CAPITOLO XIII

Dell’esperienza

[B] Non c’è desiderio più naturale del desiderio di conoscenza.1 Noi saggiamo tutti i mezzi per poterci arrivare. Quando la ragione ci fa difetto, ci serviamo dell’esperienza,

[C]Per varios usus artem experientia fecit:

Exemplo monstrante viam,I 2

[B] che è un mezzo più debole e meno degno. Ma la verità è cosa tanto grande che non dobbiamo disdegnare alcun aiuto per raggiungerla. La ragione ha tante forme che non sappiamo a quale appigliarci. L’esperienza non ne ha meno. La conseguenza che vogliamo trarre dalla rassomiglianza degli avvenimenti è mal sicura, poiché sono sempre dissomiglianti. In quest’immagine delle cose non c’è alcuna qualità così universale come la diversità e la varietà. E i Greci e i Latini e noi, come più evidente esempio di similitudine, ci serviamo di quello delle uova. Tuttavia c’è stato qualcuno, e in particolare uno a Delfi,3 che riconosceva dei segni di differenza fra le uova, tanto che non ne prendeva mai uno per l’altro. [C] Ed essendovi parecchie galline, sapeva giudicare di quale era l’uovo. [B] La dissimilitudine s’introduce da sola nelle nostre opere: nessuna arte può arrivare alla similitudine. Né Perrozet4 né altri può levigare e ripulire il rovescio delle sue carte tanto accuratamente che qualche giocatore non le distingua al solo vederle scorrere nelle mani di un altro. La rassomiglianza non rende tanto uguale quanto la differenza rende diverso. [C] La natura si è obbligata a non far due cose che non fossero dissomiglianti.

[B] Pertanto non mi piace l’opinione di quello5 che pensava di frenare con la moltitudine delle leggi l’autorità dei giudici, contando loro i bocconi: non si accorgeva che c’è tanta libertà e ampiezza nell’interpretazione delle leggi quanta nella loro forma. E quelli che pensano di ridurre e far cessare le nostre discussioni richiamandoci alla precisa parola della Bibbia vogliono scherzare. Poiché il nostro spirito non trova un campo meno spazioso quando verifica il sentimento altrui di quando esprime il proprio. E come se ci fosse meno animosità e asprezza nel glossare che nell’inventare. Vediamo quanto s’ingannasse. Infatti abbiamo in Francia più leggi di tutto il resto del mondo insieme, e più di quante ne occorrerebbero per governare tutti i mondi di Epicuro, [C] ut olim flagitiis, sic nunc legibus laboramus;I 6 [B] e tuttavia abbiamo lasciato tanto da opinare e decidere ai giudici, che non ci fu mai libertà tanto potente e tanto sfrenata. Che cosa hanno guadagnato i nostri legislatori a trascegliere centomila specie e fatti particolari e applicarvi centomila leggi? Questo numero non ha alcuna proporzione con l’infinita diversità delle azioni umane. La moltiplicazione delle nostre invenzioni non raggiungerà mai la variazione degli esempi. Aggiungetevene cento volte tanti: non accadrà tuttavia che fra gli avvenimenti futuri se ne trovi qualcuno che in tutto questo gran numero di migliaia di avvenimenti scelti e registrati, ne incontri un altro al quale si possa unire e appaiare così esattamente che non vi resti qualche circostanza e diversità che richieda una diversa considerazione di giudizio. C’è poco rapporto fra le nostre azioni, che sono in perpetuo mutamento, e le leggi fisse e immobili. Le più desiderabili sono le più rare, le più semplici e generali. E credo inoltre che sarebbe meglio non averne affatto che averle in tal numero come le abbiamo noi. Quelle che dà la natura sono sempre più felici di quelle che ci diamo noi. A riprova la descrizione dell’età dell’oro dei poeti, e la condizione in cui vediamo vivere i popoli che non ne hanno altre. Eccone alcuni che per soli giudici si servono nelle loro cause del primo viandante che viaggia attraverso le loro montagne. E questi altri eleggono, il giorno del mercato, qualcuno di loro che decida sul momento tutti i loro processi. Che pericolo ci sarebbe se i più saggi sbrigassero così i nostri, secondo le circostanze e a occhio, senza esser legati a esempi precedenti e senza crearne per l’avvenire? A ogni piede la sua scarpa. Il re Ferdinando,7 mandando colonie nelle Indie, provvide saggiamente a che non vi si conducessero dei baccellieri in giurisprudenza: temendo che i processi pullulassero in quel nuovo mondo, essendo questa, per sua natura, una scienza generatrice di contese e divisioni. Ritenendo, con Platone,8 che giureconsulti e medici siano una cattiva provvigione per un paese.

Come avviene che il nostro comune linguaggio, così comodo per ogni altro uso, diventa oscuro e inintelligibile nei contratti e nei testamenti? E che colui che si esprime tanto chiaramente, qualsiasi cosa dica e scriva, non trova in questo caso alcun modo di spiegarsi che non cada in dubbio e in contraddizione? Se non è perché i maestri di quest’arte, applicandosi con particolare attenzione a scegliere parole solenni e a formulare clausole ricercate, hanno tanto pesato ogni sillaba, spulciato con tanta precisione ogni specie di correlazione, che eccoli invischiati e impastoiati nell’infinità delle figure, e in così minute distinzioni che non possono più rientrare in alcuna regola e prescrizione né in alcun concetto comprensibile. [C] Confusum est quidquid usque in pulverem sectum est.I 9 [B] Chi ha visto dei fanciulli mentre cercano di ridurre a un certo volume una massa di argento vivo? Più lo premono e lo impastano, e si studiano di costringerlo a modo loro, più irritano la libertà di quel generoso metallo. Esso sfugge alla loro destrezza e va sminuzzandosi e sparpagliandosi al di là di ogni previsione. È lo stesso. Poiché, suddividendo quelle sottigliezze, si insegna agli uomini ad accrescere i dubbi. Ci si mette sulla strada di estendere e diversificare le difficoltà. Le si allungano, le si disperdono. Seminando le questioni e ritagliandole, si fa fruttificare e proliferare il mondo in incertezza e in vertenze: [C] come la terra si rende tanto più fertile quanto più è sbriciolata e profondamente rimossa. Difficultatem facit doctrina.II 10 [B] Dubitavamo su Ulpiano,11 ridubitiamo ancora su Bartolo e Baldo.12 Bisognava cancellare la traccia di quell’innumerevole diversità di opinioni: non ornarsene e intontirne la posterità. Non so che dirne. Ma si prova per esperienza che tante interpretazioni dissolvono la verità e la distruggono. Aristotele ha scritto per essere compreso: se non ci è riuscito, uno meno abile e un terzo ci riuscirà ancor meno di colui che tratta un’idea sua propria. Noi spianiamo la materia e la dilatiamo stemperandola. Di un argomento ne facciamo mille. E ricadiamo, moltiplicando e suddividendo, nell’infinità degli atomi di Epicuro. Mai due uomini giudicarono ugualmente una stessa cosa, ed è impossibile vedere due opinioni esattamente simili. Non solo in uomini diversi, ma nello stesso uomo in diversi momenti. Generalmente trovo di che dubitare in ciò che il commento non si è degnato di toccare. Inciampo più facilmente su un terreno piatto: come certi cavalli che conosco, che incappano più spesso su una strada uniforme.

Chi non direbbe che le glosse aumentano i dubbi e l’ignoranza, poiché non si trova alcun libro, sia umano sia divino, del quale il mondo si occupi, la cui interpretazione faccia esaurire la difficoltà? Il centesimo commento lo rinvia al successivo, più spinoso e più scabroso di quanto lo avesse trovato il primo. Quando mai si è convenuto fra noi: «Questo libro ne ha a sufficienza, non c’è ormai più nulla da dire»? Questo si vede meglio nella procedura. Si dà autorità di legge a infiniti dottori, infinite sentenze, e ad altrettante interpretazioni. Tuttavia, troviamo forse una fine al bisogno d’interpretare? Si vede forse qualche progresso e avanzamento verso la tranquillità? Ci occorrono forse meno avvocati e giudici di quando questa massa di diritto era ancora nella sua prima infanzia? Al contrario, oscuriamo e seppelliamo la comprensione. Non la scopriamo più se non attraverso tanti serrami e barriere. Gli uomini disconoscono la malattia naturale del loro spirito. Questo non fa che frugare e indagare e va senza posa girando, architettando, e impastoiandosi nella sua bisogna, come i bachi da seta, e vi si soffoca. Mus in pice.I 13 Crede di scorgere, da lontano, non so quale parvenza di chiarezza e verità immaginaria; ma mentre vi corre, tante difficoltà gli attraversano la strada, tanti impedimenti e nuove ricerche, che lo smarriscono e lo stordiscono. Non diversamente da quanto accadde ai cani di Esopo: i quali, scoprendo una certa parvenza di carogna galleggiare in mare e non potendo avvicinarla, presero a bere quell’acqua per prosciugare il passaggio, e rimasero soffocati.14 [C] Al che fa riscontro quello che Cratete diceva degli scritti di Eraclito, che avevano bisogno di un lettore buon nuotatore, affinché la profondità e il peso della sua dottrina non lo inghiottisse e soffocasse.15 [B] Non è altro che debolezza personale quella che ci fa accontentare di ciò che altri o noi stessi abbiamo trovato in questa caccia alla conoscenza. Uno più sottile non se ne accontenterà. C’è sempre posto per uno che venga dopo, e anche per noi stessi, e strade per altrove. Non c’è fine alle nostre ricerche: il nostro fine è nell’altro mondo. [C] È segno di ristrettezza di mente quando questa si accontenta, o di stanchezza. Nessun intelletto generoso si ferma in se stesso: aspira sempre ad altro e va al di là delle proprie forze. Ha slanci che oltrepassano le sue possibilità. Se non avanza e non si affretta e non indietreggia e non si urta, è vivo soltanto a metà. [B] Le sue indagini sono senza limite e senza forma. Il suo alimento è stupore, caccia, ambiguità. Cosa che Apollo dichiarava a sufficienza, parlandoci sempre in un modo ambiguo, oscuro e obliquo.16 Non appagandoci, ma dandoci da fare e tenendoci occupati. È un movimento irregolare, continuo, senza modello e senza scopo. Le sue idee si eccitano, si succedono e si producono l’una dall’altra:

Ainsi voit l’on en un ruisseau coulant,

Sans fin une eau, après l’autre roulant:

Et tout de rang, d’un éternel conduit,

L’une suit l’autre, et l’une l’autre fuit,

Par cette-ci celle-là est poussée,

Et cette-ci par l’autre est devancée:

Toujours l’eau va dans l’eau, et toujours est-ce

Même ruisseau, et toujours eau diverse.I 17

C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose. E più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda. [C] Tutto formicola di commenti, di autori c’è grande penuria. La principale e più illustre scienza dei nostri tempi, non è forse saper comprendere i sapienti? Non è questo il fine comune e ultimo di tutti gli studi? Le nostre opinioni s’innestano le une sulle altre. La prima serve di fusto alla seconda, la seconda alla terza. Saliamo così di gradino in gradino. E da ciò accade che chi è salito più in alto ha spesso più onore che merito. Poiché non è salito che di una spanna sulle spalle del penultimo. [B] Quanto spesso, e forse scioccamente, ho lasciato che il mio libro si dilungasse a parlare di sé! [C] Scioccamente: non foss’altro che per questa ragione, che mi dovevo ricordare di quello che dico degli altri che fanno lo stesso: che quelle occhiate così frequenti alla loro opera testimoniano che il loro cuore freme d’amore per essa. E quelle stesse angherie sprezzanti con cui la offendono non sono che moine e affettazioni di benevolenza materna, secondo Aristotele,18 per il quale l’apprezzarsi e il disprezzarsi nascono spesso da uno stesso atteggiamento di arroganza. Di fatto la mia giustificazione, che devo avere in questo più libertà degli altri, in quanto precisamente scrivo di me e dei miei scritti come delle mie altre azioni, e che il mio tema si rovescia in se stesso, non so se ognuno l’accetterà. [B] Ho visto in Germania19 che Lutero ha lasciato altrettante divisioni e dispute sull’incertezza delle sue opinioni, e più, di quante ne abbia sollevato sulle Sante Scritture. La nostra contesa è verbale. Io domando che cosa sia natura, voluttà, cerchio e sostituzione.20 La questione è di parole, e si soddisfa allo stesso modo. Una pietra è un corpo. Ma chi insistesse: «E che cosa è corpo?» «Sostanza». «E che cosa sostanza?», e così via, finirebbe per ridurre il difendente alla fine del suo calepino. Si cambia una parola con un’altra parola, e spesso più sconosciuta. So meglio che cos’è uomo di quanto sappia che cosa sia animale, o mortale, o ragionevole. Per rispondere a un dubbio, me ne offrono tre: è la testa dell’Idra. Socrate chiedeva a Memnone che cosa fosse la virtù: «C’è» disse Memnone «virtù d’uomo e di donna, di magistrato e di privato, di fanciullo e di vecchio». «Andiamo bene!» esclamò Socrate «eravamo in cerca di una virtù, eccone uno sciame».21 Esponiamo una questione, ce ne ridanno un alveare. Come nessun fatto e nessuna forma assomiglia del tutto a un’altra, così nessuna differisce del tutto dall’altra. [C] Ingegnosa mescolanza di natura. Se le nostre facce non fossero simili, non si potrebbe distinguere l’uomo dalla bestia; se non fossero dissimili, non si potrebbe distinguere l’uomo dall’uomo. [B] Tutte le cose si corrispondono per qualche similitudine. Ogni esempio zoppica. E la correlazione che si trae dall’esperienza è sempre difettosa e imperfetta. Si collegano tuttavia i paragoni per qualche punto comune. Così le leggi servono, e così si adattano a ciascuno dei nostri affari, per qualche interpretazione contorta, forzata e obliqua.

Poiché le leggi etiche, che riguardano il dovere particolare di ognuno in sé, sono così difficili da stabilire, come vediamo che sono, non c’è da meravigliarsi se quelle che governano tanti particolari lo sono di più. Considerate la forma di questa giustizia che ci regge. È una vera testimonianza dell’umana debolezza, tante contraddizioni ed errori ci sono. Il favore e il rigore che troviamo nella giustizia, e ce ne troviamo tanto che non so se vi si trovi altrettanto spesso il giusto mezzo fra i due, sono parti malate e membra difformi del corpo stesso e dell’essenza della giustizia. Alcuni contadini sono venuti poco fa ad avvertirmi precipitosamente che hanno lasciato or ora, in una foresta che mi appartiene, un uomo ferito da cento colpi, che respira ancora, e che ha chiesto loro dell’acqua per pietà e aiuto per sollevarlo. Dicono che non hanno osato avvicinarlo e se ne sono scappati via, per paura che gli uomini della giustizia li cogliessero sul posto; e che come si fa con coloro che sono trovati vicino a un uomo ucciso, dovessero render conto di quell’incidente a loro completa rovina: non avendo né capacità né denaro per difendere la loro innocenza. Che cosa avrei dovuto dir loro? È certo che questo dovere di umanità li avrebbe messi in difficoltà. Quanti innocenti abbiamo scoperto che sono stati puniti, dico quelli senza colpa dei giudici; e quanti ce ne sono stati che non abbiamo scoperto? Questo è accaduto ai miei tempi: certuni sono condannati a morte per un omicidio; la sentenza, se non pronunciata,22 è per lo meno conclusa e stabilita. A questo punto i giudici sono avvertiti dai magistrati di una corte subalterna vicina che essi detengono alcuni prigionieri i quali confessano esplicitamente quell’omicidio, e portano su tutto questo fatto una luce indubitabile. Si delibera se per questo si debba interrompere e differire l’esecuzione della sentenza stabilita contro i primi. Si considera la novità dell’esempio e la sua importanza per sospendere i giudizi; che la condanna è stata emessa, i giudici non hanno possibilità di ripensamento. Insomma quei poveri diavoli sono sacrificati alle formule della giustizia. Filippo, o qualche altro, ovviò a un inconveniente simile in questo modo. Aveva condannato a grosse multe un uomo invece di un altro, con giudizio definitivo. Scoprendosi la verità qualche tempo dopo, si trovò che aveva giudicato ingiustamente. Da una parte c’era la ragione della causa, dall’altra la ragione delle formule giuridiche. Egli soddisfece in certo modo ad ambedue, lasciando la sentenza qual era e riparando di tasca sua il danno del condannato.23 Ma si trovava di fronte a un fatto riparabile; i miei furono impiccati irreparabilmente. [C] Quante condanne ho visto più criminali del crimine!

