CAPITOLO XVI

Della gloria

[A] C’è il nome e la cosa: il nome è un suono che designa e significa la cosa; il nome non è una parte della cosa né della sua sostanza: è un pezzo estraneo aggiunto alla cosa e fuori di essa. Dio, che è in sé ogni pienezza e il colmo di ogni perfezione, non può aumentare e accrescersi all’interno; ma il suo nome può aumentare e accrescersi per la benedizione e la lode che diamo alle sue opere esteriori. La quale lode, dato che non possiamo incorporarla in lui, perché in lui non vi può essere aggiunzione di bene, l’attribuiamo al suo nome, che è il dato più prossimo fuori di lui. Ecco com’è che a Dio solo spettano gloria e onore; e non c’è niente così fuor di ragione come il mettercene in cerca per noi stessi: infatti, essendo indigenti e bisognosi all’interno, perché la nostra essenza è imperfetta e ha continuamente bisogno di miglioramento, questo è ciò di cui dobbiamo occuparci. Siamo tutti cavi e vuoti: non è di vento e di suono che ci dobbiamo riempire; ci occorre della sostanza più solida per restaurarci. Un uomo affamato sarebbe davvero sciocco a cercar di provvedersi d’un bel vestito piuttosto che d’un buon pasto: bisogna badare a quello che più preme. Come dicono le nostre preghiere abituali, Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus.I 1 Siamo carenti di bellezza, salute, saggezza, virtù e tali qualità essenziali: gli ornamenti esterni si cercheranno dopo che avremo provveduto alle cose necessarie. La teologia tratta ampiamente e più acconciamente questo soggetto, ma io non vi sono molto versato.2

Crisippo e Diogene sono stati i primi e più decisi autori del disprezzo della gloria: e fra tutti i piaceri, dicevano che non ce n’era alcuno più pericoloso né più da fuggire di quello che ci viene dall’approvazione altrui. In verità, l’esperienza ce ne fa subire molte insidie assai dannose. Non c’è cosa che avveleni tanto i principi quanto l’adulazione, né cosa per cui i malvagi ottengano più facilmente credito presso di loro; né ruffianesimo tanto adatto e tanto usato per corrompere la castità delle donne come il pascerle e intrattenerle con lodi. [B] Il primo incantesimo che le sirene usano per abbindolare Ulisse è di questa specie,

Deçà vers nous deçà, ô très louable Ulysse,

Et le plus grand honneur dont la Grèce fleurisse.II 3

[A] Quei filosofi4 dicevano che tutta la gloria del mondo non meritava che un uomo d’ingegno tendesse nemmeno un dito per acquistarla:

[B]Gloria quantalibet quid erit, si gloria tantum est?III 5

[A] dico per se stessa. Poiché spesso trae seco molti vantaggi per i quali può rendersi desiderabile. Essa ci acquista benevolenza, ci rende meno esposti alle ingiurie e alle offese degli altri, e cose del genere.

Era anche uno dei principali dogmi di Epicuro: di fatto questo precetto della sua setta: OCCULTA LA TUA VITA,6 che vieta agli uomini d’impicciarsi delle cariche e faccende pubbliche, presuppone altresì necessariamente che si disprezzi la gloria: che è un’approvazione che il mondo dà alle azioni che mettiamo in evidenza. Colui che ci prescrive di nasconderci e di aver cura solo di noi stessi, e che non vuole che siamo conosciuti da altri, ancor meno vuole che ne siamo onorati e glorificati. Così consiglia a Idomeneo di non regolare in alcun modo le sue azioni sull’opinione o la reputazione comune, se non per evitare gli altri svantaggi accidentali che il disprezzo degli uomini potrebbe causargli. Questi discorsi sono, secondo me, infinitamente veri e ragionevoli. Ma noi siamo, non so come, doppi in noi stessi, e questo fa sì che quello che crediamo, non lo crediamo; e non possiamo liberarci di ciò che condanniamo. Guardiamo le ultime parole di Epicuro, che egli disse morendo: sono grandi e degne di un tale filosofo, eppure portano qualche segno della preoccupazione del suo nome e di quell’atteggiamento che egli aveva disapprovato con i suoi precetti. Ecco una lettera7 che dettò poco prima del suo ultimo respiro:

