CAPITOLO XXXI

Dei cannibali

[A] Quando il re Pirro venne in Italia, dopo che ebbe osservato lo schieramento dell’esercito che i Romani gli mandavano contro, disse: «Non so che barbari siano questi (poiché i Greci chiamavano così tutti i popoli stranieri), ma la disposizione di quest’esercito che vedo non è affatto barbara».1 Lo stesso dissero i Greci di quello che Flaminio fece passare nel loro paese; [C] e così pure Filippo quando vide da un’altura l’ordine e la distribuzione dell’accampamento romano nel suo regno, sotto Publio Sulpicio Galba.2 [A] Ecco come bisogna guardarsi dall’aderire alle opinioni volgari, e come bisogna giudicarle con la ragione, non per quello che ne dice la voce comune.

Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o dodici anni in quell’altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo, nel luogo dove era sbarcato Villegagnon,3 e che aveva chiamato la Francia Antartica. Questa scoperta di un paese infinito sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenire qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa. Ho paura che abbiamo gli occhi più grandi del ventre, e più curiosità che capacità. Abbracciamo tutto, ma non stringiamo che vento. Platone4 ci presenta Solone che racconta di aver saputo dai sacerdoti della città di Sais in Egitto che una volta, prima del diluvio, c’era una grande isola, chiamata Atlantide, proprio davanti all’imboccatura dello stretto di Gibilterra, che era più grande dell’Africa e dell’Asia insieme; e che i re di quella contrada, che non possedevano soltanto quell’isola, ma si erano spinti tanto avanti nella terraferma che occupavano l’Africa in larghezza fino all’Egitto, e l’Europa in lunghezza fino alla Toscana, si accinsero ad avanzare fino all’Asia e soggiogare tutti i popoli che sono sulle rive del mar Mediterraneo fino al golfo del mar Maggiore;5 e a questo scopo attraversarono la Spagna, la Gallia, l’Italia, fino in Grecia, dove gli Ateniesi li respinsero; ma qualche tempo dopo, e gli Ateniesi ed essi e la loro isola furono inghiottiti dal diluvio. È assai verosimile che quell’enorme furia d’acque abbia causato strani cambiamenti nelle zone abitate della terra; come si ritiene che il mare abbia separato la Sicilia dall’Italia,

[B]Hæc loca, vi quondam et vasta convulsa ruina,

Dissiluisse ferunt, cum protinus utraque tellus

Una foret,I 6

[A] Cipro dalla Siria, l’isola di Negroponte7 dalla terraferma della Beozia; e abbia unito altrove le terre che erano divise, colmando di limo e di sabbia le depressioni fra di esse,

sterilisque diu palus aptaque remis

Vicinas urbes alit, et grave sentit aratrum.II 8

Ma non sembra probabile che quell’isola sia questo mondo nuovo che abbiamo da poco scoperto: poiché essa toccava quasi la Spagna, e sarebbe un effetto incredibile d’inondazione avernela allontanata, com’è ora, di più di milleduecento leghe; oltre al fatto che le navigazioni dei nostri contemporanei hanno già quasi accertato che non è un’isola, bensì terraferma e continente, con l’India orientale da un lato, e le terre che sono sotto i due poli dall’altro; ovvero, se ne è separata, lo è per uno stretto e uno spazio così ridotto che non merita per questo di esser chiamata isola.

[B] Sembra che vi siano dei movimenti, gli uni naturali, gli altri convulsi, in questi grandi corpi come nei nostri. Quando considero la pressione che oggi il mio fiume di Dordogna esercita sulla riva destra con la sua corrente, e che in vent’anni è avanzato tanto e ha portato via le fondamenta a diversi edifici, vedo bene che è un moto straordinario: infatti, se avesse sempre proceduto con questo andamento o dovesse procedere così in avvenire, il volto del mondo ne sarebbe sconvolto. Ma i fiumi sono soggetti a cambiamenti: ora si espandono da una parte, ora dall’altra, ora si restringono. Non parlo delle inondazioni improvvise di cui conosciamo le cause. Nel Médoc, lungo il mare, mio fratello, signore d’Arsac, si vede seppellire una delle sue terre sotto le sabbie che il mare le rovescia davanti: la parte superiore di alcuni edifici è ancora visibile, i suoi fondi e i suoi domini son divenuti pascoli assai magri. Gli abitanti dicono che da qualche tempo il mare si spinge tanto avanti verso di loro che hanno perduto quattro leghe di terra. Quelle sabbie sono i suoi forieri; [C] e vediamo grandi dune mobili che avanzano di mezza lega e guadagnano terra.