[B] Tutto questo mi fa ricordare quelle antiche opinioni:24 che è giocoforza far torto al dettaglio se si vuol far giustizia all’ingrosso, e fare ingiustizia nelle piccole cose se si vuol riuscire a far giustizia nelle grandi. Che la giustizia umana è foggiata sul modello della medicina, secondo la quale tutto ciò che è utile è anche giusto e onesto. E quello che sostengono gli stoici,25 che la stessa natura procede contro giustizia, nella maggior parte delle sue opere. [C] E quello che sostengono i cirenaici, che non c’è nulla che sia giusto in sé, che gli usi e le leggi formano la giustizia. E i teodoriani,26 che trovano giusto per il saggio il furto, il sacrilegio, ogni sorta di lussuria, se egli riconosce che gli sia di profitto. [B] Non c’è rimedio. Sono a questo punto, come Alcibiade:27 non mi presenterò mai, se potrò, a un uomo che decida della mia testa, in una situazione in cui il mio onore e la mia vita dipendano dall’abilità e dallo scrupolo del mio procuratore più che dalla mia innocenza. Mi arrischierei ad affrontare una giustizia che mi riconoscesse il ben fatto come il mal fatto, dalla quale avessi tanto da sperare quanto da temere. Il proscioglimento non è moneta sufficiente per un uomo che fa meglio che non mancare. La nostra giustizia ci presenta solo una delle sue mani, e per di più la sinistra. Chiunque ne esce con svantaggio. [C] In Cina, regno del quale l’organizzazione e le arti, senza rapporto e conoscenza delle nostre, superano in eccellenza i nostri esempi sotto diversi aspetti, e la cui storia m’insegna quanto il mondo sia più ampio e vario di quel che e gli antichi e noi possiamo concepire, gli ufficiali incaricati dal principe di ispezionare la condizione delle sue province, come puniscono quelli che commettono concussione nella loro carica, così compensano con pura liberalità quelli che vi si sono condotti bene, oltre la media e oltre le esigenze del loro dovere. Ci si presenta loro non solo per giustificarsi, ma per guadagnarci: non semplicemente per essere puniti, ma anche per essere gratificati.28 [B] Nessun giudice, grazie a Dio, mi ha ancora parlato in veste di giudice, per qualsiasi causa, o mia o di terzi, o penale o civile. Nessuna prigione mi ha accolto, nemmeno per passeggiarvi. L’immaginazione me ne rende la vista spiacevole, anche dall’esterno. Sono così assetato di libertà che se mi fosse proibito l’accesso in qualche angolo delle Indie, vivrei in certo modo meno a mio agio. E finché troverò una terra o un cielo libero altrove, non marcirò in un luogo dove mi debba nascondere. Mio Dio, come mi sarebbe dura da sopportare la condizione in cui vedo tante persone, inchiodate a un cantuccio di questo regno, private del diritto di entrare nelle città principali e nelle corti, e dell’uso delle pubbliche strade, perché sono andati contro alle nostre leggi! Se quelle a cui sono soggetto mi minacciassero soltanto con la punta del dito, andrei immediatamente a trovarne altre, dovunque fosse. Tutta la mia piccola prudenza, in queste guerre civili in mezzo alle quali ci troviamo, s’industria a far sì che esse non m’impediscano la libertà di andare e venire.

Ora, le leggi mantengono il loro credito non perché sono giuste, ma perché sono leggi. È il fondamento misterioso della loro autorità. Non ne hanno altri. [C] E torna loro a vantaggio. Sono fatte spesso da gente sciocca. Più spesso da persone che, per odio dell’eguaglianza, mancano di equità. Ma sempre da uomini: autori vani e incerti. Non c’è nulla così gravemente e largamente né così frequentemente fallace come le leggi. [B] Chiunque obbedisca loro perché sono giuste, non obbedisce loro giustamente come deve. Le nostre francesi favoriscono in certo modo, per la loro irregolarità e difformità, il disordine e la corruzione che si vede nella loro applicazione ed esecuzione. La prescrizione è così confusa e incostante che giustifica in qualche modo e la disobbedienza e il vizio d’interpretazione, di amministrazione e di osservanza.

Quale che sia dunque il frutto che possiamo trarre dall’esperienza, difficilmente servirà molto alla nostra educazione quella che deriviamo dagli esempi stranieri, se ricaviamo così scarso profitto da quella che abbiamo di noi stessi: che ci è più familiare, e certo sufficiente a istruirci in ciò che ci abbisogna.

Io studio me stesso più di ogni altro soggetto. È la mia metafisica, è la mia fisica.

Qua Deus hanc mundi temperet arte domum,

Qua venit exoriens, qua deficit, unde coactis

Cornibus in plenum menstrua luna redit,

Unde salo superant venti, quid flamine captet

Eurus, et in nubes unde perennis aqua:

[C]Sit ventura dies mundi quæ subruat arces:29

[B]Quærite quos agitat mundi labor.I 30

[C] In questa universalità di condizioni, mi lascio ignorantemente e negligentemente governare dalla legge generale del mondo. La conoscerò abbastanza quando la proverò. Che io la conosca non potrebbe farle cambiare strada. Non muterà per me. È follia sperarlo. E più grande follia affannarcisi, poiché essa è necessariamente uguale, pubblica e comune. La bontà e la capacità del governatore deve liberarci completamente della cura del suo governo. Le indagini e meditazioni filosofiche non servono che di alimento alla nostra curiosità. I filosofi, con gran ragione, ci rimandano alle regole della natura, ma esse non sanno che farsene d’una così sublime conoscenza: quelli le falsificano e ci presentano il suo viso dipinto a colori troppo accesi e troppo sofisticato, dal che nascono tanti diversi ritratti di un soggetto così uniforme. Come essa ci ha fornito di piedi per camminare, così ci ha fornito di saggezza per guidarci nella vita: saggezza non tanto ingegnosa, vigorosa e pomposa come quella di loro invenzione, ma in confronto facile e salutare, e che fa assai bene ciò che l’altra dice, in chi ha la fortuna di sapersi condurre spontaneamente e moderatamente: cioè naturalmente. Affidarsi il più semplicemente possibile alla natura, è affidarcisi il più saggiamente. Oh quale capezzale dolce e molle, e sano, è l’ignoranza e l’indifferenza, per riposare una testa ben fatta!

[B] Preferirei capirmi bene in me stesso che in Cicerone. Dall’esperienza che ho di me, trovo abbastanza di che farmi saggio, se fossi buono scolaro. Chi richiama alla memoria l’eccesso della sua collera passata, e fino a che punto quella febbre lo trasportò, vede la bruttezza di questa passione meglio che in Aristotele, e ne concepisce un odio più giusto. Chi si ricorda dei mali nei quali è incorso, di quelli che l’hanno minacciato, delle lievi occasioni che l’hanno fatto passare da uno stato a un altro, si prepara in tal modo alle vicissitudini future, e alla presa di coscienza della propria condizione. La vita di Cesare non è per noi di maggior esempio della nostra: sia di un imperatore, sia di un uomo del popolo, è sempre una vita soggetta a tutte le contingenze umane. Prestiamovi appena l’orecchio: ci diciamo tutto ciò di cui abbiamo principalmente bisogno. Chi si ricorda di essersi tante e tante volte ingannato nel suo proprio giudizio, non è forse uno sciocco se ormai non ne diffida? Quando mi trovo convinto della falsità d’una mia opinione dal ragionamento altrui, non mi rendo conto soltanto di ciò che quegli mi ha detto di nuovo, e di quell’ignoranza particolare (che sarebbe un misero acquisto), ma mi rendo conto in generale della mia debolezza e del tradimento della mia intelligenza: dal che traggo la correzione di tutto l’insieme. In tutti gli altri miei errori faccio lo stesso: e ricavo da questa regola una grande utilità per la vita. Non considero la specie e l’individuo come una pietra in cui abbia inciampato. Imparo a temere il mio modo di procedere ovunque, e mi studio di regolarlo. [C] Imparare che si è detta o fatta una sciocchezza, non è nulla. Bisogna imparare che si è nient’altro che uno sciocco, apprendimento ben più ampio e importante. [B] Le deficienze tanto frequenti della mia memoria, perfino quando si sente più sicura di sé, non sono state del tutto inutili: ormai essa ha un bel giurarmi e assicurarmi, non me ne curo. La prima opposizione che si fa alla sua testimonianza mi fa titubare. E non oserei fidarmi di lei per una cosa importante, né darne garanzia per i fatti altrui. E se non fosse che quello che io faccio per mancanza di memoria, gli altri lo fanno ancora più spesso per mancanza di onestà, prenderei sempre, su una realtà di fatto, la verità dalla bocca di un altro piuttosto che dalla mia. Se ognuno osservasse da vicino gli effetti e le circostanze delle passioni che lo dominano, come ho fatto io per quella sotto il cui dominio ero caduto, le vedrebbe sopraggiungere, e rallenterebbe un po’ il loro impeto e la loro corsa. Esse non ci saltano sempre addosso d’un balzo. Ci sono degli avvertimenti e dei gradi,

Fluctus uti primo cœpit cum albescere ponto,

Paulatim sese tollit mare, et altius undas

Erigit, inde imo consurgit ad æthera fundo.I 31

Il giudizio occupa in me una cattedra magistrale, o almeno vi si sforza diligentemente. Lascia che i miei sentimenti seguano la loro via, e l’odio e l’amicizia, perfino quella che porto a me stesso, senza esserne turbato e corrotto. Se non può conformare a sé le altre parti, per lo meno non si lascia deformare da loro. Fa il suo gioco a parte. L’ammonimento dato ad ognuno di conoscersi dev’essere di grande importanza, se quel dio di scienza e di luce32 lo fece porre sul frontone del suo tempio, come quello che riassumeva tutto ciò che aveva da consigliarci. [C] Platone dice anche33 che la saggezza non è altro che l’attuazione di questa norma, e in Senofonte Socrate lo esemplifica particolareggiatamente.34 [B] Le difficoltà e l’oscurità in ogni scienza sono percepite solo da quelli che vi hanno accesso. Infatti occorre anche un certo grado d’intelligenza per poter accertare che si ignora. E per sapere che se una porta ci è chiusa bisogna spingerla. [C] Di qui nasce questa sottigliezza platonica,35 che né quelli che sanno devono indagare, in quanto sanno, né quelli che non sanno, in quanto per indagare bisogna sapere che cosa s’indaga. [B] Così in questa di conoscere se stesso, il fatto che ognuno si vede così deciso e soddisfatto, che ognuno pensa di capirci abbastanza, significa che nessuno ci capisce nulla, come Socrate insegna a Eutidemo in Senofonte.36 Io che non faccio altra professione, vi trovo una profondità e varietà così infinita che il mio studio non ha altro frutto che farmi sentire quanto mi resta da imparare. Alla mia debolezza così spesso riconosciuta devo l’inclinazione che ho alla modestia, alla sottomissione alle credenze che mi sono prescritte, a una costante freddezza e moderazione di opinioni, e l’avversione a quell’arroganza importuna e litigiosa, che crede in se stessa e si fida di sé completamente: nemica mortale di disciplina e di verità. Ascoltateli dar precetti. Le prime sciocchezze che dicono, le esprimono nello stile in cui si stabiliscono le religioni e le leggi. [C] Nil hoc est turpius quam cognitioni et perceptioni assertionem approbationemque præcurrere.I 37 [B] Aristarco diceva che in antico si trovarono a stento sette savi al mondo, e che al tempo suo si trovavano a stento sette ignoranti.38 Non avremmo noi più ragione di lui, di dirlo al tempo nostro? L’affermare e l’ostinarsi sono segni evidenti di stoltezza. Costui avrà picchiato il naso in terra cento volte in un giorno: eccolo alzare la cresta, deciso e tutto d’un pezzo come prima; direste che gli è stata infusa di poi una qualche anima nuova e un certo vigore d’intelletto, e che gli succede come a quell’antico figlio della terra, che riprendeva nuova forza e si rinvigoriva per la sua caduta,

cui, cum tetigere parentem,

Iam defecta vigent renovato robore membra.II 39

Quel cocciuto irremissibile pensa forse di riprendere un nuovo ingegno perché riprende una nuova disputa? È per mia esperienza che accuso l’ignoranza umana. Che è, secondo me, il partito più sicuro della scuola del mondo. Quelli che non vogliono dedurla in se stessi da un esempio tanto vano come il mio o il loro, la riconoscano attraverso Socrate, [C] il maestro dei maestri. Di fatto il filosofo Antistene diceva ai suoi discepoli: «Andiamo, voi ed io, ad ascoltare Socrate, là io sarò discepolo con voi». E sostenendo questo dogma della setta stoica, che la virtù bastava a rendere una vita pienamente felice e senza bisogno di cosa alcuna, aggiungeva: «Se non della forza di Socrate».40

[B] Questa lunga attenzione che metto nell’osservarmi mi abitua a giudicare passabilmente anche gli altri. E ci sono poche cose di cui io parli in maniera più giusta e giustificabile. Mi accade spesso di vedere e distinguere le qualità dei miei amici più esattamente di quanto facciano loro stessi. Ne ho stupito qualcuno per la pertinenza della mia descrizione e l’ho reso conscio di se stesso. Essendomi abituato fin dall’adolescenza a guardare la mia vita riflessa in quella altrui, ho acquistato in questo un’indole osservatrice. E quando ci faccio attenzione, mi lascio sfuggire poche cose che vi siano utili: atteggiamenti, umori, discorsi. Osservo tutto: quello che devo evitare, quello che devo seguire. Così rivelo ai miei amici, dalle loro manifestazioni esteriori, le loro inclinazioni interiori. Non per sottoporre quell’infinita varietà di azioni, così diverse e slegate, a certi generi e capitoli, e distribuire distintamente le mie partizioni e divisioni in classi e categorie conosciute,

Sed neque quam multæ species, et nomina quæ sint,

Est numerus.I 41

[C] I dotti ripartiscono e notano le loro idee più specificamente, e nei particolari. Io, che vi vedo soltanto ciò che la pratica mi indica, senza regola, presento le mie in generale, e a tentoni. Come qui: [B] esprimo il mio parere per articoli slegati, come cosa che non si può dire tutta in una volta e in blocco. La correlazione e la conformità non si trovano in anime come le nostre, basse e comuni. La saggezza è un edificio solido e intero, in cui ogni parte occupa il proprio posto e porta il proprio segno. Sola sapientia in se tota conversa est.II 42 Lascio ai maestri dell’arte, e non so se ne vengano a capo in una cosa tanto confusa, spezzettata e fortuita, lo schierare sistematicamente quest’infinita varietà di volti, e il fissare la nostra incostanza e metterla in ordine. Non solo trovo difficile collegare le nostre azioni le une alle altre, ma ognuna in sé trovo difficile definirla propriamente per qualche qualità principale: tanto esse sono duplici, screziate e cangianti. [C] Ciò che viene notato come singolare nel re di Macedonia Perseo, che cioè il suo spirito, non legandosi ad alcuna condizione, andasse vagando per ogni genere di vita e mostrando costumi così volubili e vagabondi che né lui stesso né alcun altro sapeva quale uomo egli fosse,43 mi sembra adattarsi pressappoco a tutti. E soprattutto ho visto qualcun altro del suo rango44 al quale questa conclusione, credo, si applicherebbe più propriamente ancora. Nessuna posizione media, precipitandosi sempre dall’uno all’altro estremo per motivi imprevedibili; nessuna linea di condotta senza deviazioni e contraddizioni sorprendenti; nessuna facoltà semplice; sicché l’opinione più verosimile che si potrà formulare un giorno su di lui sarà che egli affettava e si studiava di farsi conoscere come essere inconoscibile.

[B] Occorrono orecchi molto robusti per sentirsi giudicare con franchezza. E poiché ce ne sono pochi che possano sopportarlo senza esserne feriti, quelli che si arrischiano a farlo nei nostri confronti ci danno una singolare prova d’amicizia. Di fatto è amare sanamente il decidersi a ferire e a offendere per giovare. Trovo difficile giudicare colui nel quale le cattive qualità superano le buone. [C] Platone prescrive tre qualità a chi vuole esaminare l’anima di un altro: scienza, benevolenza, ardire.45 [B] Talvolta mi si domandava di che cosa avrei pensato di essere capace, nel caso che a qualcuno fosse venuto in mente di servirsi di me quando avevo l’età adatta,

Dum melior vires sanguis dabat, æmula necdum

Temporibus geminis canebat sparsa senectus.I 46

«Di nulla», risposi. E mi giustifico volentieri di non saper fare cosa che mi renda schiavo degli altri. Ma l’avrei cantata chiara al mio padrone, e avrei sindacato i suoi costumi, se avesse voluto. Non in blocco, con lezioni scolastiche, che non so (e non vedo derivarne alcun vero emendamento in coloro che le sanno): ma osservandoli passo passo, ad ogni occasione, e giudicandoli a occhio, pezzo per pezzo, semplicemente e naturalmente; facendogli vedere quale egli sia nell’opinione comune, opponendomi ai suoi adulatori. Chiunque di noi sarebbe peggiore dei re, se fosse così continuamente corrotto, come essi sono, da quella canaglia di gente. E come potrebbe essere altrimenti, se Alessandro, quel grande re e grande filosofo, non poté difendersene? Avrei avuto abbastanza fedeltà di giudizio e libertà per questo. Sarebbe un incarico senza titolo, altrimenti perderebbe il suo effetto e la sua bellezza. Ed è un compito che non può appartenere a tutti indifferentemente. Di fatto, neppure la verità ha questo privilegio di essere praticata in ogni momento e in ogni maniera: il suo uso, per quanto nobile sia, ha le sue restrizioni e i suoi limiti. Accade spesso, per come va il mondo, che la si insinui nell’orecchio del principe non solo senza frutto, ma con danno, e anche ingiustamente. E non mi si darà ad intendere che un’ammonizione sacrosanta non possa esser fatta in modo viziato. E che l’interesse della sostanza non debba spesso cedere all’interesse della forma. Vorrei per questo mestiere un uomo contento della propria fortuna,

Quod sit esse velit, nihilque malit,I 47

e nato in mediocre fortuna. Poiché, da una parte, non avrebbe alcun timore di toccar nel vivo e in profondo il cuore del padrone, per non perdere in tal modo la possibilità di far carriera. E d’altra parte, essendo di condizione media, sarebbe più facilmente in contatto con ogni sorta di persone. [C] Lo vorrei per un uomo solo: poiché estendere il privilegio di questa libertà e intimità a molti genererebbe un’irriverenza nociva. Sì, e da costui esigerei soprattutto la fedeltà del silenzio. [B] Non c’è da prestar fede a un re che si vanti della propria fermezza nell’attendere l’incontro col nemico a vantaggio della propria gloria, quando poi, per il proprio profitto e miglioramento, non può tollerare la libertà delle parole d’un amico, che non hanno altro potere che di pungergli l’orecchio: poiché il resto del loro effetto è in mano sua. Ora, non c’è alcuna categoria di uomini che più di costoro abbia bisogno di avvertimenti sinceri e liberi. Essi conducono una vita pubblica, e devono rendersi graditi all’opinione di tanti spettatori che, poiché si è soliti tacer loro tutto ciò che li distoglie dalla loro mira, si trovano, senza accorgersene, fatti oggetto dell’odio e dell’avversione dei loro popoli: spesso per cose che avrebbero potuto evitare, senza alcun danno per il loro stesso piacere, se qualcuno li avesse avvisati e corretti a tempo. Generalmente i loro favoriti guardano a se stessi più che al signore. E rischiano grosso, in quanto in verità la maggior parte dei doveri della vera amicizia si trovano, nei confronti del sovrano, a una prova difficile e rischiosa. Sicché occorre non solo molto affetto e franchezza, ma anche molto coraggio.