EPICURO A ERMACO SALUTE

«Mentre passavo il felice e, al tempo stesso, ultimo giorno della mia vita, scrivevo questo, accompagnato tuttavia da un tal dolore alla vescica e agli intestini che nulla si può aggiungere alla sua violenza. Ma esso era compensato dal piacere che recava alla mia anima il ricordo delle mie idee e dei miei ragionamenti. Ora tu, come richiede l’affetto che fin dalla fanciullezza hai portato a me e alla filosofia, occupati di proteggere i figli di Metrodoro». Ecco la sua lettera. E quello che mi fa pensare che questo piacere che egli dice di sentire nell’anima per le sue idee riguardi in qualche modo la fama che sperava di acquistarne dopo la morte, è la disposizione del suo testamento, per cui vuole che Aminomaco e Timocrate, suoi eredi, provvedano, per la celebrazione del suo natalizio, tutti i mesi di gennaio, alle spese che Ermaco ordinerà, e così alla spesa che si farà, il ventesimo giorno di ogni luna, per convitare i filosofi suoi amici che si riuniranno per onorare la sua memoria e quella di Metrodoro.

Carneade è stato capo dell’opinione contraria e ha sostenuto che la gloria era per se stessa desiderabile: allo stesso modo che siamo attaccati ai nostri discendenti per loro stessi, senza averne alcuna conoscenza né giovamento. Ovviamente quest’opinione è stata quella più comunemente seguita, come spesso lo sono quelle che più si adattano alle nostre inclinazioni. [C] Aristotele le attribuisce il primo posto fra i beni esteriori: «Evita, come due estremi viziosi, l’immoderatezza sia nel cercarla sia nel fuggirla».8 [A] Credo che se avessimo i libri che Cicerone aveva scritto su quest’argomento, ce ne racconterebbe delle belle: perché quell’uomo fu tanto forsennato in questa passione che se avesse osato, credo sarebbe facilmente caduto nell’eccesso in cui caddero altri, che la virtù stessa era desiderabile solo per l’onore che ne conseguiva,

Paulum sepultæ distat inertiæ

Celata virtus.I 9

Che è un’opinione tanto falsa che m’indispettisce che sia mai potuta entrare nella mente d’un uomo che avesse l’onore di portare il nome di filosofo.

Se questo fosse vero, non occorrerebbe esser virtuosi che in pubblico; e le operazioni dell’anima, in cui è la vera sede della virtù, non avremmo ragione di tenerle regolate e ordinate, se non in quanto dovessero venire a conoscenza di altri. [C] Non si tratta dunque che di peccare con astuzia e sottigliezza? «Se sai» dice Carneade10 «che un serpente è nascosto in quel luogo dove, senza badarci, va a sedersi colui dalla cui morte speri di trarre profitto, agisci da malvagio se non l’avverti; tanto più che la tua azione non deve esser conosciuta che da te». Se non attingiamo da noi stessi la legge di agir bene, se l’impunità ci è giustizia, a quante specie di malvagità dobbiamo abbandonarci ogni giorno? Quello che fece S. Peduceo, di restituire fedelmente le ricchezze che C. Plozio gli aveva affidato all’insaputa di altri, e quello che anch’io spesso ho fatto allo stesso modo, non lo trovo tanto lodevole quanto troverei esecrabile che vi avesse mancato. E trovo buono e utile a ricordarsi ai nostri giorni l’esempio di P. Sestilio Rufo, che Cicerone accusa di aver raccolto un’eredità contro la sua coscienza, non solo non contro le leggi, ma in conformità alle leggi stesse.11 E M. Crasso e Q. Ortensio i quali, chiamati da uno straniero, a causa della loro autorità e del loro potere, a succedere per una certa parte a un testamento falso, affinché per tal mezzo egli ne ricavasse la sua porzione, si accontentarono di non partecipare al falso, e non ricusarono di trarne qualche frutto, abbastanza garantiti se si tenevano al riparo dagli accusatori e dai testimoni e dalle leggi.12 Meminerint Deum se habere testem, id est (ut ego arbitror) mentem suam.II 13

