CAPITOLO XXXIX
Della solitudine
[A] Lasciamo da parte il vecchio confronto tra la vita solitaria e l’attiva. Quanto poi a quel bel detto sotto il quale si nascondono l’ambizione e la cupidigia, cioè che non siamo nati per la nostra vita privata, ma per quella pubblica, rimettiamoci coraggiosamente a quelli che sono in ballo; e ne risponda la loro coscienza1 se, al contrario, i gradi, le cariche e tutti gli intrighi del mondo non si ricercano piuttosto per trarre dal pubblico il proprio particolare profitto. I mezzi disonesti con i quali lo si persegue nel nostro secolo, mostrano bene che il fine non vale gran che. Rispondiamo all’ambizione che è proprio essa a darci il gusto della solitudine. Infatti, che altro fugge più della società, che altro cerca più della sua libertà? Si può fare del bene e del male dappertutto: tuttavia, se è vero il detto di Biante,2 che i cattivi sono la maggior parte, o quello che dice l’Ecclesiastico,3 che fra mille non ce n’è uno buono,
[B]Rari quippe boni: numero vix sunt totidem, quot
Thebarum portæ, vel divitis ostia Nili,I 4
[A] il contagio è pericolosissimo nella folla. Bisogna o imitare i viziosi o odiarli. Ambedue le cose sono pericolose, e assomigliar loro perché sono molti, e odiarne molti perché sono dissimili. [C] E i mercanti che vanno per mare hanno ragione di assicurarsi che coloro che entrano nello stesso vascello non siano dissoluti, bestemmiatori, malvagi, ritenendo che la loro compagnia porti sventura. Perciò Biante, a quelli che si trovavano con lui in pericolo per una grande tempesta e invocavano il soccorso degli dèi, argutamente: «Tacete», fece «che non sentano che siete qui con me».5 E, esempio ancora più calzante, Albuquerque, viceré delle Indie per il re Emanuele di Portogallo, trovandosi in estremo pericolo per una tempesta sul mare, prese sulle spalle un giovinetto, al solo fine che nella comunanza della loro sorte la sua innocenza gli servisse di garanzia e di raccomandazione alla clemenza divina, per esser condotto in salvo.6 [A] Non che il saggio non possa vivere contento dovunque, e non possa esser solo in mezzo alla folla di un palazzo; ma se deve scegliere, ne fuggirà, egli dice,7 perfino la vista. Se è necessario, sopporterà quello; ma, se sta in lui, sceglierà quest’altro. Non gli sembra di essersi abbastanza liberato dai vizi, se deve ancora lottare contro quelli degli altri. [B] Caronda puniva come malvagi coloro di cui era provato che frequentavano cattive compagnie.8 [C] Non c’è cosa tanto poco socievole e tanto socievole come l’uomo: questo per vizio, quello per natura. E non mi sembra che Antistene abbia risposto in modo soddisfacente a colui che gli rimproverava i suoi rapporti con i malvagi, dicendo che i medici vivevano pure fra gli ammalati;9 infatti, se sono utili alla salute dei malati, compromettono la propria con il contagio e con la vista continua e la pratica delle malattie.