Insomma, tutto questo cibreo che vado scarabocchiando qui non è che un registro dei saggi della mia vita: che è, per la salute interiore, abbastanza esemplare, a prenderne l’insegnamento alla rovescia. Ma quanto alla salute del corpo, nessuno può fornire esperienza più utile di me, che la presento pura, niente affatto corrotta e alterata dall’arte o dall’opinione. L’esperienza è proprio a casa sua nell’argomento della medicina, in cui la ragione le cede senz’altro il posto. Tiberio diceva che chiunque avesse vissuto vent’anni doveva rendersi conto delle cose che gli erano nocive o salutari, e sapersi regolare senza medicina.48 [C] E poteva averlo appreso da Socrate: il quale consigliando ai propri discepoli, con premura e come uno studio di somma importanza, lo studio della loro salute, aggiungeva che era difficile che un uomo intelligente, facendo attenzione ai suoi esercizi, a quello che beveva e che mangiava, non vedesse meglio di qualsiasi medico che cosa era per lui buono o cattivo.49 Tanto si è che la medicina dichiara [B] espressamente di aver sempre l’esperienza a riprova del proprio operare. Così Platone aveva ragione di dire che per essere un vero medico sarebbe necessario che colui che volesse diventarlo fosse passato per tutte le malattie che vuole guarire, e per tutti gli accidenti e le circostanze di cui deve giudicare.50 È giusto che prendano la sifilide se vogliono saperla curare. Io mi fiderei veramente di costui. In realtà gli altri ci guidano come colui che dipinge i mari, gli scogli e i porti sulla tavola, stando seduto, e facendovi andare su e giù il modello di una nave, in tutta sicurezza. Mettetelo alla prova dei fatti, non sa di dove cominciare. Fanno la descrizione dei nostri mali come fa un banditore di città che descrive un cavallo o un cane perduto: tale il pelo, tale l’altezza, tali le orecchie; ma se glielo mostrate, non lo riconosce. Per Dio, che la medicina mi porga un giorno qualche soccorso valido e sensibile, e si vedrà come griderò in buona fede,

Tandem efficaci do manus scientiæ.I 51

Le arti che promettono di mantenerci il corpo in salute, e l’anima in salute, ci promettono molto; ma altresì non ce ne sono altre che mantengano meno quello che promettono. Al tempo nostro, quelli che fanno professione di queste arti fra noi ne mostrano i risultati meno di chiunque altro. Si può dire di loro, al massimo, che vendono droghe medicinali; ma che siano medici, questo non si può dirlo.

Ho vissuto abbastanza per far conto della pratica che mi ha condotto tanto lontano. Per chi vorrà provarla, io ne ho fatto l’assaggio, come coppiere. Eccone alcuni articoli, come il ricordo me li fornirà. [C] Non ho alcuna abitudine che non sia andata variando secondo le circostanze, ma annoto quelle che so di aver praticato più spesso, che hanno avuto più potere su di me fino a questo momento.

[B] Il mio modo di vivere è uguale nella malattia come nella salute. Uso lo stesso letto, le stesse ore, gli stessi cibi, e le stesse bevande. Non ci aggiungo assolutamente nulla, salvo la moderazione del più e del meno, secondo la mia forza e il mio appetito. La mia salute, è mantenere senza disturbo il mio stato abituale. Vedo che la malattia me ne allontana da una parte; se do retta ai medici, me ne allontaneranno dall’altra: e per caso e per arte, eccomi fuori della mia strada. Non credo niente con maggior certezza di questo: che non potrò esser danneggiato dall’uso di cose alle quali sono abituato da tanto tempo. Spetta alla consuetudine dar forma alla nostra vita, come le piace: in questo può tutto. È il filtro di Circe, che muta la nostra natura come le pare. Quanti popoli, e a tre passi da noi, giudicano ridicola la paura dell’umidità della sera, che tanto evidentemente ci nuoce! E i nostri barcaioli e i nostri contadini se ne ridono. Farete ammalare un tedesco se lo coricate su un materasso,52 come un italiano sulla piuma e un francese senza cortine e senza fuoco. Lo stomaco di uno spagnolo non resiste al nostro modo di mangiare, né il nostro a bere alla svizzera. Un tedesco mi fece ridere, ad Augusta,53 criticando la scomodità dei nostri focolari con lo stesso argomento di cui noi ci serviamo di solito per biasimare le loro stufe. Poiché in verità quel calore che cova, e poi l’odore che fa, riscaldandosi, quella materia di cui sono fabbricate, stordisce la maggior parte di quelli che non ci sono abituati. Me no. Ma del resto, essendo quel calore uguale, costante e generale, senza luce, senza fumo, senza il vento che ci porta l’apertura dei nostri camini, può bene, per altro verso, reggere il confronto col nostro. Perché non imitiamo l’architettura romana? Si dice infatti che in antico si accendeva il fuoco nelle loro case solo all’esterno e sotto di esse: e di lì il calore si diffondeva in tutta l’abitazione per mezzo di condotti praticati nello spessore del muro, che andavano a circondare i locali che dovevano esserne riscaldati. Cosa che ho visto chiaramente descritta, non so dove, in Seneca.54 Costui,55 sentendomi lodare le comodità e le bellezze della sua città, che certo lo merita, cominciò a compiangermi perché dovevo andarmene. E fra i primi inconvenienti che mi citò fu la pesantezza di testa che mi avrebbero causato altrove i caminetti. Aveva sentito fare questa lagnanza da qualcuno, e ce l’attribuiva, non potendo, per l’abitudine, notarlo a casa sua. Ogni calore che viene dal fuoco m’indebolisce e mi appesantisce. Eppure Eveno diceva che il miglior condimento della vita era il fuoco.56 Scelgo piuttosto qualsiasi altro modo di sfuggire al freddo. A noi i fondi di botte non piacciono affatto; in Portogallo quell’aroma è considerato una delizia ed è la bevanda dei principi. Insomma, ogni popolo ha parecchie abitudini e usanze che sono non solo sconosciute, ma ripugnanti e strane per un altro popolo.

Come la metteremo con questa gente che accoglie solo testimonianze stampate, che non presta fede agli uomini se non sono in forma di libro, né alla verità se non ha l’età adatta? [C] Noi diamo dignità alle nostre sciocchezze quando le diamo alle stampe. [B] Per loro ha un peso ben diverso dire: «L’ho letto» piuttosto che: «L’ho sentito dire». Ma io, che non diffido della bocca più che della mano degli uomini, e che so che si scrive con così poco discernimento come si parla, e che stimo questo secolo quanto un altro passato, cito tanto volentieri un mio amico quanto Aulo Gellio e Macrobio; e quello che ho visto quanto quello che essi hanno scritto. [C] E come sostengono57 che la virtù non è più grande se è più duratura, così penso riguardo alla verità che non sia più saggia se è più vecchia. [B] Dico spesso che è pura stoltezza quella che ci fa correr dietro agli esempi estranei e scolastici. La loro fecondità è la stessa, ora come al tempo di Omero e di Platone. Ma non è forse perché cerchiamo più l’onore della citazione che la verità del ragionamento? Come se fosse meglio ricevere le nostre bozze di stampa dalla bottega di Vascosan o di Plantin58 piuttosto che da quelle che si vedono nel nostro villaggio. Oppure, certo, perché non abbiamo l’ingegno di esaminare e far valere quello che accade sotto i nostri occhi, e di giudicarlo con tanto acume da portarlo ad esempio. In realtà, se diciamo che ci manca l’autorità per dar fede alla nostra testimonianza, parliamo a sproposito. In quanto, a parer mio, dalle cose più ordinarie e più comuni e conosciute, se sapessimo vederle nella loro vera luce, si possono dedurre i più grandi prodigi di natura e gli esempi più mirabili, specialmente per quanto riguarda le azioni umane. Ora, per il mio discorso, tralasciando gli esempi che so dai libri [C] e quello che dice Aristotele di Androne Argivo, che attraversava senza bere le aride sabbie della Libia:59 [B] un gentiluomo che ha ricoperto degnamente parecchie cariche diceva in mia presenza che era andato da Madrid a Lisbona in piena estate senza bere. Egli gode di ottima salute per la sua età, e non ha nulla di straordinario nel suo tenore di vita, se non questo: di stare due o tre mesi, magari un anno, a quanto mi ha detto, senza bere. Sente la sete, ma la lascia passare, e ritiene che sia un desiderio che si calma facilmente da solo; e beve più per capriccio che per bisogno o per piacere. Ecco l’esempio d’un altro. Or non è molto trovai uno dei più dotti uomini di Francia, fra quelli di non mediocre condizione, mentre stava studiando in un angolo d’una sala che era stato recinto per lui con un paravento; e intorno a lui un baccano sfrenato dei suoi servi. Mi disse, e Seneca dice quasi lo stesso di sé,60 che traeva profitto da quel fracasso. Come se, colpito da quel rumore, egli si riconducesse e si rinchiudesse di più in se stesso per meditare, e quella tempesta di voci respingesse i suoi pensieri nell’intimo. Quando era studente a Padova, ebbe per tanto tempo il suo studio esposto al frastuono delle carrozze e del tumulto della piazza, che si abituò non solo a non far caso, ma a trar profitto dal rumore, a vantaggio dei suoi studi. [C] Socrate rispondeva ad Alcibiade, che si meravigliava di come potesse sopportare la continua rottura di timpani da parte di sua moglie: «Come quelli che sono abituati al rumore continuo delle ruote per attinger acqua».61 [B] Io sono proprio all’opposto: ho lo spirito docile e facile a prender l’aire; quando si concentra in se stesso il minimo ronzio di mosca lo ammazza. [C] Seneca, avendo in gioventù caldamente aderito all’esempio di Sestio, di non mangiar cosa che fosse morta, ne fece a meno per un anno con piacere, come dice.62 E smise solo per non esser sospettato di prender questa norma da alcune nuove religioni che la diffondevano. Prese al tempo stesso dai precetti di Attalo di non coricarsi più su materassi che affondano, e continuò ad usare fino alla vecchiaia quelli che non cedono al peso del corpo. Quello che l’uso del tempo suo gli fa considerare austerità, il nostro ce lo fa considerare mollezza. [B] Guardate la differenza fra il modo di vivere dei miei uomini di fatica e il mio: gli Sciti e gli Indiani non sono più lontani di loro dal mio rigore e dal mio tenore di vita. So di aver tolto dall’accattonaggio, per prenderli al mio servizio, dei ragazzi che poco dopo hanno lasciato me, e la mia cucina e la loro livrea, solo per tornare alla loro vita di prima. E ne trovai poi uno che raccoglieva lumache in mezzo ai rifiuti per il suo pranzo, e né con preghiere né con minacce riuscii a distoglierlo dal gusto e dalla dolcezza che trovava nell’indigenza. I pezzenti hanno le loro magnificenze e le loro voluttà, come i ricchi; e, si dice, le loro dignità e gerarchie politiche. Sono effetti dell’abitudine. Essa ci può avvezzare non solo alla forma che le piace (pertanto, dicono i saggi,63 dobbiamo fissarci sulla migliore, che essa ci renderà immediatamente più facile), ma anche al cambiamento e alla variazione. Che è il più nobile e il più utile dei suoi insegnamenti. La migliore delle mie tendenze naturali è di essere duttile e poco ostinato. Ho inclinazioni più personali e consuete e più piacevoli di altre. Ma con pochissimo sforzo me ne allontano e mi conformo facilmente al modo contrario. Un giovane deve turbare le proprie abitudini per risvegliare il proprio vigore, impedirgli di ammuffire e d’impoltronire. E non c’è tenore di vita tanto stolto e fiacco quanto quello che si conduce per precetto e disciplina.

Ad primum lapidem vectari cum placet, hora

Sumitur ex libro; si prurit frictus ocelli

Angulus, inspecta genesi collyria quærit.I 64

Spesso si lascerà andare perfino agli eccessi, se mi dà retta. Altrimenti il minimo stravizio lo rovina. Si rende fastidioso e sgradevole in compagnia. La qualità più contraria a un galantuomo è la schifiltosità e la schiavitù a una certa regola particolare. Ed è particolare se non è pieghevole e malleabile. È vergogna trascurare di fare per impotenza, o non osare, ciò che si vede fare ai propri compagni. Gente simile se ne stia a casa sua. È indecoroso in ogni caso. Ma è turpe e insopportabile in un uomo di guerra che, come diceva Filopemene, deve abituarsi a ogni diversità e ineguaglianza di vita.65

Sebbene io sia stato educato per quanto era possibile alla libertà e all’indifferenza, accade tuttavia che per noncuranza, essendomi fissato, nell’invecchiare, piuttosto su certe forme (la mia età è oltre i limiti dell’educazione e non deve ormai badare ad altro che a conservarsi), l’abitudine ha già così ben impresso in me, senza ch’io me ne accorga, il suo carattere in certe cose, che chiamo eccesso l’allontanarmene. E non posso, senza forzarmi, né dormire durante il giorno, né far spuntini fra i pasti, né far colazione, né andare a dormire senza un grande intervallo, per esempio di tre ore buone, dopo la cena, né far figli se non prima di dormire, né farli in piedi, né sopportare di restar sudato, né bere acqua pura o vino puro, né rimanere a capo scoperto per molto tempo, né farmi tagliare i capelli dopo pranzo. E mi sarebbe così difficile fare a meno dei guanti come della camicia, e di lavarmi all’alzarmi da tavola e dal letto, e di baldacchino e di cortine al mio letto, come di cose indispensabili. Pranzerei senza tovaglia; ma alla tedesca, senza tovagliolo bianco, con gran disagio. Li sporco più di quanto facciano e loro e gli Italiani; e mi aiuto poco con cucchiaio e forchetta.66 Rimpiango che non si sia seguito un uso che ho visto adottare sull’esempio dei re: che ci si cambi il tovagliolo, come il piatto, secondo le portate. Sappiamo di Mario, quel rude soldato, che invecchiando diventò schifiltoso nel bere, e non si serviva che di una coppa sua personale.67 [C] Anch’io mi lascio andare a preferire una certa forma di bicchieri, e non bevo volentieri in un bicchiere qualunque, non più che servito da una mano qualunque. Il metallo non mi piace a paragone d’un materiale chiaro e trasparente. Anche i miei occhi vogliono assaggiarne, secondo la loro capacità. [B] Devo parecchie di tali debolezze all’abitudine. D’altra parte, la natura mi ha anche dato le sue: come di non sopportare più due pasti completi in un giorno senza sovraccaricarmi lo stomaco; né l’astinenza assoluta da uno dei pasti senza riempirmi di ventosità, aver la bocca secca, fermarmi l’appetito; sentir disturbo dallo stare a lungo esposto all’umidità della notte. Infatti da qualche anno, nelle fatiche della guerra, quando passo la notte intera all’aperto come accade spesso, dopo cinque o sei ore lo stomaco comincia a turbarmisi, con un violento mal di testa, e non arrivo al mattino senza vomitare. Quando gli altri vanno a far colazione, io me ne vado a dormire; e dopo, arzillo come prima. Avevo sempre saputo che l’umidità si diffondeva solo al cader della notte; ma frequentando familiarmente e a lungo, in questi ultimi anni, un signore convinto di questa credenza, che l’umidità è più pungente e pericolosa al calar del sole, un’ora o due prima del tramonto, ed egli la evita accuratamente e non si cura di quella della notte, ha rischiato di comunicarmi non tanto quello che pensa quanto quello che sente. Che dire del fatto che il dubbio stesso e la ricerca colpiscono la nostra immaginazione e ci fanno cambiare? Quelli che cedono tutt’a un tratto a queste inclinazioni attirano su di sé una completa rovina. E compiango parecchi gentiluomini che, per la stoltezza dei loro medici, si sono messi in clausura del tutto giovani e sani. Sarebbe ancor meglio sopportare un raffreddore piuttosto che perder per sempre, per dissuetudine, la pratica della vita comune, in un esercizio di così grande utilità.68 [C] Scienza molesta, che ci vieta le ore più dolci del giorno. [B] Estendiamo il nostro possesso fino all’estremo limite. Il più delle volte ci si avvezza ostinandosi, e si corregge la propria natura, come fece Cesare con l’epilessia, a forza di non curarla e di resistervi.69 Dobbiamo affidarci alle regole migliori, ma non asservirci ad esse: se non a quelle, se ce n’è qualcuna, alle quali sia vantaggioso rendersi soggetti e schiavi.

