvero nel periodo natalizio, questo vuol dire che la mia mente ha un buco di almeno tre mesi!”.

Avevo trascorso tre ore nella stessa posizione, rannicchiato su me stesso, sperando che il mio pigiama si asciugasse. Ero sconvolto: le rivelazioni di Anna si stavano dimostrando fondate. Le forze stavano per abbandonarmi e il sonno per avere la meglio su di me.

Mi chiedevo cosa avrei fatto l’indomani mattina e come fosse possibile essere finito in quella situazione. Ma la domanda più martellante era sempre la stessa: chi era la donna accanto a me?

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