[A] La virtù è cosa ben vana e frivola, se trae il suo pregio dalla gloria. Inutilmente tenteremmo di farle tenere il suo posto a parte, e la separeremmo dalla fortuna: di fatto, che cosa è più fortuito della fama? [C] Profecto fortuna in omni re dominatur: ea res cunctas ex libidine magis quam ex vero celebrat obscuratque.I 14 [A] Far sì che le azioni siano note e manifeste, è pura opera della fortuna. [C] È la sorte che ci decreta la gloria secondo la sua licenza. L’ho vista molto spesso precedere il merito. E spesso oltrepassare il merito di gran lunga. Colui che per primo si accorse della somiglianza dell’ombra alla gloria, fece meglio di quanto pensasse. Sono cose straordinariamente vane. Talvolta essa va anche davanti al proprio corpo, e talvolta lo supera di molto in lunghezza. [A] Quelli che insegnano ai nobili a non cercar nel valore altro che l’onore, quasi non sit honestum quod nobilitatum non sit,II 15 che altro ottengono se non d’insegnar loro a non arrischiarsi mai se non sono veduti, e a stare ben attenti che ci siano dei testimoni che possano riferire del loro valore? Mentre si presentano mille occasioni di agir bene senza poter essere notati. Quante belle azioni personali rimangono sepolte nella folla d’una battaglia? Chiunque si occupi di controllare gli altri durante una tale mischia non vi si impegna molto: e produce contro se stesso la testimonianza che porta sul comportamento dei compagni.

[C] Vera et sapiens animi magnitudo honestum illud quod maxime naturam sequitur, in factis positum, non in gloria, iudicat.III 16 Tutta la gloria che pretendo dalla mia vita, è averla vissuta tranquilla. Tranquilla non secondo Metrodoro o Arcesilao o Aristippo, ma secondo me. Poiché la filosofia non ha saputo trovare nessuna via per la tranquillità che fosse buona per tutti, ciascuno la cerchi per conto suo.

[A] A chi devono Cesare e Alessandro quest’infinita grandezza della loro fama, se non alla fortuna? Quanti uomini essa ha spento all’inizio del loro cammino, dei quali non abbiamo alcuna notizia, che vi avrebbero portato altrettanto coraggio di quelli, se la disgrazia della loro sorte non li avesse d’improvviso fermati sul nascere delle loro imprese? Non mi ricordo di aver letto che, fra tanti e così estremi pericoli, Cesare sia mai stato ferito. Mille sono morti per rischi minori del minimo di quelli che egli superò. Un numero infinito di belle azioni devono perdersi senza testimonianza prima che una torni a profitto. Non sempre si è sull’alto d’una breccia o alla testa d’un esercito, in vista del proprio generale, come su di un palco. Si è sorpresi fra la siepe e il fossato; bisogna tentar la fortuna contro una bicocca; bisogna snidare quattro miserabili archibugieri da un granaio; bisogna allontanarsi soli dalla truppa e agire da soli, secondo che se ne presenti la necessità. E se si fa attenzione, si vedrà che per esperienza accade che le occasioni meno illustri sono le più pericolose; e che nelle guerre che si sono avute ai tempi nostri, si sono perduti più gentiluomini in occasioni futili e poco importanti, e nella contesa di qualche bicocca, che in luoghi degni e onorevoli. [C] Chi ritiene la propria morte male spesa se non avvenga in un’occasione che gli dia lustro, invece di rendere illustre la sua morte, rende facilmente oscura la sua vita: lasciando sfuggire nel frattempo parecchie giuste occasioni di arrischiarsi. E tutte le giuste sono abbastanza illustri, poiché la coscienza le strombazza sufficientemente ad ognuno. Gloria nostra est testimonium conscientiæ nostræ.I 17 [A] Chi è uomo dabbene solo perché lo si verrà a sapere, e perché lo si stimerà di più dopo averlo saputo; chi non vuole agir bene se non a condizione che la sua virtù venga a conoscenza degli uomini, costui non è uomo dal quale si possa trarre molto profitto.