Re e filosofi cacano, e le dame pure. Le vite pubbliche sono tenute alle formalità; la mia, oscura e privata, gode di ogni dispensa naturale: soldato e guascone sono inoltre qualità un po’ inclini alla licenza. Per cui dirò così di questo atto: che è necessario rinviarlo a certe ore stabilite e notturne, e forzarvisi e assoggettarvisi con l’abitudine, come ho fatto io. Ma non assoggettarsi, come ho fatto invecchiando, alla cura di una comodità particolare di luogo e di sedile per questo servizio, e renderlo fastidioso per lunghezza e schifiltà. Tuttavia, nei più sudici servizi, non è in certo modo scusabile ricercare più cura e più pulizia? [C] Natura homo mundum et elegans animal est.I 70 Di tutti gli atti naturali, è quello che più malvolentieri tollero che mi venga interrotto. [B] Ho visto molti soldati disturbati dall’irregolarità del loro ventre. Il mio ed io non manchiamo mai al nostro appuntamento, che è al saltar dal letto, se qualche grave occupazione o malattia non ci turba.

Dunque io non so, come dicevo, in che modo i malati possano proteggersi meglio se non attenendosi tranquillamente al tenore di vita in cui sono stati educati e allevati. Il cambiamento, qualunque sia, stordisce e nuoce. Andate a far credere che le castagne facciano male a un perigordino o a un lucchese, e il latte e il formaggio alla gente di montagna. Si va a prescriver loro una forma di vita non solo nuova, ma opposta. Cambiamento che un sano non potrebbe sopportare. Ordinate dell’acqua a un bretone di settant’anni, rinchiudete in una stufa un uomo di mare, proibite di camminare a un lacchè basco: li privano di movimento, e infine d’aria e di luce.

An vivere tanti est?71

Cogimur a suetis animum suspendere rebus,

Atque, ut vivamus, vivere desinimus.72

Hos superesse rear, quibus et spirabilis aer

Et lux qua regimur redditur ipsa gravis?II 73

Se non fanno altro bene, fanno almeno questo, che preparano per tempo i pazienti alla morte, scalzando a poco a poco e sottraendo loro l’uso della vita. Da sano e da malato, mi sono lasciato andare volentieri agli appetiti che mi stimolavano. Do grande autorità ai miei desideri e propensioni. Non mi piace guarire il male col male. Detesto i rimedi che infastidiscono più della malattia. Essere soggetto alla colica, e soggetto ad astenermi dal piacere di mangiare ostriche, sono due mali per uno. Il male ci punge da un lato, la prescrizione dall’altro. Poiché si corre il rischio di sbagliarsi, arrischiamoci piuttosto a seguire il piacere. La gente fa il contrario, e pensa che nulla sia utile se non è penoso. La facilità le è sospetta. Il mio appetito in parecchie cose si è abbastanza felicemente adattato da solo e regolato secondo la salute del mio stomaco. L’agro e il piccante delle salse mi furono graditi quando ero giovane: poiché in seguito il mio stomaco ne soffriva, il gusto l’ha seguito immediatamente. [C] Il vino nuoce ai malati: è la prima cosa di cui la mia bocca si disgusta, e d’un disgusto invincibile. [B] Qualsiasi cosa io prenda controvoglia mi nuoce, e nulla mi nuoce se lo faccio con voglia e slancio. Non ho mai risentito danno da un atto che mi fosse stato molto piacevole. Eppure ho fatto cedere al mio piacere, assai largamente, ogni prescrizione medica. E da giovane,

Quem circumcursans huc atque huc sæpe Cupido

Fulgebat, crocina splendidus in tunica,I 74

mi sono lasciato andare tanto licenziosamente e sconsideratamente di altri al desiderio che mi possedeva,

Et militavi non sine gloria,II 75

tuttavia più per continuità e per durata che per impeto,

Sex me vix memini sustinuisse vices.III 76

C’è amarezza, certo, e stupore nel confessare a che giovane età io caddi per la prima volta in suo potere. Fu proprio una caduta, poiché fu molto tempo prima dell’età del discernimento e della conoscenza. Non mi ricordo di me a tanta distanza. E il mio caso può fare il paio con quello di Quartilla,77 che non aveva ricordo della sua verginità:

Inde tragus celeresque pili, mirandaque matri

Barba meæ.IV 78

I medici di solito piegano con vantaggio le loro regole alla violenza delle acute voglie che vengono ai malati. Questo gran desiderio non si può immaginare tanto strano e vizioso che la natura non vi si adatti. E poi, l’essenziale non è accontentare la fantasia? A mio parere, questa parte è più importante di tutto, per lo meno più di ogni altra. I mali più gravi e frequenti sono quelli che ci procura la nostra fantasia. Questo detto spagnolo mi piace da parecchi punti di vista: Defiéndame Dios de mí.I 79 Rimpiango, quando sono malato, di non aver qualche desiderio che mi dia il piacere di soddisfarlo: a stento la medicina me ne distoglierebbe. Altrettanto faccio da sano. Non vedo nulla di meglio che sperare e volere. È una cosa pietosa essere infiacchito e indebolito perfino nel desiderio. L’arte della medicina non è così assoluta che noi siamo senza autorità, qualsiasi cosa facciamo: essa cambia secondo i climi e secondo le lune, secondo Farnel80 e secondo l’Escale.81 Se il vostro medico ritiene che non sia bene che dormiate, che facciate uso di vino o di un certo cibo, non datevene pensiero: ve ne troverò un altro che non sarà del suo parere. La diversità degli argomenti e delle opinioni mediche abbraccia ogni sorta di forme. Vidi un disgraziato malato crepare e venir meno dalla sete per guarire; ed esser preso in giro poi da un altro medico che condannava quel consiglio come nocivo: non aveva impiegato bene i suoi sforzi? È morto recentemente del mal della pietra un uomo di questa professione, che aveva osservato un’astinenza assoluta per combattere il suo male. I suoi colleghi dicono che, al contrario, quel digiuno lo aveva disseccato e gli aveva cotto la renella nei reni. Mi sono accorto che nelle ferite e nelle malattie il parlare mi eccita e mi nuoce più di uno stravizio. La voce mi costa e mi affatica, poiché l’ho forte e robusta. Tanto che, quando mi è capitato d’intrattener l’orecchio dei potenti per affari d’importanza, li ho spesso messi nella necessità di farmi moderare la voce. Questo racconto merita che faccia una digressione. Qualcuno,82 in una certa scuola greca, parlava forte, come me. Il maestro di cerimonie gli fece dire che parlasse più piano: «Che mi faccia sapere» rispose quello «in che tono vuole che parli». L’altro gli replicò che regolasse il suo tono sulle orecchie di colui al quale parlava. Era ben detto, purché s’intenda: «Parlate secondo quello che dovete dire al vostro ascoltatore». Poiché se vuol dire: «Vi basti che vi senta», o: «Regolatevi su di lui», non trovo che fosse giusto. Il tono e l’andamento della voce esprime in qualche modo e manifesta il mio pensiero: sta a me regolarlo per rappresentarmi. C’è una voce per istruire, una voce per adulare, o per rimproverare. Voglio che la mia voce non solo arrivi a lui, ma, se è il caso, lo colpisca e lo trafigga. Quando maltratto il mio lacchè con tono aspro e pungente, sarebbe bella che venisse a dirmi: «Padrone, parlate più piano, vi sento benissimo»! [C] Est quædam vox ad auditum accommodata, non magnitudine, sed proprietate.I 83 [B] La parola è per metà di colui che parla, per metà di colui che l’ascolta. Questi deve prepararsi a riceverla secondo l’intonazione che essa prende. Così fra coloro che giocano a palla, quello che sta sulla difesa si sposta e si prepara secondo che vede muovere quello che gli lancia il colpo, e secondo la direzione del colpo.

L’esperienza mi ha insegnato anche questo, che ci danneggiamo con l’impazienza. I mali hanno la loro vita e i loro limiti, [C] le loro malattie e la loro salute. La costituzione delle malattie è formata sul modello della costituzione degli animali. Esse hanno il loro destino e i loro giorni limitati fin dalla nascita. Chi tenta di abbreviarle imperiosamente con la forza, ostacolando il loro corso, le allunga e le moltiplica, e le irrita invece di calmarle. Io sono del parere di Crantore, che non bisogna opporsi ai mali ostinatamente e inconsideratamente, né soccomber loro per debolezza: ma che bisogna ceder loro naturalmente, secondo la loro condizione e la nostra.84 [B] Si deve lasciare il passo alle malattie; e trovo che si fermano meno da me, che le lascio fare; e mi sono liberato di alcune che si ritengono più ostinate e tenaci, perché sono venute meno da sole, senz’aiuto e senz’arte, e contro le regole. Lasciamo fare un po’ alla natura: essa capisce i suoi affari meglio di noi. «Ma un tale ne morì!» Così farete voi, se non di questo male, di un altro. E quanti non hanno finito per morirne, pur avendo tre medici fra i coglioni? L’esempio è uno specchio vago, universale e buono per tutti i versi. Se è una medicina piacevole, accettatela: è sempre un bene per il momento. [C] Non mi soffermo né sul nome né sul colore, se è deliziosa e appetitosa. Il piacere è fra le parti principali dell’effetto. [B] Ho lasciato invecchiare e morire in me, di morte naturale, raffreddori, reumatismi di gotta, sciolte, palpitazioni di cuore, emicranie e altri accidenti, che mi sono andati via quando mi ero mezzo abituato a portarmeli dietro. Li scongiuriamo meglio con la cortesia che con la spavalderia. Bisogna sopportare tranquillamente le leggi della nostra condizione. Noi siamo fatti per invecchiare, per indebolirci, per essere malati, a dispetto di qualsiasi medicina. È la prima lezione che i Messicani danno ai loro figli quando, al momento in cui escono dal ventre delle madri, li salutano così: «Bambino, sei venuto al mondo per sopportare: sopporta, soffri, e taci». È ingiusto dolersi che sia accaduto a qualcuno quello che può accadere a ciascuno. [C] Indignare, si quid in te inique proprie constitutum est.I 85 [B] Pensate a un vecchio, che chiede a Dio di conservargli una salute integra e vigorosa, cioè di ridargli la giovinezza,

Stulte, quid hæc frustra votis puerilibus optas?II 86

Non è follia? La sua condizione non lo permette. [C] La gotta, la renella, l’imbarazzo di stomaco sono sintomi dei lunghi anni, come dei lunghi viaggi il calore, le piogge e i venti. Platone non crede che Esculapio si sia affannato a provvedere con precetti per prolungare la vita in un corpo rovinato e debole, inutile al suo paese, inutile alla sua professione e a generare figli sani e robusti; e non trova questa preoccupazione conveniente alla giustizia e alla saggezza divina, che deve indirizzare tutte le cose a un fine utile.87 [B] Brav’uomo, è andata: non è possibile raddrizzarvi; al massimo vi si impiastrerà e vi si puntellerà un po’, [C] e si allungherà di qualche ora la vostra miserabile condizione,

[B]Non secus instantem cupiens fulcire ruinam,

Diversis contra nititur obicibus,

Donec certa dies, omni compage soluta,

Ipsum cum rebus subruat auxilium.III 88

Bisogna imparare a sopportare quello che non si può evitare. La nostra vita è composta, come l’armonia del mondo di cose contrarie, egualmente di toni diversi, dolci e aspri, acuti e bassi, molli e gravi. Il musicista che amasse solo i primi, che cosa vorrebbe dire? Bisogna che sappia servirsene nel complesso e mescolarli. E così noi, i beni e i mali, che sono consustanziali alla nostra vita. Il nostro essere non può sussistere senza questa mescolanza. E una parte non vi è meno necessaria dell’altra. Tentar di opporsi alla necessità naturale è ripetere la follia di Ctesifonte,89 che si metteva a lottare a calci con la sua mula.

Io consulto poco i medici sulle alterazioni che sento. Poiché questa gente si dà delle arie quando vi tiene in sua mercé. Vi rintronano le orecchie con i loro pronostici. E trovandomi una volta indebolito dal male, mi hanno bistrattato con i loro dogmi e la loro grinta professorale, minacciandomi ora di grandi dolori, ora di morte vicina. Non ne ero abbattuto né smosso dalla mia posizione, ma ne ero urtato e oppresso: se il mio giudizio non ne è stato cambiato né turbato, per lo meno ne era infastidito. È sempre un’agitazione e una lotta. Ora, io tratto la mia immaginazione più dolcemente che posso. E la libererei, se potessi, da ogni pena e contrarietà. Bisogna soccorrerla, e lusingarla, e imbrogliarla, se si può. Il mio spirito è adatto a questo scopo. Non gli mancano argomenti plausibili in ogni caso. Se sapesse persuadere come sa predicare, mi darebbe un grande aiuto.

Ne volete un esempio? Dice che è per il mio bene che ho la renella. Che i vascelli della mia età devono naturalmente sopportare qualche ombrinale. È tempo che comincino ad allentarsi e a cedere: è una necessità comune, e si sarebbe forse fatto per me un nuovo miracolo? Pago così il tributo dovuto alla vecchiaia, e non potrei cavarmela con meno. Che la compagnia deve consolarmi, poiché mi è capitato l’inconveniente più comune agli uomini del mio tempo. Ne vedo dovunque afflitti dallo stesso tipo di male, e questa comunanza mi fa onore, poiché è un male che coglie più volentieri i grandi: la sua essenza ha nobiltà e dignità. Che fra gli uomini che ne sono colpiti, ce ne sono pochi che se la cavino a miglior mercato. E infatti questo costa loro l’incomodo d’un regime fastidioso e la noia di dover prendere quotidianamente dei farmachi, mentre io sono obbligato unicamente alla mia buona sorte. Poiché alcune comuni tisane di eringium e di erniaria, che ho mandato giù due o tre volte per far piacere alle dame che, più gentilmente di quanto sia pungente il mio male, me ne offrivano la metà della loro, mi sono sembrate tanto facili a prendere quanto inutili come effetto. Devono pagare mille voti a Esculapio e altrettanti scudi al loro medico per l’escrezione di sabbia facile e abbondante che io ho spesso per beneficio di natura. [C] Neppure la decenza del mio contegno abituale in compagnia ne è turbata, e trattengo la mia acqua per dieci ore e tanto a lungo quanto un altro. [B] La paura di questo male, dice, ti spaventava un tempo, quando ti era sconosciuto: le grida e la disperazione di quelli che l’acuiscono con la loro intolleranza te ne ispiravano l’orrore. È un male che ti colpisce le membra con le quali hai maggiormente peccato. Sei uomo di coscienza,

Quæ venit indigne pœna, dolenda venit.I 90

Considera questo castigo: è ben dolce in confronto ad altri, e d’una benevolenza paterna. Considera com’è tardivo: disturba ed occupa solo quella stagione della tua vita che, in ogni modo, è ormai perduta e sterile, dopo aver lasciato via libera alla licenza e ai piaceri della tua giovinezza: come per un patto. La paura e la compassione che la gente ha di questo male, ti serve come motivo di vanità: disposizione della quale, se ne hai liberato la tua mente e guarito il tuo discorrere, i tuoi amici riconoscono tuttavia ancora qualche segno nella tua indole. È piacevole sentir dire di sé: “Che gran forza! Che gran pazienza!” Ti si vede sudare per l’affanno, impallidire, arrossire, tremare, vomitare fino al sangue, soffrire contrazioni e convulsioni straordinarie, versare talvolta grosse lacrime dagli occhi, emettere orine dense, nere e spaventose, o averle fermate da qualche pietra ruvida e appuntita che ti punge e ti scortica crudelmente il collo della verga. E conversare tuttavia con i presenti in atteggiamento normale, scherzando di tanto in tanto con i tuoi, sostenendo la tua parte in un discorso impegnativo, giustificando a parole il tuo dolore e sminuendo la tua sofferenza. Ti ricordi di quegli uomini del passato, che ricercavano i mali con tanto desiderio per tenere in lena e in esercizio la loro virtù?91 Poni il caso che la natura ti porti e ti spinga a quella scuola gloriosa, nella quale non saresti mai entrato di tua volontà. Se mi dici che è un male pericoloso e mortale, quali altri non lo sono? Infatti è un inganno dei medici eccettuarne alcuni, che essi dicono che non portano direttamente alla morte. Che cosa importa, poiché ci portano per caso? e scivolano e deviano facilmente verso la strada che ci conduce ad essa. [C] Ma non muori perché sei malato, muori perché sei vivo. La morte ti uccide pure senza l’aiuto della malattia. E ad alcuni le malattie hanno allontanato la morte, ed essi hanno vissuto di più poiché sembrava loro di star per morire. Aggiungi che vi sono, come certe ferite, così certe malattie medicinali e salutari. [B] Il mal della pietra è spesso non meno vivace di voi. Si vedono uomini nei quali è durato dalla fanciullezza fino all’estrema vecchiaia, e se non l’avessero piantato in asso, era disposto ad assisterli più a lungo: voi l’uccidete più spesso di quanto esso uccida voi. E quand’anche esso ti presentasse l’immagine della morte vicina, non sarebbe un buon servigio per un uomo di tale età, ricondurlo al pensiero della sua fine? [C] E quel che è peggio: non hai più per chi guarire. In ogni modo, fin dal primo giorno la necessità comune ti chiama. [B] Considera con quanta arte e con quanta dolcezza esso ti disgusta della vita e ti distacca dal mondo: non forzandoti con una schiavitù tirannica, come tanti altri mali che vedi nei vecchi, che li tengono impediti in un continuo stato di debolezza e di dolore; ma con avvertimenti e ammonimenti ripresi a intervalli, intramezzando lunghe pause di tranquillità, come per darti modo di meditare e ripeterti la sua lezione a tuo agio. Per darti modo di giudicar sanamente e prender partito da uomo di coraggio, ti presenta lo stato della tua condizione tutta intera, sia in bene sia in male. E nel medesimo giorno una vita ora molto lieta, ora insopportabile. Se non abbracci la morte, per lo meno le stringi la mano una volta al mese. [C] Per cui puoi per di più sperare che ti coglierà un giorno senza minacce. E che essendo così spesso condotto fino al porto, fidando di essere ancora nei termini normali, un mattino, senza che te l’aspetti, ti si farà passare il fiume, te e la tua fiducia. [B] Non ci si deve lamentare delle malattie che si dividono lealmente il tempo con la salute.

