CAPITOLO III

I nostri sentimenti vanno oltre noi stessi

[B] Coloro che accusano gli uomini di andar anelando sempre alle cose future, e ci insegnano ad impossessarci dei beni presenti e riposarci su di essi, perché non abbiamo alcun potere sulle cose a venire, anzi ancor meno di quanto ne abbiamo sulle cose passate, toccano il più comune degli errori umani. Se pur osano chiamare errore una cosa a cui la natura stessa ci induce, per servire alla continuazione della sua opera [C]: ispirandoci, più preoccupata del nostro agire che del nostro sapere, tale falsa immaginazione, come parecchie altre. [B] Noi non siamo mai in noi, siamo sempre al di là. Il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano verso l’avvenire, e ci tolgono il sentimento e la considerazione di ciò che è, per intrattenerci su ciò che sarà, quando appunto noi non saremo più. [C] Calamitosus est animus futuri anxius.I 1 In Platone2 si allega spesso questo gran precetto: «Fa’ i fatti tuoi e conosciti». Ognuno di questi due membri comprende generalmente tutto il nostro dovere: e allo stesso modo comprende anche l’altro membro. Chi dovesse fare i fatti suoi, vedrebbe che la prima regola è conoscere che cosa egli è e che cosa gli è proprio. E chi si conosce non prende più i fatti altrui per i propri: ama e coltiva se stesso sopra ogni altra cosa; rifiuta le occupazioni superflue e i pensieri e i discorsi inutili. Ut stultitia etsi adepta est quod concupivit nunquam se tamen satis consecutam putat: sic sapientia semper eo contenta est quod adest, neque eam unquam sui pœnitet.I 3 Epicuro dispensa il suo saggio dal prevedere l’avvenire e dal preoccuparsene.

[B] Fra le leggi che riguardano i trapassati, mi sembra molto fondata quella che stabilisce che si debbano esaminare le azioni dei principi dopo la loro morte. Essi sono compagni, se non signori delle leggi.4 Ciò che la giustizia non ha potuto sulle loro teste, è ragionevole che lo possa sulla loro reputazione e sui beni dei loro successori: cose che spesso preferiamo alla vita. È un’usanza che porta singolari vantaggi ai popoli che la osservano, ed è auspicabile da tutti i buoni principi [C] che a ragione si dolgono perché si tratta la memoria dei malvagi come la loro. Noi dobbiamo in ugual misura a tutti i re soggezione e obbedienza, in quanto spettano al loro ufficio: ma la stima, non diversamente dall’affetto, la dobbiamo soltanto alla loro virtù. Concediamo all’ordine politico di sopportar pazientemente la loro indegnità, di celare i loro vizi, di sorreggere col nostro sostegno le loro azioni mediocri quando la loro autorità ha bisogno del nostro appoggio. Ma finita la nostra relazione con loro, non c’è ragione di rifiutare alla giustizia e alla nostra libertà l’espressione dei nostri veri sentimenti. E specialmente di rifiutare ai buoni sudditi la gloria d’aver rispettosamente e fedelmente servito un signore le cui imperfezioni erano loro tanto ben conosciute: defraudando la posterità d’un così utile esempio. E quanti, per rispetto di qualche obbligo personale, si attaccano ingiustamente alla memoria d’un principe biasimevole, fanno una giustizia privata a spese della giustizia pubblica. Tito Livio dice5 il vero affermando che il linguaggio degli uomini cresciuti sotto la monarchia è sempre pieno di folli ostentazioni e vane testimonianze: perché tutti innalzano senza discernimento il proprio re al sommo grado di valore e grandezza sovrana. Si può biasimare la magnanimità di quei due soldati che dissero il fatto suo a Nerone. Uno, domandandogli questi perché gli volesse male: «Io ti amavo quando lo meritavi, ma dopo che sei diventato parricida, incendiario, commediante, cocchiere, ti odio come meriti». L’altro, richiestogli perché volesse ucciderlo: «Perché non trovo altro rimedio alle tue continue malvagità».6 Ma le pubbliche e universali testimonianze della sua tirannica e turpe condotta che sono state rese dopo la sua morte, e saranno rese in avvenire, quale persona di senno può biasimarle? Mi dispiace che in un ordinamento così santo come quello spartano si fosse introdotta una cerimonia tanto falsa. Alla morte dei re, tutti i confederati e i vicini, tutti gli iloti, uomini, donne, alla rinfusa, si ferivano la fronte in segno di lutto e gridando e lamentandosi dicevano che quello, comunque fosse stato, era stato il migliore di tutti i loro re:7 attribuendo al rango le lodi che spettavano al merito, e quelle che spettavano al sommo merito mettendole all’estremo ed ultimo posto.