Credo che ’l resto di quel verno cose

Facesse degne di tenerne conto;

Ma fur sin a quel tempo sì nascose,

Che non è colpa mia s’or non le conto:

Perché Orlando a far opre virtuose,

Più ch’a narrarle poi, sempre era pronto,

Né mai fu alcun de li suoi fatti espresso,

Se non quando ebbe i testimoni apresso.18

Bisogna andare in guerra per dovere, e aspettarne quella ricompensa che non può mancare a ogni bella azione, per occulta che sia, e nemmeno ai pensieri virtuosi: è la soddisfazione che una coscienza ben regolata riceve in sé dall’agir bene. Bisogna essere valorosi per se stessi, e per il vantaggio che deriva dall’avere dato al proprio coraggio un assetto saldo e sicuro contro gli assalti della fortuna:

[B]Virtus, repulsæ nescia sordidæ,

Intaminatis fulget honoribus,

Nec sumit aut ponit secures

Arbitrio popularis auræ.I 19

[A] Non è per mostra che la nostra anima deve rappresentare la sua parte, è in noi, nel nostro intimo, dove nessun occhio penetra se non il nostro: qui essa ci difende dal timore della morte, dai dolori e perfino dalla vergogna; qui ci conforta della perdita dei nostri figli, dei nostri amici e dei nostri beni; e quando se ne presenta l’occasione, ci guida anche nei rischi della guerra. [C] Non emolumento aliquo, sed ipsius honestatis decore.II 20 [A] Questo profitto è ben più grande e ben più degno di essere desiderato e sperato che non l’onore e la gloria, che è soltanto un giudizio favorevole che si dà di noi. [B] Bisogna scegliere da tutto un popolo una dozzina d’uomini per giudicare uno iugero di terra; e il giudizio delle nostre inclinazioni e delle nostre azioni, la materia più difficile e più importante che ci sia, la rimettiamo alla voce del volgo e della turba, madre d’ignoranza, d’ingiustizia e d’incostanza. [C] È forse ragionevole far dipendere la vita d’un saggio dal giudizio dei pazzi? An quidquam stultius quam quos singulos contemnas, eos aliquid putare esse universos?III 21 [B] Chiunque miri a rendersi loro gradito, non è mai a fine; è un bersaglio che non ha forma né presa. [C] Nihil tam inæstimabile est quam animi multitudinis.IV 22 Demetrio diceva argutamente della voce del popolo, che non faceva più caso di quella che gli usciva dal di sopra che di quella che gli usciva dal di sotto.23 Quell’altro dice ancora di più: Ego hoc iudico, si quando turpe non sit, tamen non esse non turpe, quum id a multitudine laudetur.V 24 [B] Nessuna arte, nessuna duttilità di spirito potrebbe condurre i nostri passi dietro una guida tanto sviata e sregolata. In questo turbinio di voci, notizie e opinioni volgari che ci spingono, non si può stabilire alcun cammino valevole. Non proponiamoci un fine così fluttuante e vago: andiamo costantemente dietro alla ragione; che la pubblica approvazione ci segua per questa via, se vuole; e siccome dipende tutta dalla fortuna, non abbiamo alcuna ragione di aspettarla da un’altra via piuttosto che da questa. Quand’anche io non seguissi la dritta via per la sua dirittura, la seguirei avendo costatato per esperienza che in fin dei conti è generalmente la più felice e la più utile. [C] Dedit hoc providentia hominibus munus, ut honesta magis iuvarent.I 25 [B] Il marinaio antico diceva così a Nettuno in una gran tempesta: «O Dio, tu mi salverai se vuoi, mi perderai se vuoi, ma in ogni modo io terrò il timone sempre dritto».26 Ho visto al tempo mio mille uomini duttili, doppi, ambigui, e di cui nessuno dubitava che fossero più di me esperti del mondo, perdersi dove io mi sono salvato:

Risi successu posse carere dolos.II 27

[C] Paolo Emilio, partendo per la sua gloriosa spedizione di Macedonia, raccomandò al popolo di Roma soprattutto di tener ferma la lingua sulle sue azioni durante la sua assenza:28 poiché nelle grandi imprese la licenza dei giudizi è di gran disturbo. Di fatto, di fronte alle voci comuni, contrarie e ingiuriose, non tutti hanno la fermezza di Fabio, che preferì lasciare che la sua autorità fosse fatta a pezzi dalle vane fantasie della gente, piuttosto che assolvere meno bene il proprio incarico con reputazione favorevole e col consenso popolare.