Sono obbligato alla fortuna per il fatto che mi assale tanto spesso con la stessa specie di armi: mi ci avvezza e mi ci addestra con la pratica, mi ci allena e mi ci abitua. Ormai so pressappoco che cosa devo aspettarmi. [C] In mancanza di memoria naturale, me ne fabbrico una di carta. E quando sopraggiunge nel mio male qualche nuovo sintomo, lo scrivo.92 Per cui accade che adesso, essendo passato quasi per ogni sorta di esempi, se qualche turbamento mi minaccia, sfogliando quelle noterelle scucite come foglie della Sibilla,93 non manco più di trovare come consolarmi con qualche pronostico favorevole desunto dalla mia esperienza passata. [B] L’assuefazione mi serve anche a sperare meglio per il futuro. Di fatto, poiché questa evacuazione è continuata così a lungo, è da credere che la natura non cambierà questo procedimento, e non ne verrà un inconveniente peggiore di quello che risento. Inoltre, la natura di questa malattia non è incompatibile con la mia indole pronta e impulsiva. Quando mi assale blandamente mi fa paura, poiché allora dura molto tempo. Ma di solito ha accessi forti e gagliardi. Mi scuote a oltranza per un giorno o due. I miei reni hanno resistito un certo tempo senza alterazione; da un certo altro tempo hanno cambiato condizione. I mali hanno il loro periodo come i beni: forse questo accidente volge alla fine. L’età indebolisce il calore del mio stomaco; essendo perciò la digestione meno perfetta, esso rimanda questa materia non digerita ai miei reni.94 Perché, in virtù di un qualche rivolgimento, non potrà essere egualmente indebolito il calore dei miei reni, tanto che essi non possano più mutare in pietra il mio umore, e la natura avviarsi a prendere qualche altra via di purgazione? Gli anni mi hanno evidentemente prosciugato alcuni catarri. Perché non prosciugherebbero questi escrementi che forniscono materia alla renella? Ma c’è forse qualcosa di più dolce di questo improvviso mutamento, quando da un dolore estremo arrivo, per l’espulsione del calcolo, a recuperare come in un lampo la bella luce della salute, così libera e così piena? Come accade nelle nostre improvvise e più acute coliche: c’è nulla in questo dolore patito che si possa contrapporre al piacere d’un così subitaneo miglioramento? Come la salute mi sembra più bella dopo la malattia, tanto vicina e contigua che posso vederle l’una di fronte all’altra, nella loro maggior pompa, mentre si mettono a gara quasi per tenersi testa e contrapporsi! Proprio come gli stoici dicono che la presenza dei vizi è utile per dar pregio e far da spalla alla virtù,95 noi possiamo dire, a maggior ragione e con un’ipotesi meno ardita, che la natura ci ha dato il dolore ad onore e a servizio del piacere e dell’assenza di dolore. Quando Socrate, dopo che fu liberato dalle catene, sentì la dolcezza di quel prurito che il loro peso gli aveva causato nelle gambe, si rallegrò nel considerare la stretta alleanza del dolore col piacere:96 come essi siano uniti da un legame necessario, sicché alternativamente si seguono e si generano l’uno dall’altro. E dichiarava al buon Esopo che avrebbe dovuto trarre da questa considerazione un soggetto adatto a una bella favola.

La cosa peggiore che vedo nelle altre malattie, è che non sono tanto gravi nella loro manifestazione quanto nella loro conclusione: ci vuole un anno per riaversi, sempre pieno di debolezza e di paura. C’è tanto rischio e tanti gradi per rimettersi in buona salute che non si finisce mai. Prima che vi abbiano tolto un copricapo e poi una papalina, prima che vi sia ridato l’uso dell’aria, e del vino, e di vostra moglie, e dei meloni, è un miracolo se non siete ricaduto in qualche nuova miseria. Questa qui ha il privilegio che va via di netto. Mentre le altre lasciano sempre qualche traccia e alterazione che rende il corpo suscettibile di nuovo male: e si danno la mano gli uni con gli altri. Sono scusabili quelli che si accontentano del loro dominio su di noi, senza estenderlo e senza introdurre il loro seguito. Ma cortesi e graziosi sono quelli il cui passaggio ci porta qualche utile conseguenza. Da quando soffro del mal della pietra mi trovo liberato da altri inconvenienti, più, mi sembra, di quanto fossi prima, e non ho più avuto febbre. Ne deduco che il vomito acuto e frequente di cui soffro mi purghi; e che d’altra parte le mie disappetenze e gli straordinari digiuni che faccio smaltiscano i miei umori nocivi, e la natura elimini in quelle pietre ciò che ha di superfluo e dannoso. Non mi si dica che è una medicina pagata troppo cara. Infatti, che dire di tanti beveraggi puzzolenti, cauteri, incisioni, sudate, setoni, diete e di tanti modi di guarire che ci portano spesso la morte perché non possiamo sopportare la loro violenza e molestia? Così, quando ho un attacco, lo considero una medicina: quando ne sono esente, la considero una liberazione duratura e completa.

Ecco ancora un favore particolare del mio male: cioè che fa quasi il suo gioco a parte e mi lascia fare il mio; o dipende solo dalla mia mancanza di coraggio. Nel suo attacco più violento, l’ho tenuto dieci ore a cavallo. Sopportate semplicemente, non vi serve altra regola. Giocate, pranzate, correte, fate questo e quest’altro, se potete: i vostri stravizi vi gioveranno più di quanto vi nuocciano. Dite altrettanto a un sifilitico, a un gottoso, a un ernioso. Le altre malattie hanno impedimenti più generali, ostacolano ben altrimenti le nostre azioni, turbano tutto il nostro ordine e impegnano nei loro confronti tutta la condizione della vita. Questa non fa che pungere la pelle: lascia a vostra disposizione l’intelletto e la volontà, e la lingua e i piedi e le mani. Vi risveglia più che assopirvi. L’anima è colpita dall’ardore d’una febbre, e annientata da un’epilessia, e sconvolta da un’acuta emicrania, e infine stordita da tutte le malattie che colpiscono l’insieme del corpo e le parti più nobili. Qui, non è affatto attaccata. Se sta male, è colpa sua: si tradisce da sola, si lascia andare e si smonta. Soltanto i pazzi si lasciano persuadere che questo corpo duro e solido che si cuoce nei nostri reni possa sciogliersi con dei beveraggi. Per cui, quando è stato smosso, non c’è che da lasciargli il passaggio: e lo imboccherà. Noto ancora questo particolare vantaggio: che è un male in cui abbiamo poco da prognosticare. Siamo dispensati dal turbamento in cui ci gettano gli altri mali per l’incertezza delle loro cause e forme e progresso: turbamento infinitamente penoso. Non sappiamo che farcene di consulti e diagnosi dottorali: i sensi ci mostrano che cos’è e dov’è.

Con tali argomenti, e forti e deboli, io cerco di addormentare e distrarre la mia immaginazione, e di ungere le sue ferite, come Cicerone il male della sua vecchiaia.97 Se peggiorano domani, domani vi provvederemo con altre scappatoie. [C] Che questo sia vero: ecco che di nuovo i più lievi movimenti spremono sangue puro dai miei reni. E con ciò? Non smetto di muovermi come prima e dar di sprone dietro ai miei cani, con ardore giovanile e spavaldo. E trovo che ho piena ragione d’un inconveniente tanto importante, che mi costa solo una sorda pesantezza e un’alterazione in quella parte. È qualche grossa pietra che preme e consuma la sostanza dei miei reni, e la mia vita che si evacua a poco a poco, non senza una certa naturale dolcezza, come un escremento ormai superfluo e fastidioso. [B] Ora sento qualche cosa che si muove: non aspettatevi che vada a preoccuparmi di controllare il mio polso e le mie urine per prender qualche noioso provvedimento. Farò sempre a tempo a sentire il male, senza allungarlo col male della paura. [C] Chi teme di soffrire, soffre già perché teme. Si aggiunga che l’incertezza e l’ignoranza di quelli che si occupano di spiegare gli impulsi della natura e i suoi progressi interni, e tanti falsi pronostici della loro arte, devono farci conoscere che i suoi mezzi sono infinitamente sconosciuti. C’è grande incertezza, varietà e oscurità in ciò che essa ci promette o minaccia. A parte la vecchiaia, che è un segno indubitabile dell’approssimarsi della morte, in tutti gli altri accidenti vedo pochi segni dell’avvenire su cui possiamo fondare la nostra previsione. [B] Mi giudico solo per quello che sento veramente, non per ragionamento. A che pro, poiché non ci voglio mettere che l’attesa e la pazienza. Volete sapere quanto ci guadagno a far così? Guardate quelli che fanno diversamente e che dipendono da tante diverse suggestioni e consigli: quanto spesso l’immaginazione li opprime senza che li opprima il corpo. Mi sono divertito molte volte, essendo al sicuro e libero da questi accidenti pericolosi, a comunicarli ai medici come se stessero allora nascendo in me. Sopportavo ben facilmente la sentenza delle loro orribili conclusioni, e ne rimanevo tanto più obbligato a Dio per la sua grazia, e meglio istruito della vanità di quest’arte.

Non c’è nulla che si debba raccomandar tanto alla gioventù quanto l’attività e l’alacrità. La nostra vita non è che movimento; io mi smuovo difficilmente, e sono tardo in ogni cosa: ad alzarmi, a coricarmi, e nei pasti; è presto per me alle sette, e dove comando io non pranzo prima delle undici e non ceno che dopo le sei. Ho attribuito tempo fa la causa delle febbri e delle malattie in cui sono incorso alla pesantezza e all’intorpidimento che il lungo sonno mi aveva causato, e mi sono sempre pentito di riaddormentarmi la mattina. [C] Platone è più contrario all’eccesso nel dormire che all’eccesso nel bere.98 [B] Mi piace dormire sul duro e da solo, cioè senza moglie, come i re; piuttosto ben coperto: il letto non me lo riscaldano mai, ma da quando son vecchio mi danno, quando ne ho bisogno, dei panni per scaldarmi i piedi e lo stomaco. Si trovava da ridire su Scipione maggiore perché era dormiglione,99 non per altra ragione, secondo me, se non che agli uomini dava noia che in lui solo non ci fosse nulla da ridire. Se ho qualche ricercatezza nel mio modo di vivere, è piuttosto per il dormire che per altro; ma in generale cedo e mi adatto più di chiunque altro alla necessità. Il dormire ha occupato gran parte della mia vita, e anche a quest’età lo prolungo per otto o nove ore di fila. Contrasto con vantaggio questa pigra propensione, e sto evidentemente meglio: sento un po’ la ripercussione del cambiamento, ma è cosa di tre giorni. E non vedo nessuno che viva con meno quando è necessario, e che si eserciti con più costanza, né a cui le fatiche pesino meno. Il mio corpo è capace di un movimento continuo, ma non violento e improvviso. Rifuggo ormai dagli esercizi violenti e che mi fanno sudare: le mie membra si stancano prima ancora di riscaldarsi. Rimango in piedi per tutto un giorno e non mi stanco affatto a passeggiare; ma sul selciato, fin dalla mia infanzia, mi è sempre piaciuto andare solo a cavallo: a piedi m’infango fino alle natiche; e le persone piccole sono esposte in queste strade ad essere prese a spintoni e a gomitate perché non danno nell’occhio. E mi è piaciuto riposarmi, sia coricato sia seduto, con le gambe altrettanto o più alte del sedile.

Non c’è occupazione piacevole quanto quella militare: occupazione e nobile nella pratica, poiché la più forte, generosa e superba di tutte le virtù è il valore; e nobile per il suo movente: non c’è utile né più giusto né più universale della protezione della pace e grandezza del proprio paese. Vi fa piacere la compagnia di tanti uomini, nobili, giovani, attivi, la vista quotidiana di tanti spettacoli tragici, la libertà di questi rapporti senza artificio e un modo di vivere virile e senza cerimonie, la varietà di mille azioni diverse, quella coraggiosa armonia della musica di guerra che vi trascina e v’infiamma gli orecchi e l’animo, l’onore di quest’esercizio, la sua stessa durezza e difficoltà, [C] che Platone valuta così poco che nella sua Repubblica vi fa partecipare le donne e i fanciulli.100 [B] Vi offrite alle mansioni e ai rischi personali secondo che giudicate del loro splendore e della loro importanza, da soldato volontario, e vedete quando la vita stessa vi è impegnata a ragione,

pulchrumque mori succurrit in armis.I 101

Temere i rischi comuni che riguardano una così gran folla, non osare quello che osano tante specie di animi, è proprio di un cuore debole e basso oltre misura. La compagnia rassicura perfino i fanciulli. Se altri vi superano in scienza, in grazia, in forza, in fortuna, avete cause esterne con cui prendervela; ma di ceder loro in fermezza d’animo, dovete prendervela solo con voi. La morte è più abietta, più strascicata e penosa in un letto che in una battaglia; le febbri e i catarri altrettanto dolorosi e mortali di un’archibugiata. Chi fosse nato per sopportare valorosamente gli accidenti della vita comune, non avrebbe bisogno di accrescere il proprio coraggio per farsi uomo d’armi. [C] Vivere, mi Lucili, militare est.II 102

Non mi ricordo di essermi mai visto rognoso. Tuttavia il grattarsi è fra i doni di natura uno dei più dolci e più accessibili. Ma la punizione gli sta troppo fastidiosamente vicina. Io me ne giovo soprattutto per gli orecchi, che mi prudono all’interno a periodi. [B] Sono nato con tutti i sensi sani quasi alla perfezione. Il mio stomaco è sufficientemente buono, come la mia testa, e per lo più si mantengono tali pur attraverso le febbri, e così il mio respiro. Ho da poco oltrepassato di sei anni il cinquantesimo, al quale alcuni popoli, non senza ragione, avevano prescritto una fine così giusta alla vita che non permettevano che la si superasse: eppure ho ancora delle remissioni, sebbene instabili e brevi, così nette che sono poco lontane dalla salute e dall’assenza di dolori della mia giovinezza. Non parlo del vigore e della gagliardia, non è ragionevole che mi segua al di là dei suoi limiti:

Non hæc amplius est liminis, aut aquæ

Cælestis, patiens latus.III 103

Il mio viso mi rivela immediatamente, e così i miei occhi: tutti i miei cambiamenti cominciano di lì, e un po’ più forti di quanto siano in realtà; faccio spesso pietà ai miei amici prima di avvertirne la causa. Lo specchio non mi spaventa poiché anche in gioventù mi è accaduto così più d’una volta di assumere un colore e un aspetto conturbato e di cattivo augurio senza grave inconveniente; tanto che i medici, che non trovavano nell’interno una causa che corrispondesse a questa alterazione esterna, l’attribuivano allo spirito e a qualche passione segreta che mi rodesse nell’intimo: s’ingannavano. Se il corpo si regolasse secondo la mia volontà, come fa l’anima, procederemmo un po’ più a nostro agio. Io l’avevo allora non solo libera da turbamenti, ma anche piena di soddisfazione e di gioia, come per lo più è di solito, metà per natura, metà di proposito:

Nec vitiant artus ægræ contagia mentis.I 104

Ritengo che questa sua moderazione abbia molte volte risollevato il corpo dalle sue cadute: è spesso abbattuto, mentre lei, se non è allegra, è almeno in disposizione tranquilla e riposata. Ebbi per quattro o cinque mesi la febbre quartana, che mi aveva tutto sfigurato: lo spirito si mantenne sempre non solo quieto, ma lieto. Se il dolore è fuori di me, l’indebolimento e il languore non mi rattristano affatto. Vedo molti mancamenti fisici, che fanno orrore solo a nominarli, che temerei meno di mille passioni e agitazioni di spirito che vedo prodursi. Mi risolvo a non correr più, mi basta trascinarmi; e non mi lamento della decadenza naturale che mi tiene in balia,

Quis tumidum guttur miratur in Alpibus?II 105

Non più di quanto rimpianga che la mia durata non sia così lunga e piena come quella d’una quercia.