Aristotele, che discute tutte le cose, si domanda, a proposito del detto di Solone che nessuno può esser chiamato felice prima d’essere morto, se quello stesso che ha vissuto ed è morto secondo giustizia possa esser detto felice quando la sua reputazione sia cattiva e la sua posterità miserabile.8 Finché siamo in vita, ci trasportiamo per prefigurazione dove vogliamo: ma quando siamo fuori dell’essere, non abbiamo alcuna comunicazione con ciò che è. E sarebbe meglio per Solone dire che dunque un uomo non è mai felice, poiché lo è soltanto dopo che non è più:

[B]quisquam

Vix radicitus e vita se tollit, et eiicit:

Sed facit esse sui quiddam super inscius ipse,

Nec removet satis a proiecto corpore sese, et

Vindicat.I 9

[A] Bertrand du Guesclin morì nell’assedio del castello di Rancon vicino al Puy in Alvernia. Gli assediati, essendosi poi arresi, furono costretti a portar le chiavi della piazzaforte sul corpo del morto.10 Bartolomeo d’Alviano, generale dell’esercito dei Veneziani, era morto guerreggiando per loro nel Bresciano; dovendo il suo corpo essere riportato a Venezia attraverso il Veronese, territorio nemico, la maggior parte di quelli dell’esercito erano del parere che si domandasse a quelli di Verona un salvacondotto per il passaggio. Ma Teodoro Trivulzio fu di parere contrario, e scelse piuttosto di attraversarlo a viva forza, a rischio d’un combattimento: poiché non si conveniva, diceva, che colui che in vita sua non aveva mai avuto paura dei nemici, da morto dimostrasse di temerli.11 [B] Invero, per portare un esempio simile a questo, secondo le leggi greche colui che domandava al nemico un corpo per inumarlo rinunciava alla vittoria, e non gli era più permesso alzarne il trofeo. Per colui che riceveva la richiesta, era un titolo di vantaggio. Fu in tal modo che Nicia perse la superiorità che aveva nettamente ottenuto sui Corinzi. E viceversa, Agesilao rafforzò quella che si era assai dubbiosamente procurata sui Beoti.12

[A] Tali fatti potrebbero sembrare strani se non si fosse ammesso in ogni tempo non solo di estendere la cura che abbiamo di noi al di là di questa vita, ma anche di credere che molto spesso i favori celesti ci accompagnino nella tomba, e si prolunghino nelle nostre spoglie. E di questo ci son tanti antichi esempi, lasciando da parte i nostri, che non c’è bisogno che mi dilunghi. Edoardo I, re d’Inghilterra, avendo sperimentato nelle lunghe guerre fra lui e Roberto, re di Scozia, quanto vantaggio arrecasse la sua presenza alle proprie imprese, poiché sempre riportava la vittoria in ciò che intraprendeva di persona, morendo, obbligò suo figlio con solenne giuramento a che, dopo la sua morte, facesse bollire il suo corpo per separare dalle ossa la carne, e questa la facesse seppellire; e quanto alle ossa, le conservasse per portarle con sé nel suo esercito ogni volta che gli accadesse d’essere in guerra contro gli Scozzesi.13 Come se il destino avesse fatalmente attaccato la vittoria alle sue membra. [B] Giovanni Zizka, che sconvolse la Boemia per difendere gli errori di Wycliffe, volle che dopo morto lo si scorticasse e che della sua pelle si facesse un tamburo da portare in guerra contro i suoi nemici: ritenendo che ciò sarebbe stato utile a perpetuare i vantaggi che aveva ottenuto nelle guerre da lui condotte contro di loro.14 Allo stesso modo alcuni Indiani portavano nei combattimenti contro gli Spagnoli le ossa di uno dei loro capi, in considerazione della fortuna che aveva avuto da vivo.15 E altri popoli di quello stesso mondo portano in guerra i corpi degli uomini valorosi che sono morti nelle battaglie, affinché servano loro come portafortuna e incoraggiamento.