[B] C’è non so qual naturale dolcezza nel sentirsi lodare, ma vi cediamo davvero troppo.

Laudari haud metuam, neque enim mihi cornea fibra est;

Sed recti finemque extremumque esse recuso

Euge tuum et belle.III 29

[A] Non mi curo tanto di quello che sono per gli altri, quanto di quello che sono in me stesso. Voglio essere ricco di mio, non per aver preso a prestito. Gli estranei non vedono che i fatti e le apparenze esterne: ognuno può far buon viso di fuori, essendo dentro di sé pieno di agitazione e di spavento. Essi non vedono il mio cuore, vedono solo il mio comportamento. Si ha ragione di biasimare l’ipocrisia che si vede in guerra: di fatto, che cosa c’è di più facile per un uomo accorto che schivare i pericoli e fare il feroce, pur avendo il cuore pieno di mollezza? Ci sono tanti modi di evitare le occasioni di mettersi a rischio personalmente, che possiamo ingannare mille volte la gente prima di impegnarci in un passo pericoloso; e anche allora, trovandoci impegolati, sapremo bene per quella volta coprire il nostro gioco con un volto fermo e un parlare sicuro, sebbene l’animo dentro ci tremi. [C] E se si potesse usare l’anello di Platone,30 che rendeva invisibile colui che lo portava al dito se lo si girava verso la palma della mano, molti spesso si nasconderebbero quando più bisogna farsi avanti, e si pentirebbero di essersi messi in una posizione tanto onorevole, nella quale è la necessità a renderli risoluti.

[A]Falsus honor iuvat, et mendax infamia terret

Quem, nisi mendosum et mendacem?I 31

Ecco come tutti quei giudizi che si danno sulle apparenze esterne sono straordinariamente incerti e dubbiosi; e non c’è testimone tanto sicuro quanto ciascuno lo è per se medesimo. [A2] In quelle apparenze quanti fantaccini abbiamo a compagni della nostra gloria? Colui che si tiene fermo in una trincea scoperta, che cosa fa che non facciano davanti a lui cinquanta poveri guastatori che gli aprono il passo e lo proteggono con i loro corpi per cinque soldi di paga al giorno?

[B]non, quicquid turbida Roma

Elevet, accedas, examenque improbum in illa

Castiges trutina: nec te quæsiveris extra.II 32

[A] Noi chiamiamo far grande il nostro nome il propagarlo e diffonderlo su parecchie bocche; vogliamo che vi sia ben accolto e che questo suo accrescimento gli torni a profitto: ecco quello che ci può essere di più scusabile in questo proposito. Ma l’eccesso di questa malattia arriva al punto che parecchi cercano di far parlare di sé a qualunque costo. Trogo Pompeo dice di Erostrato,33 e Tito Livio di Manlio Capitolino,34 che erano più desiderosi di grande che di buona reputazione. Questo vizio è comune. Ci curiamo più che si parli di noi che di come se ne parla; e ci basta che il nostro nome corra sulla bocca degli uomini, in qualsiasi modo ci corra. Sembra che l’essere conosciuto sia in un certo senso avere la propria vita e la propria rinomanza in custodia altrui. Quanto a me, ritengo di non essere che in me stesso; e quanto a quell’altra mia vita che risiede nella conoscenza dei miei amici, [C] considerandola nuda e semplicemente in se stessa, [A] so bene che non ne traggo frutto né godimento se non per la vanità di un’opinione chimerica. E quando sarò morto, ne risentirò ancor meno gli effetti [C] e addirittura perderò del tutto l’uso dei veri vantaggi che talvolta accidentalmente la seguono: [A] non avrò più presa per afferrare la fama, né perché essa possa toccarmi e giungere a me. Di fatto, quanto all’aspettarmi che il mio nome la riceva… Prima di tutto non ho alcun nome che sia abbastanza mio: di due che ne ho, l’uno è comune a tutta la mia stirpe, anzi anche ad altre. C’è una famiglia a Parigi e a Montpellier che ha cognome Montaigne; un’altra in Bretagna e nella Saintonge, de La Montaigne. La caduta di una sola sillaba mescolerà i nostri stemmi, in modo che io parteciperò della loro gloria ed essi, per avventura, della mia vergogna. E inoltre i miei si sono un tempo chiamati Eyquem, cognome che appartiene anche a una casata conosciuta in Inghilterra. Quanto all’altro mio nome, appartiene a chiunque avrà voglia di prenderlo. Così onorerò forse un facchino al posto mio. E poi, quand’anche avessi un segno particolare per me, che mai può indicare quando io non ci sono più? Può forse designare e avvalorare il nulla?