[A] Ora, lo scopo, io credo, è sempre uno: vivere più piacevolmente e a proprio agio. Ma non sempre se ne cerca bene la strada. Spesso si pensa di aver abbandonato le preoccupazioni, e le abbiamo soltanto cambiate. Non c’è meno travaglio nel governo di una famiglia che in quello di un intero Stato. Di qualunque cosa l’anima si occupi, ne è tutta presa; e se le occupazioni domestiche sono meno importanti, non sono meno importune. Inoltre, per esserci liberati dalla corte e dal mercato, non siamo liberati dai principali tormenti della nostra vita,
ratio et prudentia curas,
Non locus effusi late maris arbiter, aufert.I 10
L’ambizione, la cupidigia, l’irresolutezza, la paura e le concupiscenze non ci abbandonano perché cambiamo contrada,
Et post equitem sedet atra cura.II 11
Esse ci seguono spesso fin nei chiostri e nelle scuole di filosofia. Né i deserti, né le grotte, né il cilicio, né i digiuni ce ne disfanno,
hæret lateri letalis arundo.III 12
Fu detto a Socrate che un tale non si era per niente emendato durante un viaggio: «Lo credo bene», diss’egli «si era portato con sé»:
Quid terras alio calentes
Sole mutamus? patria quis exul
Se in primo luogo non liberiamo noi stessi e la nostra anima dal peso che l’opprime, il movimento la schiaccerà ancora di più: come in una nave i carichi danno meno impiccio quando sono ben stivati. Fate più male che bene all’ammalato, facendogli cambiar posto. Cacciate più a fondo il male muovendolo, come i pali si conficcano più profondamente e si consolidano agitandoli e scuotendoli. Per cui non basta l’essersi allontanati dalla gente, non basta cambiar luogo, bisogna allontanarsi dalle inclinazioni comuni che esistono in noi: bisogna sequestrarsi e isolarsi da se stessi.
Nam luctata canis nodum arripit; attamen illi,
Cum fugit, a collo trahitur pars longa catenæ.I 14
Ci portiamo appresso le nostre catene. Questa non è libertà totale, volgiamo ancora gli occhi verso quello che abbiamo lasciato, ne abbiamo piena l’immaginazione.
Nisi purgatum est pectus, quæ prœlia nobis
Atque pericula tunc ingratis insinuandum:
Quantæ conscindunt hominem cuppedinis acres
Sollicitum curæ, quantique perinde timores,
Quidve superbia, spurcitia, ac petulantia, quantas
Efficiunt clades? quid luxus desidiesque.II 15
[A] Il nostro male ci afferra nell’anima: ora, essa non può sfuggire a se stessa,
In culpa est animus qui se non effugit unquam.III 16
Così bisogna ricondurla e rinchiuderla in sé. È la vera solitudine, della quale si può godere in mezzo alle città e alle corti dei re; ma la si gode più comodamente in disparte.
Ora, poiché ci accingiamo a vivere soli e a fare a meno della compagnia, facciamo sì che la nostra soddisfazione dipenda da noi. Sciogliamoci da tutti i vincoli che ci legano agli altri; conquistiamo davvero su noi stessi il potere di vivere soli e di vivere a nostro bell’agio. Stilpone era sfuggito all’incendio della sua città, in cui aveva perduto moglie, figli e patrimonio; Demetrio Poliorcete, vedendolo con volto impavido in mezzo a una sì grande rovina della sua patria, gli domandò se non ne avesse avuto danno. Rispose di no, e che, grazie a Dio, non vi aveva perduto niente del suo.17 [C] È quello che il filosofo Antistene diceva argutamente, che l’uomo doveva procurarsi provvigioni che galleggiassero sull’acqua e potessero a nuoto scampare con lui al naufragio.18 [A] Certo l’uomo di senno non ha perduto nulla se ha se stesso. Quando la città di Nola fu distrutta dai barbari, Paolino, che ne era vescovo, avendo perso tutto ed essendo loro prigioniero, pregava Dio così: «Signore, preservami dal sentire questa perdita, poiché tu sai che non hanno ancora toccato nulla di ciò che è mio».19 Le ricchezze che lo facevano ricco e i beni che lo facevano buono erano ancora intatti. Ecco che cosa vuol dire sceglier bene i tesori che possano essere esenti da danno, e nasconderli in luogo dove non vada alcuno e tale che non possa esser tradito che da noi stessi. Bisogna avere moglie, figli, sostanze, e soprattutto la salute, se si può, ma non attaccarvisi in maniera che ne dipenda la nostra felicità. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine. Là noi dobbiamo trattenerci abitualmente con noi stessi, e tanto privatamente che nessuna conversazione o comunicazione con altri vi trovi luogo; ivi discorrere e ridere come se fossimo senza moglie, senza figli e senza sostanze, senza seguito e senza servitori, affinché, quando verrà il momento di perderli, non ci riesca nuovo il farne a meno. Abbiamo un’anima capace di ripiegarsi in se stessa: può farsi compagnia, ha i mezzi per assalire e per difendere, per ricevere e per donare; non dobbiamo temere di marcire d’ozio noioso in questa solitudine,
[B]in solis sis tibi turba locis.I 20
[C] La virtù, dice Antistene, si contenta di se stessa: senza regole, senza parole, senza fatti.21
[A] Nelle nostre azioni abituali, fra mille non ce n’è una che ci riguardi. Colui che vedi arrampicarsi in cima alle rovine di quel muro, furioso e fuor di sé, bersaglio di tante archibugiate; e quell’altro, tutto pieno di cicatrici, intirizzito e pallido per la fame, deciso a crepare piuttosto che aprirgli la porta, pensi che lo facciano per se stessi? Lo fanno per un tale che forse non videro mai, e che non si dà alcuna pena del fatto loro, immerso frattanto nell’ozio e nelle delizie. E questi, tutto catarroso, cisposo e sporco, che vedi uscire dopo mezzanotte da uno studio, pensi forse che cerchi fra i libri come diventare migliore, più contento e più saggio? Niente affatto. O ci morirà, o insegnerà alla posterità la misura dei versi di Plauto e la vera ortografia d’una parola latina. Chi non scambierebbe volentieri la salute, il riposo e la vita con la fama e la gloria, la più inutile, vana e falsa moneta che sia in uso fra noi? La nostra morte non ci faceva abbastanza paura, carichiamoci anche di quella delle nostre mogli, dei nostri figli e dei nostri familiari. I nostri affari non ci davano abbastanza preoccupazione, mettiamoci anche a tormentarci e romperci la testa per quelli dei nostri vicini e amici,
Vah! quemquamne hominem in animum instituere, aut
Parare, quod sit charius quam ipse est sibi?I 22
[C] Mi sembra che la solitudine abbia giustificazione e ragione maggiori in coloro che hanno dato al mondo la loro età più attiva e fiorente, secondo l’esempio di Talete.23 [A] Abbiamo vissuto abbastanza per gli altri, viviamo per noi almeno quest’ultimo resto di vita. Riconduciamo a noi e al nostro piacere i nostri pensieri e le nostre intenzioni. Non è un’impresa di poco conto organizzare tranquillamente il proprio ritiro: questo ci occupa già abbastanza senza mescolarvi altre iniziative. Poiché Dio ci dà agio di disporre il nostro trasloco, prepariamoci, facciamo i bagagli, prendiamo congedo per tempo dalla compagnia, sciogliamoci da quelle violente strette che ci impegnano altrove e ci allontanano da noi stessi. Bisogna sciogliere quei legami così forti e d’ora in poi amare questa e quella cosa, ma sposare solo se stessi. Vale a dire: il rimanente sia nostro, ma non unito e incollato in modo che non lo si possa staccare senza scorticarci e strappar via insieme qualche pezzo di noi. La più grande cosa del mondo è saper essere per sé. [C] È tempo di staccarci dalla società, poiché non possiamo darle nulla. E chi non può prestare, eviti di prendere a prestito. Le forze ci mancano, ritiriamole e rinserriamole in noi. Chi può ricuperare e fondere in sé i doveri dell’amicizia e della compagnia, lo faccia. In questa caduta che lo rende inutile, pesante e importuno agli altri, si guardi dall’essere importuno e pesante e inutile a se stesso. Si lusinghi e si accarezzi e soprattutto si governi: rispettando e temendo la propria ragione e la propria coscienza, sicché non possa senza vergogna vacillare in loro presenza. Rarum est enim ut satis se quisque vereatur.II 24 Socrate dice che i giovani devono farsi istruire; gli uomini esercitarsi a ben fare; i vecchi ritirarsi da ogni occupazione civile e militare, vivendo a loro genio, senza esser legati ad alcun ufficio determinato.