Non ho affatto da lamentarmi della mia immaginazione: ho avuto pochi pensieri nella mia vita che mi abbiano anche soltanto interrotto il corso del sonno, se non quelli del desiderio, che mi svegliasse senza tormentarmi. Sogno di rado, e allora sogno cose fantastiche e chimere prodotte generalmente da pensieri piacevoli: più ridicoli che tristi. E ritengo che sia vero che i sogni sono fedeli interpreti delle nostre inclinazioni; ma ci vuole abilità nel coordinarli e spiegarli.

[C]Res quæ in vita usurpant homines, cogitant, curant, vident,

Quæque agunt vigilantes, agitantque, ea si cui in somno accidunt,

Minus mirandum est.III 106

Platone dice inoltre che è compito della saggezza trarne insegnamenti divinatori per l’avvenire.107 Io non ci trovo nulla di buono, se non le straordinarie esperienze che ne raccontano Socrate, Senofonte, Aristotele,108 personaggi di autorità indiscutibile. Le storie dicono che gli Atlanti non sognano mai;109 e che non mangiano nulla che sia morto, cosa che aggiungo poiché è probabilmente la ragione per cui non sognano. Infatti Pitagora ordinava che il cibo fosse preparato in un certo modo per fare i sogni opportuni.110 I miei sono dolci e non mi causano alcuna agitazione del corpo né emissione di voce. Ho visto parecchi dell’età mia esserne straordinariamente agitati. Il filosofo Teone passeggiava sognando, e il servo di Pericle addirittura sulle tegole e sul fastigio della casa.111

[B] Non scelgo mai a tavola, e mi do alla prima cosa e alla più vicina, e passo malvolentieri da un sapore all’altro. La folla dei piatti e delle portate mi dà noia quanto qualsiasi altra folla: mi accontento facilmente di poche vivande, e detesto l’opinione di Favorino,112 che in un banchetto bisogna che vi portino via il cibo che mangiate con gusto e ve ne sostituiscano sempre uno nuovo; e che la cena è misera se non si son saziati i convitati di codrioni di diversi uccelli, e che il solo beccafico merita che lo si mangi per intero. Faccio uso abituale di cibi salati; ma preferisco il pane senza sale, e il mio panettiere a casa mia non ne serve altro per la mia tavola, contrariamente all’uso del paese. Nella mia infanzia si è dovuto correggermi soprattutto perché rifiutavo le cose che generalmente piacciono di più a quell’età: zuccherini, marmellate, pasticcini. Il mio precettore combatté questa ripugnanza per i cibi raffinati come una specie di raffinatezza. E infatti non è altro che difficoltà di gusto, a qualsiasi cosa si applichi. Chi toglie a un fanciullo una certa particolare e ostinata preferenza per il pane scuro e il lardo, o per l’aglio, gli toglie il piacere della gola. Ci sono di quelli che trovano difficile e spiacevole fare a meno del manzo e del prosciutto in mezzo alle pernici. Costoro se la godono, è la raffinatezza dei raffinati, è il gusto d’una molle agiatezza che prende a noia le cose normali e consuete: per quæ luxuria divitiarum tædio ludit.I 113 Evitare di esser ghiotti di ciò di cui altri lo sono, avere una cura particolare del proprio vitto, è l’essenza di questo vizio,

Si modica cænare times olus omne patella.II 114

C’è in verità questa differenza, che è meglio costringere il proprio desiderio alle cose più facili a procurarsi, ma è sempre un vizio il costringersi. Una volta chiamavo raffinato un mio parente che aveva disimparato nelle nostre galere a servirsi dei letti e a spogliarsi per coricarsi.

Se avessi figli maschi, desidererei volentieri per loro la mia fortuna. Il buon padre che Dio mi dette, che ha da me soltanto la riconoscenza della sua bontà, ma certo molto viva, mi mandò fin dalla culla in un povero villaggio delle sue terre per esservi allevato, e mi ci tenne finché fui a balia, e anche dopo: abituandomi alla più bassa e comune maniera di vivere. [C] Magna pars libertatis est bene moratus venter.I 115 [B] Non prendetevi mai, e ancor meno affidate alle vostre mogli, l’incarico di allevarli: lasciate che la sorte li formi sotto leggi comuni e naturali; lasciate che l’abitudine li avvezzi alla frugalità e all’austerità, che debbano scendere dalla rigidezza piuttosto che salire verso di essa. La sua intenzione mirava anche a un altro fine: di avvicinarmi al popolo e a quella categoria di uomini che ha bisogno del nostro aiuto; e pensava che fossi tenuto a guardare verso chi mi tende le braccia piuttosto che verso chi mi volta le spalle. E questa fu anche la ragione per cui mi fece tenere a battesimo da persone della più bassa condizione, per legarmi ed attaccarmi ad esse. Il suo proposito non ha avuto affatto un cattivo risultato: mi dedico volentieri agli umili, sia perché c’è più gloria, sia per compassione naturale, che può infinitamente su di me. Il partito che condannerò nelle nostre guerre, lo condannerò più severamente se sarà fiorente e prospero; potrà conciliarmi in qualche modo a sé quando lo vedrò misero e oppresso. Come medito volentieri sul bel temperamento di Chelonide, figlia e moglie di re di Sparta: quando Cleombroto suo marito, nei disordini della sua città, ebbe la meglio su Leonida, suo padre, lei fece la buona figlia, fu vicina al padre nell’esilio, nella miseria, opponendosi al vincitore; la fortuna cambiò, eccola, mutato l’animo con la fortuna, schierarsi coraggiosamente dalla parte del marito, che seguì dovunque la sua disgrazia lo portò:116 non avendo, pare, altra scelta che darsi al partito in cui poteva essere più utile e mostrarsi più compassionevole. Io propendo a seguire l’esempio di Flaminio, che si offriva a quelli che avevano bisogno di lui più che a quelli che potevano giovargli, più naturalmente di quanto segua quello di Pirro, incline ad abbassarsi sotto i grandi e a insuperbirsi sopra i piccoli.117

I lunghi pranzi mi infastidiscono e mi nuocciono: infatti, forse perché mi ci sono abituato fin da bambino, non riuscendo a tenere un contegno migliore, mangio finché ci sono. Perciò a casa mia, benché siano brevi, mi ci metto volentieri un po’ dopo gli altri, sull’esempio di Augusto;118 ma non lo imito anche nell’alzarsi prima degli altri. Al contrario, mi piace riposarmi a lungo, dopo, e ascoltare i discorsi, purché io non vi prenda parte: poiché mi stanco e mi fa male parlare con lo stomaco pieno, mentre trovo molto salutare e piacevole l’esercizio di gridare e discutere prima del pasto. [C] Gli antichi Greci e Romani avevano più ragione di noi, destinando al pasto, che è uno degli atti più importanti della vita, se un’altra occupazione straordinaria non ne li distoglieva, parecchie ore e la maggior parte della notte, mangiando e bevendo meno in fretta di noi, che andiamo di furia in tutte le nostre azioni, e prolungando questo piacere naturale con più agio e godimento, intramezzandovi diversi conversari utili e dilettevoli. [B] Quelli che devono aver cura di me potrebbero facilmente sottrarmi quello che pensano che mi sia dannoso: infatti in queste cose non desidero mai né sento la mancanza di ciò che non vedo; ma allo stesso modo, di quelle che ho sotto gli occhi, perdono tempo a predicarmene l’astinenza, tanto che, quando voglio digiunare, bisogna che stia separato da quelli che mangiano, e che mi venga presentato appena quel tanto che è necessario per una colazione moderata: poiché se mi metto a tavola dimentico la mia decisione. Quando do ordine che si cambi il modo di preparare qualche pietanza, i miei servitori sanno che vuol dire che il mio appetito è diminuito e che non la toccherò. Tutte quelle che è possibile trattar così mi piacciono poco cotte e molto frollate, fino al punto di cambiare l’odore di parecchie. Non c’è che la durezza che generalmente mi dia noia (di qualsiasi altra qualità non mi curo e vi sono indifferente più di chiunque abbia conosciuto), tanto che, contro il gusto comune, perfino fra i pesci mi succede di trovarne e di troppo freschi e di troppo sodi. Non è colpa dei miei denti, che ho sempre avuto buoni e anzi perfetti, e che solo ora l’età comincia a minacciare. Ho imparato fin dall’infanzia a strofinarli con la salvietta, sia al mattino sia all’inizio e alla fine del pasto.

Dio fa grazia a coloro ai quali sottrae la vita per gradi, è il solo beneficio della vecchiaia: la morte finale sarà così tanto meno assoluta e dolorosa, non ucciderà più che una metà o un quarto di uomo. Ecco un dente che mi è caduto or ora, senza dolore, senza fatica, era il termine naturale della sua durata; e questa parte del mio essere e parecchie altre sono già morte, altre morte a metà, fra le più attive e che occupavano il primo posto quando ero nel vigore degli anni. È così che mi dissolvo e sfuggo a me stesso. Il mio intelletto sarà tanto stolto da sentire il salto di questa caduta, già così avanzata, come se fosse completa? Non lo credo. [C] In verità, ricevo un supremo conforto, nei pensieri della mia morte, dal fatto che essa sia di quelle giuste e naturali; e che ormai io non possa a questo riguardo chiedere né sperare dal destino favore che non sia illegittimo. Gli uomini presumono di aver avuto un tempo, come la statura, così anche la vita più lunga. Ma Solone, che è di quei tempi antichi, ne fissa tuttavia la massima durata a settant’anni.119 Io che ho tanto adorato e così assolutamente quell’ριστον µτρονI 120 del passato, e che ho considerato la misura media come la più perfetta, dovrò forse pretendere una vecchiaia smisurata e contro natura? Tutto ciò che avviene contrariamente al corso della natura può essere fastidioso, ma quello che avviene secondo le sue regole dev’essere sempre piacevole. Omnia quæ secundum naturam fiunt, sunt habenda in bonis.II 121 Così, dice Platone, la morte che è causata dalle ferite o dalle malattie sia pure violenta, ma quella che ci coglie perché la vecchiaia ci conduce ad essa è la più lieve di tutte e in certo modo deliziosa.122 Vitam adolescentibus vis aufert, senibus maturitas.III 123 [B] La morte si mescola e si confonde dovunque alla nostra vita: il declino precorre l’ora della morte, e s’ingerisce nel corso del nostro stesso fiorire. Ho dei ritratti di me a venticinque e a trentacinque anni; li paragono a quello di ora: quante volte non sono più io! Come la mia immagine attuale è più lontana da queste che da quella della mia morte! È abusar troppo della natura tormentarla tanto a lungo che sia costretta a lasciarci, e abbandonare la nostra esistenza, i nostri occhi, i nostri denti, le nostre gambe e il resto alla mercé di un soccorso estraneo e mendicato; e rimetterci nelle mani dell’arte, stanca di seguirci.

Non sono eccessivamente goloso né di insalate né di frutta, eccettuati i meloni. Mio padre detestava ogni specie di salse, a me piacciono tutte. Mangiar troppo mi dà noia, ma ancora non so dire con certezza se qualche cibo mi nuoccia per la sua qualità; come pure non distinguo né luna piena né luna calante, né l’autunno dalla primavera. Ci sono in noi dei moti incostanti e sconosciuti: poiché il rafano, per esempio, l’ho trovato in un primo tempo giovevole, poi molesto, ora di nuovo giovevole. In parecchie cose sento il mio stomaco e il mio gusto andar così mutando: ho cambiato dal vino bianco al chiaretto, e poi dal chiaretto al bianco. Sono ghiotto di pesce, e per me sono giorni di grasso quelli di magro, e feste i giorni di digiuno. Credo a quello che alcuni dicono, che sia di più facile digestione della carne. Come mi faccio scrupolo di mangiar carne il giorno del pesce, così il mio gusto si fa scrupolo di mescolare il pesce alla carne: questa differenza mi sembra troppo forte. Fin dalla giovinezza a volte saltavo qualche pasto: o per aguzzare il mio appetito per il giorno dopo (poiché, come Epicuro digiunava e faceva pasti magri per abituare il suo piacere a fare a meno dell’abbondanza,124 io al contrario lo faccio per abituare il mio piacere a trarre maggior profitto dall’abbondanza e a giovarsene più allegramente), oppure digiunavo per conservare il mio vigore in vista di qualche azione del corpo o dello spirito, poiché l’uno e l’altro s’impigriscono terribilmente in me per la ripienezza; e soprattutto detesto quello stolto accoppiamento d’una dea così sana e allegra con quel piccolo dio intemperante e flatulento, tutto gonfio del fumo del suo liquore;125 o per guarire il mio stomaco malato; o perché ero senza compagnia adatta. Poiché dico, come quel medesimo Epicuro, che non bisogna guardar tanto che cosa si mangia quanto con chi si mangia;126 e lodo Chilone perché non volle promettere di recarsi al banchetto di Periandro prima di sapere chi erano gli altri invitati.127 Non c’è per me preparazione così dolce né salsa così appetitosa come quella che si trae dalla compagnia. Credo che sia più sano mangiare più adagio e meno, e mangiare più spesso, ma voglio coltivare l’appetito e la fame: non avrei alcun piacere a strascicare, secondo le prescrizioni mediche, tre o quattro miseri pasti al giorno così limitati. [C] Chi potrebbe assicurarmi che il sano appetito che ho stamani lo ritroverò ancora a cena? Cogliamo, soprattutto noi vecchi, cogliamo la prima occasione opportuna che ci capita. Lasciamo le effemeridi ai facitori di almanacchi e ai medici. [B] Il frutto supremo della mia salute è il piacere: attacchiamoci al primo a portata di mano e conosciuto. Io evito la costanza in queste regole di digiuno: chi vuole che un regime gli giovi, eviti di osservarlo con continuità; ci abituiamo ad esso, le nostre forze ci si addormentano, sei mesi dopo ci avrete così ben avvezzato il vostro stomaco che il vostro profitto sarà solo di aver perduto la libertà di servirvene diversamente senza danno. Non porto le gambe e le cosce più coperte d’inverno che d’estate, una semplice calza di seta. Mi son lasciato andare, per giovare ai miei catarri, a tener la testa più calda, e il ventre per la mia renella: i miei mali vi si abituarono in pochi giorni e sdegnarono le mie precauzioni consuete; ero passato da una cuffia a un copricapo, e da un berretto a un cappello doppio; le imbottiture della mia giubba non mi servono più che per ornamento, non conta niente se non vi aggiungo una pelliccia di lepre o di avvoltoio, una papalina in testa. Seguite questa gradazione, andrete lontano. Io non ne farò di nulla, e tornerei volentieri indietro da dove ho cominciato, se osassi. Vi capita qualche nuovo inconveniente, questa regola non vi serve più, vi ci siete abituato, cercatene un’altra. Così si rovinano quelli che si lasciano impastoiare da regimi severi e vi si attengono scrupolosamente: ne occorrono loro altri, e poi altri ancora oltre quelli, non si finisce mai. Per le nostre occupazioni e per il piacere è molto più comodo, come facevano gli antichi, saltare il pranzo, e rimandare un lauto pasto all’ora del ritiro e del riposo, senza interrompere la giornata: così facevo io un tempo. Per la salute, trovo poi per esperienza che, al contrario, è meglio pranzare, e che la digestione si fa meglio stando svegli.

Non sono soggetto a soffrire la sete, né sano né malato: ho molto spesso, allora, la bocca secca, ma senza sete. Generalmente non bevo che per il desiderio che me ne viene mangiando, e molto avanti nel pasto. Bevo abbastanza per un uomo normale: in estate, e in un pasto appetitoso, non solo oltrepasso i limiti di Augusto, che beveva tre volte e non di più;128 ma per non andare contro la regola di Democrito,129 che proibiva di fermarsi a quattro come a un numero sfortunato, scolo al bisogno fino a cinque bicchieri, tre quartini circa:130 infatti i bicchieri piccoli sono i miei favoriti, e mi piace vuotarli, cosa che altri evitano come sconveniente. Allungo il vino più spesso di metà, talvolta di un terzo d’acqua; e quando sono a casa mia, per un’antica abitudine che il suo medico prescriveva a mio padre e a se stesso, si mescola quello che mi occorre già in bottiglieria, due o tre ore prima che si serva. [C] Dicono che Cranao, re degli Ateniesi, fu l’inventore di quest’uso di allungare il vino con l’acqua:131 utilmente o no, ho sentito discuterne. Ritengo più conveniente e più sano che i ragazzi non ne facciano uso che dopo i sedici o i diciott’anni. [B] Il modo di vivere più usuale e comune è il più bello: ogni singolarità mi sembra da evitare, e detesterei tanto un tedesco che mettesse dell’acqua nel vino quanto un francese che lo bevesse puro. L’uso comune fa legge in queste cose.