[B]nunc levior cyppus non imprimit ossa?

Laudat posteritas: nunc non e manibus illis,

Nunc non e tumulo fortunataque favilla

Nascuntur violæ?I 35

[A] Ma di questo ho parlato altrove.36

Del resto, in tutta una battaglia in cui diecimila uomini vengono storpiati o uccisi, non ce ne sono quindici di cui si parli. Bisogna che sia qualche grandezza ben eminente, o qualche importante conseguenza che la fortuna vi abbia connesso, che faccia valere un’azione privata, non soltanto di un archibugiere, ma di un capitano. Di fatto uccidere un uomo, o due, o dieci, affrontare coraggiosamente la morte, è in verità qualcosa per ognuno di noi, poiché ci mettiamo tutti noi stessi; ma per la gente, sono cose tanto comuni, se ne vedono tante ogni giorno, e ce ne vogliono tante simili per produrre un effetto notevole, che non possiamo attendercene alcuna lode particolare,

[B]casus multis hic cognitus ac iam

Tritus, et e medio fortunæ ductus acervo.I 37

[A] Di tante e tante migliaia di uomini valorosi che sono morti in Francia da millecinquecento anni a questa parte, con le armi in pugno, non ce ne sono cento che siano venuti a nostra conoscenza. La memoria, non soltanto dei capi, ma anche delle battaglie e delle vittorie, è sepolta. [C] Le avventure di più della metà della gente, mancando chi le registri, non si muovono dal loro luogo e svaniscono senza durata. Se avessi in mio possesso gli eventi sconosciuti, rischierei con essi di soppiantare molto facilmente quelli conosciuti in ogni sorta d’esempi. [A] E che? se perfino dei Romani e dei Greci, fra tanti scrittori e testimoni, e tanti rari e nobili fatti, ne sono giunti così pochi fino a noi?

[B]Ad nos vix tenuis famæ perlabitur aura.II 38

[A] Sarà molto se, di qui a cent’anni, ci si ricorderà all’ingrosso che al nostro tempo ci sono state delle guerre civili in Francia. [B] Gli Spartani sacrificavano alle Muse andando in battaglia, affinché le loro gesta fossero scritte bene e degnamente, ritenendo che fosse un favore divino e non comune che le belle azioni trovassero dei testimoni che sapessero dar loro vita e memoria.39 [A] Pensiamo forse che per ogni archibugiata che ci tocca e per ogni rischio che corriamo, ci sia subito un cancelliere che lo registri? Oltre al fatto che potrebbero scriverne cento cancellieri, i cui commentari non dureranno che tre giorni e non verranno a conoscenza di nessuno. Non possediamo la millesima parte degli scritti antichi: è la fortuna che dà loro vita o più breve o più lunga, secondo il suo favore [C]; e di quello che ne abbiamo, ci è lecito dubitare che sia il peggio, non avendo visto il resto. [A] Non si fanno storie di cose tanto da poco: bisogna esser stato un capo tale da conquistare un impero o un regno, bisogna aver vinto cinquantadue battaglie campali, sempre più debole di numero, come Cesare. Diecimila buoni compagni e parecchi grandi capitani morirono al suo seguito, con valore e coraggio, i cui nomi hanno durato solo finché vissero le loro mogli e i loro figli,