[A] Vi sono temperamenti che si adattano meglio di altri a queste regole del ritiro. Quelli che hanno il comprendonio fiacco e debole, e un sentimento e una volontà delicata, tale che non si sottomette né si applica facilmente, fra i quali sono io e per disposizione naturale e per ragionamento, si piegheranno a questo consiglio meglio delle anime attive e affaccendate che abbracciano tutto e s’impegnano a tutto, che si appassionano ad ogni cosa; che si offrono, si presentano e si concedono in tutte le occasioni. Bisogna servirsi di questi vantaggi accidentali e a noi estranei nei limiti in cui ci sono graditi, senza farne però le nostre fondamenta essenziali: che tali non sono, né la ragione né la natura lo vogliono. Perché, contro le sue leggi, asserviremo la nostra soddisfazione all’altrui potere? Anticipare così i rovesci della sorte, privarci delle comodità che abbiamo in mano, come molti hanno fatto per devozione e qualche filosofo per ragionamento, servirsi da soli, dormire sulla nuda terra, cavarsi gli occhi, gettar nel fiume le proprie ricchezze, ricercare il dolore: quelli per acquistare, col tormento di questa vita, la beatitudine di un’altra; questi per garantirsi, collocandosi sul gradino più basso, da una nuova caduta: tutto questo è effetto di una virtù eccessiva. Le nature più severe e più forti rendano glorioso ed esemplare il loro stesso rifugio.
tuta et parvula laudo,
Cum res deficiunt, satis inter vilia fortis:
Verum ubi quid melius contingit et unctius, idem
Hos sapere, et solos aio bene vivere, quorum
Conspicitur nitidis fundata pecunia villis.I 25
Per me c’è già abbastanza da fare senza andar tanto avanti. Mi basta, quando ho il favore della fortuna, prepararmi al suo disfavore, e raffigurarmi, quando sto bene, il male a venire, per quanto l’immaginazione vi può arrivare. Come ci addestriamo alle giostre e ai tornei e simuliamo la guerra in piena pace. [C] Io non giudico il filosofo Arcesilao meno austero perché so che si serviva di utensili d’oro e d’argento, secondo che lo stato dei suoi beni glielo permetteva; e lo stimo più per averne usato con moderazione e liberalità, che se se ne fosse privato.26 [A] Vedo quali siano i limiti della necessità naturale; e considerando il povero mendicante alla mia porta, spesso più lieto e più sano di me, mi metto al suo posto: provo a rivestir la mia anima dei suoi panni. E passando rapidamente in rassegna altri esempi, benché io pensi che la morte, la povertà, il disprezzo e la malattia mi stanno alle calcagna, mi persuado facilmente a non spaventarmi di quello che uno da meno di me sopporta con tale pazienza. E non posso credere che la debolezza dell’intelletto possa più della sua vigoria. O che gli effetti del ragionamento non possano gareggiare con gli effetti dell’abitudine. E sapendo quanto poco siano sicure tali comodità accessorie, non tralascio, mentre ne godo appieno, di supplicare Dio, come suprema preghiera, che mi renda contento di me stesso e dei beni che nascono da me. Vedo dei giovani gagliardi che tuttavia portano nei loro bauli una quantità di pillole per servirsene quando saranno afflitti dal catarro, che temono meno in quanto pensano di avere in mano il rimedio. Così bisogna fare: e se ci si sente soggetti a qualche malattia più grave, provvedersi anche di quei medicamenti che calmano e addormentano la parte.