Evito l’aria pesante e fuggo il fumo come la morte (la prima riparazione che mi affrettai a fare in casa mia fu per i caminetti e le latrine, difetto comune delle vecchie costruzioni e insopportabile), e fra gli incomodi della guerra metto quei fitti polveroni nei quali ci tengono sepolti, quando fa caldo, per tutta una giornata. Ho la respirazione libera e facile, e le mie infreddature passano il più delle volte senza attaccare i polmoni e senza tosse. L’inclemenza dell’estate mi è più nemica di quella dell’inverno: infatti, oltre all’inconveniente del caldo, meno rimediabile di quello del freddo, e oltre al colpo che i raggi del sole danno alla testa, i miei occhi sono offesi da qualsiasi luce abbagliante: non potrei ora pranzare seduto di fronte a un fuoco ardente e luminoso. Per smorzare la bianchezza della carta, al tempo in cui avevo più l’abitudine di leggere, appoggiavo sul libro un pezzo di vetro, e ne provavo un gran sollievo. Ignoro finora l’uso degli occhiali, e vedo tanto lontano quanto ho sempre visto e quanto chiunque altro. È vero che verso il calar del sole comincio a provar fastidio e difficoltà a leggere, esercizio che mi ha sempre affaticato gli occhi, ma soprattutto di notte. [C] Ecco un passo indietro, appena appena sensibile. Indietreggerò di un altro, dal secondo al terzo, dal terzo al quarto, così dolcemente che dovrò essere completamente cieco prima di avvertire il declino e la vecchiaia della mia vista. Tanto abilmente le Parche filano la nostra vita. Ed esito a riconoscere che il mio udito cominci a indebolirsi, e vedrete che l’avrò perduto a metà e me la prenderò ancora con la voce di quelli che mi parlano. Bisogna tener l’anima ben desta per farle sentire come se ne va.

[B] Il mio passo è spedito e fermo; e non so quale dei due, se lo spirito o il corpo, ho fissato con maggior difficoltà su uno stesso punto. È davvero mio amico il predicatore che trattiene la mia attenzione per tutta una predica. Nelle cerimonie, dove ognuno è così castigato nel contegno, dove ho visto le dame tenere immobili perfino gli occhi, non sono mai riuscito a far sì che qualche mia parte non divagasse sempre: anche se sto seduto, sto poco fermo. [C] Come la cameriera del filosofo Crisippo diceva del suo padrone che era ubriaco solo nelle gambe, poiché aveva l’abitudine di muoverle in qualsiasi posizione fosse, e lei lo diceva quando, mentre il vino eccitava gli altri, lui non ne risentiva alcuna alterazione;132 si è potuto dire anche, fin dalla mia infanzia, che avevo la follia nei piedi, o l’argento vivo, tanto li ho smaniosi e irrequieti in qualsiasi luogo li metta. [B] È cosa indecente, oltre che nuoce alla salute, ed anche al piacere, mangiare ingordamente come faccio io: spesso mi mordo la lingua, a volte le dita, per la fretta. Diogene, incontrando un ragazzo che mangiava così, dette uno schiaffo per questo al suo precettore.133 [C] C’erano a Roma delle persone che insegnavano a masticare, come a camminare con garbo. [B] Io perdo in tal modo l’agio di parlare, che è un così dolce condimento delle tavole, purché siano argomenti adatti, piacevoli e brevi. C’è gelosia e invidia fra i nostri piaceri: si urtano e si ostacolano l’un l’altro. Alcibiade, uomo che s’intendeva davvero della buona tavola, escludeva dai pranzi perfino la musica, perché non turbasse la dolcezza delle conversazioni, [C] adducendo la ragione che Platone gli attribuisce:134 che è un’usanza da uomini volgari chiamare dei suonatori e dei cantori ai banchetti, per difetto di buoni discorsi e colloqui piacevoli con cui le persone intelligenti sanno dilettarsi a vicenda. [B] Varrone richiede questo per il convito: la riunione di persone di bella presenza e di piacevole conversazione, che non siano né mute né chiacchierone, pulizia e raffinatezza nelle vivande e nel luogo, e tempo sereno.135 [C] Non è una festa di poca arte e di poco piacere, un buon trattamento a tavola. Né i grandi capi militari né i grandi filosofi ne hanno sdegnato l’uso e la conoscenza. La mia immaginazione ne ha affidati alla mia memoria tre, che la sorte mi rese straordinariamente dilettevoli in diverse epoche della mia età più fiorente. Poiché ognuno dei convitati vi porta il miglior bel garbo, secondo la buona disposizione di corpo e d’animo in cui si trova. Il mio stato attuale me ne esclude.

[B] Io che sto terra terra, detesto quell’inumana sapienza che ci vuol rendere sprezzanti e nemici della cura del corpo. Ritengo eguale ingiustizia avere in antipatia i piaceri naturali come averli in troppa simpatia. [C] Serse era uno sciocco, circondato com’era da tutti i piaceri umani, ad andare a proporre un premio a chi gliene trovasse altri.136 Ma non meno sciocco è colui che limita quelli che la natura gli ha procurato. [B] Non bisogna né seguirli né fuggirli: bisogna accettarli. Io li accolgo un po’ più liberamente e liberalmente, e mi lascio andar più volentieri per la china naturale. [C] Non serve a nulla esagerare la loro inanità: si fa abbastanza sentire e si manifesta abbastanza. Grazie al nostro spirito malaticcio, guastafeste, che ci disgusta di essi come di se stesso. Tratta e sé, e tutto ciò che riceve, ora in un modo ora in un altro, secondo il suo essere insaziabile, vagabondo e volubile.

Sincerum est nisi vas, quodcunque infundis, acescit.I 137

Io che mi vanto di abbracciare con tanto trasporto le comodità della vita, e in modo così particolare, non vi trovo, quando vi guardo attentamente, quasi altro che vento. E del resto, siamo dappertutto vento. E per di più il vento, più saggiamente di noi, si compiace di mormorare, di agitarsi, e si contenta delle funzioni sue proprie, senza desiderare la stabilità, la solidità, qualità non sue. I puri piaceri dell’immaginazione, e così i dispiaceri, dicono alcuni, sono i più grandi, come mostrava la bilancia di Critolao.138 Non c’è da meravigliarsi: essa li forma a modo suo e se li concede come più le aggrada. Ne vedo ogni giorno esempi insigni e forse desiderabili. Ma io, di natura composita, grossolano, non posso godere tanto pienamente questo solo oggetto così semplice, senza lasciarmi andare pesantemente ai piaceri del momento, secondo la legge umana e generale: intellettualmente sensibili, sensibilmente intellettuali. I filosofi cirenaici ritengono che, come i dolori, così i piaceri del corpo siano più potenti,139 sia perché doppi sia perché più veri. [B] Ci sono alcuni che, con spaventosa stupidità, come dice Aristotele, ne sono disgustati.140 Ne conosco di quelli che lo fanno per ambizione. Perché non rinunciano anche a respirare? Perché non vivono del loro [C] e non rifiutano la luce in quanto è gratuita e non costa loro né invenzione né sforzo? [B] Che Marte o Pallade o Mercurio li sostentino, per prova, invece di Venere, di Cerere e di Bacco. [C] Non cercheranno la quadratura del cerchio, appollaiati sulle loro mogli! [B] Detesto che ci si ordini di aver lo spirito sulle nuvole mentre abbiamo il corpo a tavola. Non voglio che lo spirito vi si inchiodi né vi si stravacchi, ma voglio che vi si applichi, [C] che vi si sieda, non che vi si corichi. Aristippo non difendeva che il corpo, come se non avessimo anima; Zenone non abbracciava che l’anima, come se non avessimo corpo.141 Tutti e due in errore. Pitagora, dicono,142 ha seguito una filosofia tutta di contemplazione, Socrate tutta di costumi e d’azione, Platone ha trovato una misura media. Ma lo dicono per parlare. E la vera misura si trova in Socrate, e Platone è molto più socratico che pitagorico, e gli si addice di più. [B] Quando ballo, ballo, quando dormo, dormo; e quando passeggio da solo in un bel verziere, se i miei pensieri si sono occupati di circostanze estranee per un certo tempo, per un altro po’ di tempo li riconduco alla passeggiata, al verziere, alla dolcezza di quella solitudine, e a me stesso. La natura, maternamente, ha stabilito che le azioni che ci ha imposte per il nostro bisogno fossero anche piacevoli per noi, e ci invita ad esse non solo con la ragione, ma anche col desiderio: è un’ingiustizia alterare le sue regole.

Quando vedo e Cesare e Alessandro, nel bel mezzo delle loro grandi imprese, godere così pienamente dei piaceri naturali, e quindi necessari e giusti, non dico che sia un rilassare la propria anima, dico che è un rafforzarla, subordinando con vigore di cuore alla pratica della vita consueta quelle violente occupazioni e quei faticosi pensieri. [C] Saggi, se avessero pensato che quella era la loro occupazione ordinaria, questa la straordinaria. Noi siamo dei gran pazzi: «Ha passato la vita nell’ozio» diciamo. «Non ho fatto niente oggi». Come? non avete vissuto? È non solo la vostra occupazione fondamentale, ma la più insigne. «Se mi avessero messo in condizione di compiere grandi imprese, avrei mostrato quel che sapevo fare». Avete saputo meditare e regolare la vostra vita? Avete compiuto l’impresa più grande di tutte. Per mettersi in mostra e segnalarsi, la natura non sa che farsene della fortuna. Si manifesta egualmente su tutti i piani, e dietro la tenda, come senza.143 Comporre i nostri costumi è il nostro compito, non comporre libri, e conquistare non battaglie e province, ma l’ordine e la tranquillità alla nostra vita. Il nostro grande e glorioso capolavoro è vivere come si deve. Tutte le altre cose, regnare, ammassar tesori, costruire, non sono per lo più che appendicoli e ammennicoli. [B] Mi piace vedere un generale d’armata, ai piedi di una breccia che vuol presto attaccare, dedicarsi interamente e liberamente al suo pranzo, ai suoi conversari, fra i suoi amici. [C] E Bruto, mentre cielo e terra cospirano contro di lui e contro la libertà romana, sottraeva alle sue ronde qualche ora di notte per leggere e annotare Polibio in piena tranquillità.144 [B] È cosa da animi piccoli, seppelliti dal peso degli affari, non sapersene districare completamente, non saperli e lasciare e riprendere:

o fortes peioraque passi

Mecum sæpe viri, nunc vino pellite curas;

Cras ingens iterabimus æquor.I 145

Sia per scherzo sia per davvero che il vino teologale e della Sorbona è passato in proverbio,146 e così i loro banchetti: trovo giusto che essi pranzino tanto più comodamente e piacevolmente quanto più utilmente e seriamente hanno impiegato la mattinata nell’esercizio della loro scuola. La coscienza di aver speso bene le altre ore è un giusto e saporito condimento delle tavole. Così hanno vissuto i saggi. E quell’inimitabile tensione verso la virtù che ci sbigottisce nell’uno e nell’altro Catone, quel temperamento severo fino all’eccesso, si è così dolcemente sottomesso e dilettato alle leggi della condizione umana, e di Venere e di Bacco. [C] Secondo i precetti della loro setta, che vogliono il perfetto saggio altrettanto esperto e versato nella pratica dei piaceri naturali quanto in ogni altro dovere della vita: Cui cor sapiat, ei et sapiat palatus.I 147

[B] La capacità di rilassarsi e la semplicità onorano straordinariamente, sembra, e convengono meglio a un animo forte e generoso. Epaminonda non riteneva che partecipare alla danza dei giovani della sua città, cantare, suonare, e applicarvisi con impegno fosse cosa che contrastasse con l’onore delle sue gloriose vittorie e con la perfetta morigeratezza di costumi che era in lui.148 E fra tante ammirevoli azioni di Scipione il vecchio,149 personaggio degno di esser creduto di origine celeste, non c’è nulla che gli dia più amabilità del vederlo baloccarsi incurantemente e infantilmente a raccogliere e scegliere conchiglie, e giocare a rimbalzello lungo la riva del mare con Lelio. E se faceva brutto tempo, divertirsi e dilettarsi a mettere per iscritto in commedie150 le più volgari e basse azioni degli uomini. [C] E con la testa piena di quella meravigliosa impresa di Annibale e d’Africa, visitare le scuole in Sicilia151 e assistere alle lezioni di filosofia, fino ad aver appuntito le armi della cieca invidia dei suoi nemici a Roma. [B] Né in Socrate c’è cosa più notevole del fatto che, già vecchio, trovi il tempo di farsi insegnare a ballare e a suonare,152 e lo consideri bene speso. Questi è stato visto153 in estasi, in piedi, per un giorno intero e una notte, di fronte a tutto l’esercito greco, preso e rapito da qualche profondo pensiero. È stato visto, [C] primo fra tanti valorosi uomini dell’esercito, correre in aiuto di Alcibiade sopraffatto dai nemici, proteggerlo col suo corpo e liberarlo dalla calca a viva forza d’armi; e primo fra tutto il popolo di Atene, sdegnato come lui da un così indegno spettacolo, offrirsi per liberare Teramene che i trenta tiranni facevano condurre a morte dai loro satelliti. E rinunciò a quest’ardita impresa solo per le rimostranze dello stesso Teramene, benché non fosse seguito che da due in tutto. È stato visto, sollecitato da una bellezza di cui era innamorato, mantenere all’occasione una severa astinenza. È stato visto, nella battaglia di Delio, rialzare e salvare Senofonte caduto da cavallo. È stato visto [B] sempre marciare in guerra e camminare sul ghiaccio a piedi nudi, portare la stessa veste in inverno e in estate, superare tutti i suoi compagni nella resistenza alla fatica, mangiare in un banchetto non diversamente che nei suoi pasti abituali. [C] È stato visto, per ventisette anni, con lo stesso volto, sopportare la fame, la povertà, l’indisciplina dei figli, gli artigli della moglie. E infine la calunnia, la tirannia, la prigione, i ceppi e il veleno. Ma se quest’uomo [B] era invitato a bere a gara per dovere di cortesia, era anche quello in tutto l’esercito che in tale gara riportava la vittoria. E non ricusava né di giocare a nocino coi bambini, né di correr con loro su un cavallo di legno. E lo faceva con bel garbo. Infatti tutte le azioni, dice la filosofia, si addicono egualmente al saggio ed egualmente lo onorano. Abbiamo ragione, e non ci se ne deve mai stancare, di presentare in ogni caso la figura di questo personaggio come modello e forma di perfezione. [C] Ci sono pochissimi esempi di vita pieni e puri. E si fa torto alla nostra istruzione proponendocene ogni giorno di deboli e difettosi, buoni appena da un solo lato, che ci fanno piuttosto andare indietro: corruttori più che correttori.

[B] La gente s’inganna: si procede molto più facilmente agli estremi, dove l’eccesso serve di termine e di guida, che per la via di mezzo, larga e aperta; e più secondo arte che secondo natura, ma anche assai meno nobilmente e meno onorevolmente. [C] La grandezza d’animo non è tanto andare in alto e in avanti, quanto sapersi limitare e circoscrivere. Essa ritiene grande tutto ciò che è sufficiente. E dimostra la sua elevatezza nell’amar più le cose medie di quelle eminenti. [B] Non c’è nulla di così bello e legittimo come far bene e dovutamente l’uomo. Né scienza tanto ardua quanto quella di saper viver bene e con naturalezza questa vita. E la più bestiale delle nostre malattie è disprezzare il nostro essere. Chi vuol astrarre la propria anima lo faccia arditamente, se può, quando il corpo starà male, per liberarla da questo contagio. In altri casi, invece, essa lo assista e favorisca, e non rifiuti di partecipare ai suoi piaceri naturali, e di compiacervisi coniugalmente, portandovi, se è più saggia, la moderazione, per paura che per dissennatezza essi non si confondano col dispiacere. [C] L’intemperanza è la peste della voluttà, e la temperanza non è il suo flagello, è il suo condimento. Eudosso,154 che ne faceva il sommo bene, e i suoi compagni, che la tennero in tanto pregio, l’assaporarono nella sua più amabile dolcezza per mezzo della temperanza, che fu in essi singolare ed esemplare. [B] Io ordino alla mia anima di guardare e il dolore e il piacere con sguardo egualmente [C] moderato (eodem enim vitio est effusio animi in lætitia, quo in dolore contractio)I 155 ed egualmente [B] fermo. Ma l’uno giocondamente, l’altro severamente. E secondo ciò che può fare, così sollecita a estinguere l’uno come a estendere l’altro. [C] Guardare con occhio sano i beni fa sì che si guardino con occhio sano i mali. E il dolore ha qualcosa di non evitabile156 nel suo tenue inizio, e il piacere qualcosa di evitabile nel suo termine eccessivo. Platone li accoppia, e vuole che sia compito della fortezza combattere così contro il dolore come contro le smodate e ammalianti blandizie del piacere.157 Sono due fontane alle quali chi può attingere dove, quando e quanto occorre, è ben fortunato, sia città, sia uomo, sia bestia. Il primo bisogna prenderlo come medicina e per bisogno, più parsimoniosamente. L’altro per sete, ma non fino all’ubriachezza. Il dolore, il piacere, l’amore, l’odio sono le prime cose che sente un bambino; se, quando sopravviene la ragione, si conformano ad essa, questa è virtù.