[B]quos fama obscura recondit.I 40

[A] Anche di quelli che vediamo compiere belle azioni, tre mesi o tre anni dopo che sono morti non se ne parla più che se non fossero mai esistiti. Chiunque considererà con giusta misura e proporzione di quali persone e di quali fatti si conserva la gloria nella memoria dei libri, troverà che nel nostro secolo ci sono pochissime azioni e pochissime persone che vi possano pretendere qualche diritto. Quanti uomini virtuosi abbiamo visto sopravvivere alla loro stessa fama, i quali hanno visto e sofferto estinguersi sotto i loro occhi l’onore e la gloria legittimamente acquistati nei loro giovani anni? E per tre anni di questa vita fantastica e immaginaria vogliamo perdere la nostra vita vera ed essenziale, ed esporci a una morte perpetua? I saggi si propongono un fine più giusto e più bello per un’impresa di tanta importanza. [C] Recte facti, fecisse merces est.41 Officii fructus ipsum officium est.II 42 [A] Sarebbe forse scusabile per un pittore o un altro artigiano, o anche per un retore o un grammatico, affannarsi per acquistar fama con le proprie opere; ma le azioni della virtù sono troppo nobili per se stesse per cercare altra ricompensa che dal loro proprio valore, e particolarmente per cercarla nella vanità dei giudizi umani. Se tuttavia questa falsa opinione serve alla comunità per mantenere gli uomini nel loro dovere; [B] se il popolo ne è incitato alla virtù; se i principi sono colpiti vedendo il mondo benedire la memoria di Traiano ed esecrare quella di Nerone; se li tocca vedere il nome di quel gran ribaldo, un tempo tanto terribile e temuto, maledetto e oltraggiato con tanta libertà dal primo scolaro a cui viene in mente: [A] che essa si accresca vigorosamente e che la si alimenti fra noi quanto più si potrà. [C] E Platone, servendosi di qualsiasi cosa pur di rendere virtuosi i suoi cittadini, consiglia loro anche di non disprezzare la buona reputazione e la stima delle genti.43 E dice che per qualche divina ispirazione accade che perfino gli scellerati sappiano spesso, tanto a parole che nel pensiero, distinguere giustamente i buoni dai cattivi. Questo personaggio e il suo pedagogo sono meravigliosi e arditi artefici nel far arrivare le operazioni e rivelazioni divine dappertutto dove la forza umana fallisce: ut tragici poetæ confugiunt ad deum, cum explicare argumenti exitum non possunt.I 44 Per questo forse Timone lo chiamava per ingiuria: il gran fabbricatore di miracoli.45 [A] Poiché gli uomini, per la loro insufficienza, non possono ripagarsi abbastanza con una buona moneta, ci si serva anche della falsa.

Questo sistema è stato praticato da tutti i legislatori: e non c’è governo nel quale non vi sia qualche mescolanza o di vanità cerimoniosa o di opinione menzognera, che serva di briglia a mantenere il popolo nel dovere. È per questo che la maggior parte hanno origini e inizi favolosi, e arricchiti di misteri soprannaturali. È questo che ha dato credito alle religioni bastarde e le ha fatte tenere in onore da persone d’ingegno; ed è per questo che Numa e Sertorio, per rendere i loro uomini più devoti, li pascevano di questa sciocchezza, l’uno che la ninfa Egeria, l’altro che la sua cerva bianca gli comunicasse da parte degli dèi tutte le decisioni che prendeva. [C] E l’autorità che Numa dette alle sue leggi sotto il pretesto del patrocinio di quella dea, Zoroastro, legislatore dei Battriani e dei Persiani, la dette alle sue sotto il nome del dio Oromasi; Trismegisto, degli Egizi, di Mercurio; Zamolxi, degli Sciti, di Vesta; Caronda, dei Calcidi, di Saturno; Minosse, dei Candioti, di Giove; Licurgo, degli Spartani, d’Apollo; Dracone e Solone, degli Ateniesi, di Minerva. Ed ogni governo ha un dio a capo: falsi gli altri, vero quello che Mosè impose al popolo di Giudea uscito dall’Egitto. [A] La religione dei Beduini, come dice il signor de Joinville,46 contemplava fra le altre cose che l’anima di quello di loro che fosse morto per il proprio principe se ne andasse in un altro corpo più felice, più bello e più forte del primo: e in questo modo arrischiavano molto più volentieri la loro vita,