L’occupazione che bisogna scegliere per tal genere di vita dev’essere un’occupazione non faticosa né noiosa, altrimenti potremmo far conto di esser venuti a cercare il riposo per nulla. Questo dipende dal gusto particolare di ognuno: il mio non si adatta affatto all’amministrazione domestica. Coloro ai quali piace, devono applicarvisi con moderazione,
Conentur sibi res, non se submittere rebus.I 27
Altrimenti l’amministrazione domestica è un compito servile, come lo chiama Sallustio.28 Ha parti più accettabili, come la cura del giardinaggio che Senofonte attribuisce a Ciro;29 e si può trovare una via di mezzo fra questa cura bassa e vile, piena di tensione e di preoccupazioni, quale si vede negli uomini che vi si immergono completamente, e quella profonda ed estrema trascuratezza che lascia andare tutto in malora, che si vede in altri,
Democriti pecus edit agellos
Cultaque, dum peregre est animus sine corpore velox.II 30
Ma ascoltiamo il consiglio che dà Plinio il giovane a Cornelio Rufo, suo amico, a proposito appunto della solitudine: «Ti consiglio, nel ricco e agiato ritiro in cui ti trovi, di lasciare ai tuoi famigli la vile e abietta cura dell’amministrazione domestica, e applicarti allo studio delle lettere, per trarne qualcosa che sia tutto tuo».31 Intende dire la fama. Con disposizione analoga a quella di Cicerone, che dice32 di voler impiegare la sua solitudine e il suo riposo dagli affari pubblici per acquistarsi con i suoi scritti una vita immortale:
[B]usque adeone
Scire tuum nihil est, nisi te scire hoc sciat alter?I 33
[C] Sembra che sia ragionevole, poiché si parla di ritirarsi dal mondo, guardare altrove che ad esso: costoro non lo fanno che a metà. Preparano bene il loro piano per quando non ci saranno più; ma il frutto del loro disegno, pretendono di trarlo anche allora dal mondo, pur assenti, con una ridicola contraddizione. L’idea di coloro che, per devozione, cercano la solitudine, riempiendo la loro anima della certezza delle promesse divine nell’altra vita, è molto più sanamente concepita.34 Essi si pongono davanti Iddio, oggetto infinito e in bontà e in potenza: l’anima ha di che saziare i suoi desideri in piena libertà. Le afflizioni, i dolori tornano loro a profitto, impiegati all’acquisto d’una salute e d’una gioia eterna: la morte, secondo il loro desiderio, è il passaggio a uno stato perfetto. La durezza delle loro regole è subito temperata dall’assuefazione, e i desideri carnali sono respinti e assopiti dal loro rifiuto, poiché niente li alimenta se non l’uso e l’esercizio. Questo unico scopo di un’altra vita felicemente immortale merita, a ragione, che abbandoniamo gli agi e le dolcezze di questa nostra vita. E chi può infiammare la propria anima dell’ardore di questa viva fede e speranza, realmente e con costanza, si fabbrica nella solitudine una vita di piaceri e di delizie superiore a ogni altra forma di vita.