[B] Ho un vocabolario tutto mio particolare: io «passo» il tempo, quando è cattivo e fastidioso. Quando è buono, non lo voglio passare, lo ripercorro, mi ci indugio. Bisogna trascorrere sul cattivo e fermarsi sul buono. Questa espressione abituale di «passatempo» e di «passare il tempo» riflette l’abitudine di quelle persone prudenti che non pensano di poter trarre miglior frutto dalla loro vita che lasciandola scorrere e sfuggire: passarla, scansarla e, per quanto sta in loro, ignorarla e fuggirla, come cosa di natura noiosa e disprezzabile. Ma io la conosco diversa, e la trovo e apprezzabile e gradevole, anche nel suo estremo declino, in cui mi trovo. E natura ce l’ha messa fra le mani fornita di circostanze tali, e tanto favorevoli, che dobbiamo prendercela soltanto con noi stessi se ci affligge e ci sfugge senza frutto. [C] Stulti vita ingrata est, trepida est, tota in futurum fertur.II 158 [B] Io mi preparo tuttavia a perderla senza rimpianto: ma come perdibile per sua natura, non come molesta e fastidiosa. [C] Così il non dispiacersi di morire si addice propriamente solo a quelli a cui piace vivere. [B] Occorre avvedutezza per goderla. Io la godo il doppio degli altri. Poiché la misura del godimento dipende dalla maggiore o minore applicazione che vi mettiamo. Soprattutto ora che vedo la mia così breve quanto a tempo, voglio aumentarla quanto a peso. Con la mia prontezza nell’afferrarla voglio fermare la sua prontezza nel fuggire, e con l’intensità dell’uso compensare la fretta del suo scorrere. Quanto più breve è il possesso della vita, tanto più profondo e più pieno devo renderlo. Gli altri sentono la dolcezza d’una soddisfazione e della prosperità: io la sento come loro, ma non di passaggio e di sfuggita. Invero occorre studiarla, assaporarla e ruminarla per renderne condegnamente grazie a colui che ce la concede. Essi godono degli altri piaceri come fanno di quello del sonno, senza conoscerli. Affinché lo stesso dormire non mi sfuggisse così stupidamente, tempo fa ho trovato giovevole che mi venisse disturbato, perché lo avvertissi. Io medito in me stesso su una soddisfazione, non la schiumo soltanto, la scandaglio: e costringo la mia ragione, divenuta malinconica e svogliata, ad accoglierla. Mi trovo in una disposizione tranquilla, c’è qualche piacere che mi solletica: non lo lascio arraffare dai sensi, vi associo la mia anima. Non perché vi s’impegni, ma perché vi si diletti. Non perché vi si perda, ma perché vi si trovi. E la induco per parte sua a rimirarsi in quella florida situazione, a soppesarne e valutarne la felicità e ad accrescerla. Essa misura quanto deve a Dio l’essere in pace con la propria coscienza e con le altre passioni interiori; l’avere il corpo nel suo stato naturale, che gode moderatamente e convenientemente delle funzioni dolci e gradevoli con le quali le piace compensar per suo favore i dolori con cui la sua giustizia a sua volta ci colpisce; quanto le giovi essere posta in un punto tale che, dovunque volga lo sguardo, il cielo è calmo intorno a lei: nessun desiderio, nessun timore o dubbio che le turbi l’aria, nessuna difficoltà passata, presente, futura, al di sopra della quale la sua immaginazione non passi senza danno. Questa considerazione prende gran rilievo dal confronto con condizioni diverse. Così io mi raffiguro in mille aspetti quelli che la fortuna o il loro proprio errore trascina e tempesta; e anche questi altri, più vicini a me, che accettano con tanta indifferenza e noncuranza la loro buona fortuna. Sono persone che passano davvero il loro tempo; oltrepassano il presente e ciò che possiedono per servire la speranza, e per delle ombre e immagini vane che la fantasia mette loro davanti,

Morte obita quales fama est volitare figuras,

Aut quæ sopitos deludunt somnia sensus,I 159

le quali affrettano e allungano la loro fuga via via che le si seguono. Il frutto e lo scopo del loro inseguimento è inseguire: come Alessandro diceva che il fine del suo lavoro era lavorare,160

Nil actum credens cum quid superesset agendum.I 161

Per quanto mi riguarda, dunque, amo la vita e la coltivo quale a Dio è piaciuto concedercela. Non vado desiderando che non abbiamo necessità di bere e di mangiare. [C] E mi sembrerebbe di peccare non meno scusabilmente desiderando che l’avessimo doppia: Sapiens divitiarum naturalium quæsitor acerrimus.II 162 Né [B] che ci sostentiamo col solo mettere in bocca un po’ di quella droga con cui Epimenide si toglieva l’appetito e si sosteneva.163 Né che si facciano figli inconsciamente con le dita o con i calcagni, [C] ma, parlando con rispetto, piuttosto che si facciano voluttuosamente anche con le dita e con i calcagni. Né [B] che il corpo sia senza desiderio e senza stimolo. Sono lagnanze ingrate e inique. Io accetto di buon cuore e con riconoscenza quel che la natura ha fatto per me, e me ne compiaccio e ne sono contento. Si fa torto a quel grande e onnipotente donatore rifiutando il suo dono, annullandolo e sfigurandolo. [C] Buono in tutto, ha fatto buono tutto. Omnia quæ secundum naturam sunt, æstimatione digna sunt.III 164 [B] Delle opinioni della filosofia abbraccio più volentieri quelle che sono più solide, cioè più umane e nostre: i miei ragionamenti sono, conformemente ai miei costumi, modesti e umili. [C] Essa fa davvero la bambina, secondo me, quando monta sul pulpito per predicarci che è un’unione terribile sposare il divino col terreno, il ragionevole con l’irragionevole, il severo con l’indulgente, l’onesto col disonesto. Che il piacere è cosa da bestie, indegna che il saggio l’assapori. Che il solo piacere che egli tragga dal godimento d’una bella giovane sposa è il piacere della sua coscienza, nel fare un atto conforme alla norma. Come calzare gli stivali per un’utile cavalcata. Che i suoi seguaci possano non avere più diritto165 e nerbo e succo nello sverginare le loro mogli che nella sua lezione. Non è quel che dice Socrate,166 maestro suo e nostro. Egli apprezza come deve il piacere del corpo, ma preferisce quello dello spirito, in quanto ha più forza, solidità, facilità, varietà, dignità. Questo non deve affatto andar solo, secondo lui (egli non è così cervellotico), ma soltanto primo. Per lui la temperanza è moderatrice, non nemica dei piaceri. [B] La natura è una dolce guida, ma non più dolce che saggia e giusta. [C] Intrandum est in rerum naturam et penitus quid ea postulet pervidendum.I 167 [B] Io cerco dovunque la sua traccia: l’abbiamo confusa con tracce artificiali. [C] E quel sommo bene accademico e peripatetico, che è vivere secondo essa, diviene per questo difficile a definire ed esprimere. E così quello degli stoici, vicino all’altro: che è di conformarsi alla natura. [B] Non è errore ritenere alcune azioni meno degne perché sono necessarie? E non mi toglieranno dalla testa che sia una degnissima unione quella del piacere con la necessità. [C] Con cui, dice un antico,168 gli dèi complottano sempre. [B] Per che fare smembriamo in divorzio un edificio costruito su una così stretta e fraterna corrispondenza? Al contrario, ricongiungiamolo con mutui offici: che lo spirito risvegli e vivifichi la pesantezza del corpo, il corpo freni la leggerezza dello spirito e la fissi. [C] Qui velut summum bonum laudat animæ naturam, et tanquam malum naturam carnis accusat, profecto et animam carnaliter appetit et carnem carnaliter fugit, quoniam id vanitate sentit humana, non veritate divina.II 169 [B] Non c’è parte indegna della nostra cura in questo dono che Dio ci ha fatto: dobbiamo renderne conto fino all’ultimo capello. E non è un compito di pura forma per l’uomo il guidare l’uomo secondo la sua condizione: è preciso, fondamentale e importantissimo, e il creatore ce l’ha dato seriamente e severamente. [C] L’autorità sola ha potere sulle menti comuni, e ha maggior peso in un linguaggio peregrino. Ribattiamo su questo punto: Stultitiæ proprium quis non dixerit, ignave et contumaciter facere quæ facienda sunt, et alio corpus impellere alio animum, distrahique inter diversissimos motus.III 170

[B] Orsù, per provare, fatevi dire un giorno i trastulli e le fantasie che quello si mette in testa, e per i quali distoglie il suo pensiero da un buon pranzo e rimpiange l’ora che spende a nutrirsi: troverete che non c’è nulla di così insipido in tutti i piatti della vostra tavola come quel bel colloquio della sua anima (il più delle volte sarebbe meglio per noi dormire addirittura piuttosto che vegliare su ciò su cui vegliamo), e troverete che il suo ragionamento e i suoi fini non valgono il vostro intingolo. Quand’anche fossero le estasi di Archimede171 medesimo, che cosa sarebbe? Non tocco qui, e non mescolo affatto a questa marmaglia di uomini che siamo, e a questa vanità di desideri e pensieri che ci occupano, quelle anime venerabili, elevate per ardore di devozione e religione a una costante e coscienziosa meditazione delle cose divine, [C] le quali, appropriandosi in anticipo, con lo slancio d’una viva e possente speranza, l’uso del cibo eterno, scopo finale e ultima meta dei desideri cristiani, solo piacere fermo, incorruttibile, disdegnano di attaccarsi alle nostre misere comodità, fluttuanti e ambigue; e affidano facilmente al corpo la cura e l’uso del nutrimento sensibile e temporale: è uno studio privilegiato. Fra noi,172 sono cose che ho sempre visto in singolare armonia: le opinioni supercelesti e i costumi sotterranei.173

[B] Esopo, quel grand’uomo, vide il suo padrone che orinava camminando. «E che dunque», fece «dovremo cacare correndo?»174 Amministriamo il tempo, ce ne resta ancora molto di ozioso e mal impiegato. Il nostro spirito non ha probabilmente altre ore bastanti per fare le sue faccende, senza separarsi dal corpo per quel po’ che gli occorre per il suo bisogno. Essi vogliono mettersi fuori di se stessi e sfuggire all’uomo. È follia: invece di trasformarsi in angeli, si trasformano in bestie; invece d’innalzarsi, si abbassano. [C] Questi umori trascendenti mi spaventano come luoghi elevati e inaccessibili. E nulla mi è così difficile a digerire nella vita di Socrate come le sue estasi e le sue demonerie. Nulla di così umano in Platone come quello per cui si dice che lo chiamano divino. [B] E fra le nostre scienze, mi sembrano più terrestri e basse quelle che sono poste più in alto. E non trovo nulla di così meschino e così mortale nella vita di Alessandro come le sue fantasie sulla propria immortalizzazione. Filota lo punzecchiò argutamente con la sua risposta. Gli aveva manifestato per lettera la sua gioia per l’oracolo di Giove Ammonio che l’aveva collocato fra gli dèi: «Per te ne sono ben lieto, ma c’è di che compiangere gli uomini che dovranno vivere con un uomo e obbedirgli, mentre egli supera la misura di un uomo e non se ne accontenta».175 Diis te minorem quod geris, imperas.I 176 [B] L’eccellente iscrizione con cui gli Ateniesi onorarono la venuta di Pompeo nella loro città, si conforma al mio sentire:

D’autant es tu Dieu comme

Tu te reconnais homme.II 177

È una perfezione assoluta, e quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere. Noi cerchiamo altre condizioni perché non comprendiamo l’uso delle nostre, e usciamo fuori di noi perché non sappiamo che cosa c’è dentro. [C] Così, abbiamo un bel montare sui trampoli, perché anche sui trampoli bisogna camminare con le nostre gambe. E sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo. [B] Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al modello comune e umano, con ordine, ma senza eccezionalità e senza stravaganza.

Ora, la vecchiaia ha un certo bisogno di esser trattata con più delicatezza. Raccomandiamola a quel dio178 protettore della salute e della saggezza, ma gaia e socievole:

Frui paratis et valido mihi,

Latoe, dones, et, precor, integra

Cum mente, nec turpem senectam

Degere, nec cythara carentem.III 179

 

I Attraverso varie prove dall’esperienza nacque l’arte: l’esempio mostrandoci la via

I soffriamo oggi per le leggi come un tempo per i crimini

I Tutto ciò che viene diviso fino al punto di diventar polvere è confuso

II È la dottrina che crea la difficoltà

I Un topo nella pece

I Così si vede, in un ruscello corrente, acqua dietro acqua correr senza fine, e così sempre, in un eterno andare, l’una che l’altra segue oppure fugge. Ora da questa quella viene spinta, da quella ora quest’altra è superata: sempre acqua va nell’acqua, eppure sempre è lo stesso ruscello e acqua diversa

I Con quale arte Dio governi il mondo, nostra dimora, dove si levi e dove tramonti la luna e come, congiungendo i suoi corni, ritorni piena ogni mese; di dove vengano i venti che dominano il mare e perché il soffio dell’Euro sorprenda, e quali acque formino senza cessa le nubi. Se verrà un giorno che distrugga la rocca del mondo: cercate, voi che l’inquietudine del mondo tormenta

I Come al primo soffio del vento il mare s’imbianca, poi si gonfia a poco a poco e solleva alte le onde e dal fondo dell’abisso si erge fino agli astri

I Niente è più vergognoso che dar la precedenza all’asserzione e all’approvazione sulla percezione e sulla conoscenza

II le cui membra indebolite, toccando la madre, si rinvigoriscono di nuova forza

I Sarebbe impossibile enumerarne tutte le specie e dirne i nomi

II Solo la saggezza è tutta intera rivolta a se stessa

I Quando un sangue migliore mi dava forza e l’invidiosa vecchiaia non mi aveva ancora sparso di bianco le tempie

I Che volesse essere ciò che è, e non desiderasse nulla di più

I Finalmente mi arrendo a una scienza utile

I Vuol farsi portare fino alla prima pietra miliare, consulta il suo libro per decidere l’ora; se l’angolo dell’occhio gli prude perché lo ha troppo stropicciato, chiede del collirio solo dopo aver controllato l’oroscopo

I Per sua natura, l’uomo è un animale pulito e delicato

II Vale dunque tanto la vita? Siamo costretti a rinunciare alle nostre abitudini e, per vivere, cessiamo di vivere. Dovrei considerare vivi quelli a cui è resa molesta l’aria che si respira e la luce che ci illumina?

I Quando Cupido rifulgeva volteggiandomi intorno, splendente nella sua tunica d’oro

II E ho combattuto non senza gloria

III E mi ricordo appena di essere arrivato fino a sei

IV Di qui il fetore sotto le ascelle, i peli precoci e la barba che stupì mia madre

I Dio, proteggimi da me stesso

I C’è una voce che si fa intendere, non per il suo volume ma per la sua caratteristica

I Indignati, se si impone a te solo una legge ingiusta

II Insensato, a che scopo questi desideri vani e puerili?

III Volendo rinforzare un edificio che rischia di crollare, lo si sostiene con puntelli nei punti pericolanti, ma viene infine il giorno in cui tutta la struttura si disgrega e i sostegni cadono con tutto il resto

I Solo quando non abbiamo meritato il male abbiamo il diritto di lamentarcene

I e pensate che è bello morire in armi

II Vivere, caro Lucilio, è combattere

III Le mie forze non mi permettono più di attendere su una soglia, esposto alle intemperie

I Né il contagio della mente malata m’infetta le membra

II Chi si meraviglia di incontrare un gozzuto nelle Alpi?

III Non c’è da meravigliarsi se gli uomini ritrovano in sogno le cose che li occupano nella vita, quelle che pensano, curano, vedono, quelle che fanno e che meditano quando sono svegli

I con le quali il lusso si diletta a disgustarsi delle ricchezze

II Se ti fai scrupolo di cenare con legumi in una modesta ciotola

I Un ventre ben regolato è una gran parte della libertà

I perfetta misura

II Tutto ciò che avviene secondo natura, deve essere considerato un bene

III Un colpo violento strappa la vita ai giovani; ai vecchi, è l’età stessa

I Se il vaso non è pulito, tutto quello che ci metti dentro inacidisce

I o uomini forti che spesso avete diviso con me le più dure prove, ora cacciate gli affanni col vino; domani riprenderemo la rotta sul vasto mare

I Colui che ha l’animo esperto, abbia esperto anche il palato

I l’effusione dell’anima nella letizia non è meno biasimevole della sua contrazione nel dolore

II La vita dello stolto è ingrata, agitata, tutta rivolta al futuro

I Come quei fantasmi che si dice volteggino dopo la morte o i sogni che illudono i nostri sensi addormentati

I Ritenendo di non aver fatto nulla finché rimanesse qualcosa da fare

II Il saggio ricerca avidamente le ricchezze naturali

III Tutto ciò che è secondo natura è degno di stima

I Bisogna entrare nella natura delle cose e scrutare a fondo le sue esigenze

II Chi esalta l’anima come sommo bene, e condanna la carne come male, certamente ama carnalmente l’anima e carnalmente fugge la carne poiché ne giudica secondo la vanità umana, non secondo la verità divina

III Non si può negare che sia proprio della stoltezza fare fiaccamente e controvoglia ciò che si deve fare e spingere il corpo in una direzione e l’anima nell’altra e dividersi fra gli impulsi più contrari

I È venerando gli dèi come superiori che puoi regnare

II Di tanto sei Dio di quanto ti riconosci uomo

III Ch’io possa godere dei beni che ho ed essere in buona salute e sano di mente, ecco ciò che ti chiedo di accordarmi, o figlio di Latona, e che la mia vecchiaia non sia turpe e non perda l’uso della lira

Saggi
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