[A] I primi esempi riservano alla tomba la sola reputazione acquistata dalle passate azioni di costoro; ma questi ultimi vogliono anche annettervi un potere attivo. L’episodio del capitano Baiardo è di miglior lega: questi, sentendosi ferito a morte da un’archibugiata in corpo, consigliato di ritirarsi dalla mischia, rispose che non avrebbe cominciato a volger le spalle al nemico proprio quando era prossimo alla fine. E avendo combattuto finché ebbe forza, sentendosi venir meno e cader da cavallo, comandò al suo maggiordomo di adagiarlo ai piedi d’un albero: ma in modo da morire col viso rivolto al nemico, come fece.16 Devo aggiungere quest’altro esempio, più notevole a questo riguardo di tutti i precedenti. L’imperatore Massimiliano, bisavolo del re Filippo17 che regna attualmente, era un principe dotato di numerose e grandi qualità, e fra l’altro di una singolare bellezza della persona. Ma fra tali caratteristiche aveva quest’altra, ben contraria a quella dei principi che per sbrigare gli affari più importanti fanno un trono della loro seggetta: cioè non ebbe mai un cameriere tanto privato da permettergli di vederlo al gabinetto. Si nascondeva per orinare, pudico come una fanciulla nel non scoprire né a un medico né a chicchessia le parti che abitualmente si tengono nascoste. [B] Io, così sfrontato a parole, tuttavia per natura condivido questa vergogna. A meno di non esservi proprio indotto dalla necessità o dalla voluttà, non svelo agli occhi di alcuno le membra e gli atti che le nostre usanze comandano di tener celati. Se vi sono costretto ne soffro più di quanto ritengo che si addica a un uomo. E soprattutto a un uomo della mia professione. [A] Ma lui arrivò a tale scrupolo che ordinò esplicitamente nel suo testamento che quando fosse morto gli si mettessero delle mutande. Doveva aggiungere in un codicillo che colui che gliele metteva avesse gli occhi bendati. [C] L’ordine dato da Ciro18 ai suoi figli, che né essi né altri vedessero e toccassero il suo corpo dopo che l’anima se ne fosse distaccata, l’attribuisco a qualche suo scrupolo religioso: infatti tanto il suo storico che lui, fra le loro grandi qualità, hanno dimostrato in tutto il corso della loro vita una cura e un rispetto singolare per la religione.

[B] Mi dispiacque ciò che un grande mi raccontò d’un mio parente, uomo di buona rinomanza e in pace e in guerra. Cioè che, morendo molto vecchio alla sua corte, tormentato dagli intollerabili dolori del mal della pietra, impiegò tutte le sue ultime ore a disporre con estrema cura le onoranze e la cerimonia del suo seppellimento, esigendo che tutti i nobili che gli facevano visita gli dessero la loro parola di assistere al suo trasporto. E supplicò insistentemente quel principe stesso, che lo vide nei suoi ultimi momenti, di ordinare a tutta la sua casa di presenziarvi: adducendo diversi esempi e ragioni per provare che era una cosa che si addiceva a un pari suo. E sembrò spirare contento dopo aver ottenuto tale promessa e aver disposto a suo piacimento la distribuzione e l’ordine del corteo funebre. Non ho mai visto una vanità tanto perseverante. Quest’altra bizzarria opposta, per la quale pure non mi mancano esempi nella mia casa, mi sembra sorella della precedente: di preoccuparsi e affannarsi in quegli ultimi istanti a ridurre il proprio trasporto a una particolare e inusitata parsimonia, a un servitore e a una lanterna. Vedo lodare tale atteggiamento, e l’ordine di Marco Emilio Lepido,19 che proibì ai suoi eredi di disporre per lui le cerimonie che erano d’uso in tali circostanze. È ancor forse temperanza e frugalità, evitare spese e piaceri il cui uso e la cui cognizione non ci toccano? Ecco una riforma facile e poco costosa. [C] Se vi fosse necessità di stabilire una norma, sarei del parere che in questa, come in ogni azione della vita, ognuno ne conformasse la regola alla dignità della sua condizione. E il filosofo Licone prescrive saggiamente ai suoi amici di mettere il suo corpo dove loro sembrerà meglio, e quanto ai funerali, di non farli né eccessivi né meschini.20 [B] Io lascerò semplicemente che l’uso regoli tale cerimonia; e mi rimetterò alla discrezione dei primi a cui toccherà di occuparsi di me. [C] Totus hic locus est contemnendus in nobis, non negligendus in nostris.I 21 E santamente è detto da un santo: Curatio funeris, conditio sepulturæ, pompa exequiarum magis sunt vivorum solacia quam subsidia mortuorum.II 22 Perciò Socrate risponde a Critone, che all’ora della sua fine gli domanda come vuol essere seppellito: «Come vorrete».23 [B] Se dovessi preoccuparmene oltre, troverei più di buon gusto imitar coloro che incominciano, vivi e vegeti, a goder dell’ordine e dell’onore della loro sepoltura. E si compiacciono di veder nel marmo il loro morto sembiante. Felici costoro che sanno rallegrare e lusingare i loro sensi con l’insensibilità, e vivere della propria morte.