[A] Né il fine, dunque, né il mezzo di quel consiglio35 mi soddisfa: ricadiamo sempre dalla padella nella brace. Questa occupazione dei libri è faticosa quanto un’altra, e altrettanto nemica della salute, che si deve soprattutto tener presente. E non bisogna lasciarsi addormentare dal piacere che vi si prende: è questo stesso piacere che manda in perdizione l’uomo economo, l’avaro, il gaudente e l’ambizioso. I saggi ci insegnano abbastanza a stare in guardia contro il tradimento dei nostri desideri, e a discernere i piaceri veri e integri dai piaceri mescolati e screziati di più fastidi. Infatti la maggior parte dei piaceri, dicono, ci solleticano e ci abbracciano per strangolarci, come facevano i ladroni che gli Egizi chiamavano filisti.36 E se il dolor di testa ci venisse prima dell’ubriachezza, eviteremmo di bere troppo. Ma la voluttà, per ingannarci, cammina avanti e ci nasconde il suo seguito. I libri sono piacevoli; ma se per la familiarità con essi perdiamo infine l’allegria e la salute, nostri maggiori beni, abbandoniamoli. Io sono fra coloro che pensano che il loro frutto non può compensare questa perdita. Come quelli che da lungo tempo si sentono indeboliti da qualche indisposizione si riducono alla fine alla mercé della medicina, e si fanno prescrivere da tale arte precise regole di vita per non più oltrepassarle: così colui che si ritira, annoiato e disgustato dalla vita comune, deve conformare l’altra alle regole della ragione, ordinarla e regolarla con riflessione e ragionamento. Deve aver preso congedo da ogni sorta di lavoro, di qualsiasi genere. E fuggire in generale le passioni che impediscono la tranquillità del corpo e dell’anima, [B] e scegliere la strada che è più di suo gusto,
Unusquisque sua noverit ire via.I 37
[A] Alle cure domestiche, allo studio, alla caccia e a ogni altro esercizio, bisogna darsi fino agli estremi limiti del piacere, e guardarsi dall’andare oltre, dove comincia a frammischiarvisi il fastidio. Di faccende e occupazioni bisogna riservarsene solo quanto basta per tenersi in lena, e difendersi dagli inconvenienti che porta con sé l’altro estremo di un ozio fiacco e sonnolento. Vi sono scienze sterili e spinose, ed elaborate in massima parte per la moltitudine: bisogna lasciarle a quelli che sono al servizio del mondo. Quanto a me, non amo che i libri o piacevoli e facili, che mi solleticano, o quelli che mi consolano e mi consigliano a regolare la mia vita e la mia morte:
tacitum sylvas inter reptare salubres,
Curantem quidquid dignum sapiente bonoque est.II 38
I più saggi possono fabbricarsi un riposo tutto spirituale, avendo l’anima forte e vigorosa. Io che l’ho comune, devo aiutarmi e sostenermi con le comodità del corpo. E poiché l’età mi ha sottratto quelle che erano più di mio gusto, esercito e aguzzo il mio desiderio verso quelle che rimangono, più convenienti a quest’altra stagione. Bisogna trattenere con le unghie e con i denti l’uso dei piaceri della vita, che gli anni ci strappano dalle mani uno dopo l’altro:
[B]carpamus dulcia; nostrum est
Quod vivis: cinis et manes et fabula fies.I 39
[A] Ora, quanto al fine che Plinio e Cicerone ci propongono, cioè la gloria, è molto lontano dal fatto mio. Il sentimento più contrario al ritiro è l’ambizione. La gloria e il riposo sono cose che non possono stare sotto lo stesso tetto. A quanto vedo, costoro hanno solo le gambe e le braccia fuori della calca; la loro anima, la loro intenzione vi rimangono impegolate più che mai:
[B]Tun’, vetule, auriculis alienis colligis escas?II 40
[A] Si sono soltanto fatti indietro per saltare meglio e fendere con più forte slancio il folto della mischia. Volete vedere di quanto si sbaglino? Guardiamo, a confronto, il parere di due filosofi, e di due sette molto differenti, che scrivono l’uno a Idomeneo, l’altro a Lucilio, loro amici,41 per trarli alla solitudine dal maneggio degli affari e dalle grandezze. «Voi (dicono) avete vissuto nuotando e fluttuando fino ad ora, venite a morirvene in porto. Avete dato il resto della vostra vita alla luce, date questa all’ombra. È impossibile abbandonare le occupazioni se non ne abbandonate il frutto, perciò liberatevi da ogni preoccupazione di