[B]In ferrum mens prona viris, animæque capaces

Mortis, et ignavum est redituræ parcere vitæ.II 47

[A] Ecco una credenza molto salutare, per quanto vana possa essere. Ogni popolo ha parecchi esempi simili; ma quest’argomento meriterebbe un discorso a parte. Per dire ancora una parola sul mio primo soggetto: non consiglio nemmeno alle dame di chiamare onore il loro dovere. [C] Ut enim consuetudo loquitur, id solum dicitur honestum quod est populari fama gloriosum.I 48 Il loro dovere è la sostanza, il loro onore è solo la scorza. Né consiglio loro [A] di darci questa scusa per compensarci del loro rifiuto; infatti presuppongo che le loro intenzioni, il loro desiderio e la loro volontà, che sono cose in cui l’onore non ha a che vedere, poiché non ne appare niente al di fuori, siano ancor più regolati delle azioni:

Quæ, quia non liceat, non facit, illa facit.II 49

L’offesa, e verso Dio e in coscienza, sarebbe altrettanto grande nel desiderarla che nel compierla. E poi sono azioni per se stesse nascoste e occulte; sarebbe facile sottrarne qualcuna alla conoscenza altrui, da cui dipende l’onore, se non avessero altro rispetto per il loro dovere e per l’attaccamento che portano alla castità per se stessa.

[C] Ogni persona d’onore sceglie di perdere piuttosto il proprio onore, che di perdere la propria coscienza.

 

I Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace agli uomini sulla terra

II A noi qui vieni, o molto illustre Ulisse, e sommo onor di cui Grecia risplenda

III La gloria, per quanto sia grande, che cosa sarà se è soltanto gloria?

I La virtù nascosta differisce poco dall’inerzia oscura

II Si ricordino che hanno Dio a testimone, cioè, secondo come io l’interpreto, la loro coscienza

I Certo la fortuna domina su tutte le cose: e le innalza e le abbassa più secondo il suo capriccio che secondo la verità

II come se non fosse virtuoso ciò che non è celebre

III Un animo grande e veramente saggio ritiene che il bene più conforme alla natura risieda nelle azioni, non nella gloria

I La nostra gloria è la testimonianza della nostra coscienza

I La virtù, indifferente all’onta dello smacco, rifulge di onori incontaminati, né prende o depone le scuri ad arbitrio della voce popolare

II Non per qualche profitto, ma per l’onore della virtù stessa

III C’è forse qualcosa di più sciocco che disprezzare i singoli e farne caso quando sono in massa?

IV Niente è tanto imprevedibile quanto il giudizio della folla

V Ritengo che una cosa, anche se non è vergognosa, tuttavia non può non esserlo quando è lodata dalla moltitudine

I La provvidenza ha fatto agli uomini questo dono, che le cose oneste sono anche le più giovevoli

II Ho riso vedendo che gli inganni potevano non riuscire

III Non eviterò la lode, le mie fibre non sono insensibili; ma nego che lo scopo ultimo del bene siano i tuoi “bravo” e “bello”

I Chi è sensibile a false lodi e teme la calunnia, se non colui che è malvagio e mentitore?

II non seguire i giudizi della turbolenta Roma, e non raddrizzare l’ago inesatto della sua bilancia: non cercarti fuori di te stesso

I forse che ora il cippo è peso più lieve alle ossa? La posterità lo loda: forse che ora da quei Mani, dal tumulo e dalle ceneri felici nascono viole?

I è una cosa accaduta a molti altri, banale, e presa dal mucchio delle possibilità della fortuna

II Appena un leggero soffio porta fino a noi il loro nome

I che un’oscura gloria nasconde

II La ricompensa di una buona azione è l’averla fatta. Il frutto di un servigio è il servigio stesso

I come i poeti tragici ricorrono a un dio quando non sanno trovare uno scioglimento alla loro tragedia

II Il cuore pronto a correre alle armi, l’animo capace di morire, e il sentimento che è vile risparmiare una vita che dovrà ritornare

I Come, nel linguaggio comune, si chiama onesto solo ciò che è reputato nell’opinione del popolo

II Cede colei che si rifiuta perché non è permesso cedere

Saggi
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