[C] Poco ci manca ch’io non concepisca un odio irreconciliabile contro ogni governo popolare, benché mi sembri il più naturale ed equo, quando mi ricordo di quell’inumana ingiustizia del popolo ateniese, di far morire senza remissione, e senza nemmeno voler ascoltare la loro difesa, i suoi valenti capitani, che avevano appena vinto contro gli Spartani la battaglia navale presso le isole Arginuse, la più contestata, la più dura battaglia che i Greci abbiano mai dato in mare con le loro forze, perché dopo la vittoria avevano colto le occasioni che la legge della guerra offriva loro, piuttosto che fermarsi a raccogliere e inumare i loro morti. E il fatto di Diomedone rende questa esecuzione più odiosa. Costui è uno dei condannati, uomo di notevole valore sia militare sia politico: il quale, fattosi avanti per parlare, dopo aver udito la sentenza della loro condanna, e soltanto allora trovando il tempo di esser ascoltato con calma, invece di servirsene per il bene della sua causa e per denunciare l’ingiustizia evidente d’una decisione tanto crudele, manifestò solo preoccupazione per la sorte dei suoi giudici, pregando gli dèi di volgere a loro bene quel giudizio; e affinché per il mancato soddisfacimento dei voti che lui e i suoi compagni avevano formulato in riconoscenza d’una sì illustre fortuna, quelli non si attirassero l’ira degli dèi, li mise al corrente di quali voti fossero. E senza dir altro e senza mercanteggiare si avviò in tal modo coraggiosamente al supplizio.24 Alcuni anni dopo la sorte li punì rendendo loro pan per focaccia. Infatti Cabria, comandante generale dell’armata navale degli Ateniesi, avendo avuto la meglio nel combattimento contro Pollide, ammiraglio di Sparta, all’isola di Nasso, perse completamente il frutto della vittoria, assai importante per i loro interessi, per non incorrere nella disgrazia di quell’esempio.25 E per non perdere pochi cadaveri dei suoi amici che galleggiavano in mare, lasciò vogar via salvi un mucchio di nemici vivi, che in seguito fecero loro pagar cara questa inopportuna superstizione.

Quæris quo iaceas post obitum loco?

Quo non nata iacent.I 26

Quest’altro ridà il senso del riposo a un corpo senz’anima:

Neque sepulchrum quo recipiat, habeat portum corporis

Ubi, remissa humana vita, corpus requiescat a malis.II 27

Analogamente, la natura ci fa vedere che diverse cose morte hanno ancora occulte relazioni con la vita. Il vino si altera nelle cantine, secondo certi mutamenti delle stagioni della sua vigna. E la carne della selvaggina cambia consistenza e sapore nei salatoi, secondo le leggi della carne viva, a quanto si dice.

 

I Sventurato è l’animo preoccupato del futuro

I Come la stoltezza, anche se ha conseguito ciò che desiderava, tuttavia non si riterrà soddisfatta, così la saggezza è sempre contenta di ciò che è presente, né mai è insoddisfatta di sé

I uno pena a radicalmente strapparsi e distaccarsi dalla vita: ma suppone che una parte di lui gli sopravviva, pur senza saperlo, e non si distoglie né si libera a sufficienza dal corpo abbandonato

I Tutto questo dobbiamo disprezzarlo per noi, ma non trascurarlo per gli altri

II La cura dei funerali, la scelta della sepoltura, la pompa delle esequie sono più di consolazione ai vivi che di aiuto ai morti

I Ti domandi dove sarai dopo la morte? Dove sono i non nati

II Non abbia sepolcro per accoglierlo, né un porto dove, abbandonata la vita umana, il corpo riposi dalle sventure

Saggi
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