fama e di gloria. C’è il pericolo che lo splendore delle vostre azioni passate vi illumini fin troppo e vi segua fin nella vostra tana. Lasciate, con gli altri piaceri, quello che viene dall’approvazione altrui. E quanto al vostro sapere e alla vostra dottrina, non datevene pensiero, non perderanno il loro effetto se ve ne varrete meglio per voi stessi. Ricordatevi di quel tale che, a chi gli domandava perché si affannasse tanto in un’arte che non poteva venire a conoscenza di molti, rispose: “Ne ho abbastanza di pochi, ne ho abbastanza di uno, ne ho abbastanza di nessuno”. Diceva il vero: voi e un compagno siete pubblico sufficiente l’uno all’altro, o voi a voi medesimo. Che per voi la folla sia uno, e uno sia tutta una folla. È una vile ambizione voler trarre gloria dal proprio ozio e dal proprio ritiro. Bisogna fare come gli animali che cancellano le proprie tracce alla porta della tana. Non è più questo che dovete cercare, che il mondo parli di voi, ma come voi dobbiate parlare a voi stessi. Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi: sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi, se non vi sapete governare. C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia. Finché non vi sarete resi tali da non osar zoppicare davanti a voi stessi, e finché non avrete vergogna e rispetto di voi medesimi, obversentur species honestæ animo,I 42 tenete sempre presenti alla mente Catone, Focione e Aristide, alla presenza dei quali perfino i pazzi nasconderebbero i loro difetti, ed eleggeteli censori di tutte le vostre intenzioni: se queste deviano, il rispetto che portate loro le rimetterà sulla buona via. Essi vi terranno su questa strada di contentarvi di voi stessi, di non prendere a prestito che da voi, di fissare e rafforzare la vostra anima su pensieri determinati e limitati in cui possa compiacersi. E avendo compreso quali siano i veri beni, dei quali si gode a misura che si comprendono, accontentarsene, senza desiderare di prolungare né la propria vita né il proprio nome». Ecco il consiglio della vera e schietta filosofia, non di una filosofia ostentatrice e chiacchierona, come quella dei primi due.43
I I buoni sono rari: sono appena tanti quante sono le porte di Tebe o le bocche del fertile Nilo
I sono la ragione e la saggezza che ci tolgono gli affanni, non un luogo che domina una vasta distesa di mare
II E l’oscuro affanno siede dietro al cavaliere
III la freccia mortale rimane attaccata al fianco
IV Perché andiamo a cercare terre riscaldate da un altro sole? Chi, allontanandosi dalla patria, si allontana anche da se stesso?
I Ho spezzato le mie catene, dirai: come il cane, dopo una lunga lotta, spezza il nodo che lo tiene legato, tuttavia mentre fugge, trascina, attaccata al collo, una lunga parte della catena
II Se l’animo non è purificato, quante lotte e quanti pericoli dovremo affrontare nostro malgrado! Quante penose preoccupazioni, quanti timori tormentano l’uomo in preda alla passione! Quale rovina portano con sé l’orgoglio, la lussuria e l’ira! quale il lusso e la pigrizia!
III [Montaigne ha tradotto questo verso prima di citarlo]
I nella solitudine, sii per te stesso una folla
I Come può un uomo mettersi in testa o preoccuparsi di un essere che gli sia più caro di se stesso?
II È raro infatti che rispettiamo sufficientemente noi stessi
I quando la fortuna mi fa difetto, lodo una vita tranquilla e modesta e sono forte in mezzo ai disagi: ma se la sorte mi tratta meglio e con più abbondanza, dico che sono saggi e vivono bene solo coloro la cui ricchezza è fondata su belle terre
I Cerchino di subordinare le cose a sé, non se stessi alle cose
II Le greggi devastano i campi e le messi di Democrito, mentre l’animo, sciolto dal corpo, viaggia veloce
I e dunque sapere ciò che ti è proprio non è nulla, se un altro non sa che tu lo sai?
I Ciascuno vada per la via che ha scelto
II passeggiando silenzioso nei boschi salubri e occupandomi di ciò che è degno di un uomo saggio e virtuoso
I cogliamo i piaceri, nostro è il tempo della vita: non sarai che cenere e ombra e una vana parola
II Dunque, vecchio, raccogli alimento per gli orecchi altrui?
I che nobili immagini vi si presentino alla mente