[A] L’altra testimonianza antica, alla quale si vuol riferire questa scoperta, si trova in Aristotele, almeno se quel libriccino sulle meraviglie inaudite è suo. Egli vi narra che alcuni Cartaginesi, spintisi sul mare Atlantico, fuori dello stretto di Gibilterra, e avendo navigato a lungo, avevano infine scoperto una grande isola fertile, tutta ricoperta di boschi e irrigata da grandi e profondi fiumi, lontanissima da ogni terraferma; e che essi, ed altri in seguito, attirati dalla bontà e dalla fertilità del terreno, vi si recarono con le loro donne e i bambini, e cominciarono a installarvisi. I signori di Cartagine, vedendo che il loro paese si stava a poco a poco spopolando, proibirono espressamente, sotto pena di morte, che vi si recassero altri, e ne scacciarono quei nuovi abitanti, temendo, a quanto dicono, che col tempo si moltiplicassero al punto di soppiantarli e di mandare in rovina il loro Stato. Questo racconto di Aristotele non ha più relazione del precedente con le nostre terre nuove.

Quell’uomo che stava da me era un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera: poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincervene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non aver di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio; e oltre a questo, mi ha mostrato in diverse occasioni parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto in quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni,9 senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. A noi occorrerebbero dei topografi che ci descrivessero nei particolari i luoghi dove sono stati. Ma avendo su di noi il vantaggio di aver veduto la Palestina, vogliono arrogarsi il privilegio di darci notizie di tutto il resto del mondo. Vorrei che ognuno scrivesse quel che sa, e quanto ne sa, non solo in questo, ma su tutti gli altri argomenti: poiché uno può avere qualche particolare cognizione o esperienza della natura di un corso d’acqua o di una sorgente, e sapere per il resto solo quello che tutti sanno. Tuttavia, per divulgare questa sua nozioncella, si metterà a scrivere tutta la fisica. Da questo vizio nascono parecchi grossi inconvenienti.

Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e deviati dalla regola comune che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. [C] E nondimeno il sapore medesimo e la delicatezza di diversi frutti di quelle regioni, che non sono stati coltivati, sembrano eccellenti al nostro gusto, in confronto ai nostri. [A] Non c’è ragione che l’arte guadagni il punto d’onore sulla nostra grande e potente madre natura. Abbiamo tanto sovraccaricato la bellezza e la ricchezza delle sue opere con le nostre invenzioni, che l’abbiamo soffocata del tutto. Tant’è vero che dovunque riluce la sua purezza, essa fa straordinariamente vergognare le nostre vane e frivole imprese,

[B]Et veniunt ederæ sponte sua melius,

Surgit et in solis formosior arbutus antris,

Et volucres nulla dulcius arte canunt.I 10

[A] Tutti i nostri sforzi non possono arrivare nemmeno a riprodurre il nido del più piccolo uccellino, la sua tessitura, la sua bellezza e l’utilità del suo uso; e nemmeno la tela del miserabile ragno. [C] Tutte le cose, dice Platone,11 sono prodotte dalla natura, o dal caso, o dall’arte. Le più grandi e le più belle, dall’una o dall’altra delle due prime cause; le più piccole e imperfette, dall’ultima. [A] Quei popoli dunque mi sembrano barbari in quanto sono stati in scarsa misura modellati dallo spirito umano, e sono ancora molto vicini alla loro semplicità originaria. Li governano sempre le leggi naturali, non ancora troppo imbastardite dalle nostre; ma con tale purezza, che talvolta mi dispiace che non se ne sia avuta nozione prima, quando c’erano uomini che avrebbero saputo giudicarne meglio di noi. Mi dispiace che Licurgo e Platone non ne abbiano avuto conoscenza; perché mi sembra che quello che noi vediamo per esperienza in quei popoli oltrepassi non solo tutte le descrizioni con cui la poesia ha abbellito l’età dell’oro, e tutte le sue immagini atte a raffigurare una felice condizione umana, ma anche la concezione e il desiderio medesimo della filosofia. Essi non poterono immaginare una ingenuità tanto pura e semplice quale noi vediamo per esperienza; né poterono credere che la nostra società potesse mantenersi con così pochi artifici e legami umani. È un popolo, direi a Platone, nel quale non esiste nessuna sorta di traffici, nessuna conoscenza delle lettere, nessuna scienza dei numeri, nessun nome di magistrato, né di gerarchia politica, nessuna usanza di servitù, di ricchezza o di povertà, nessun contratto, nessuna successione, nessuna spartizione, nessuna occupazione se non dilettevole, nessun rispetto della parentela oltre a quello ordinario, nessun vestito, nessuna agricoltura, nessun metallo, nessun uso di vino o di grano. Le parole stesse che significano menzogna, tradimento, dissimulazione, avarizia, invidia, diffamazione, perdono, non si sono mai udite. Quanto lontana da questa perfezione egli troverebbe la repubblica che ha immaginato: [C] viri a diis recentes.I 12

[B]Hos natura modos primum dedit.II 13

[A] Quanto al resto, essi vivono in una contrada piacevolissima e dal clima temperato: sicché, a quanto mi hanno detto i miei testimoni, è raro vedere un uomo malato; e mi hanno assicurato di non averne visto alcuno tremolante, cisposo, sdentato o curvo per la vecchiaia. Vivono lungo il mare, protetti dalla parte della terra da grandi ed alte montagne; fra queste e quello occupano una pianura larga circa cento leghe. Hanno grande abbondanza di pesce e di carni che non somigliano affatto alle nostre, e le mangiano senza altro accorgimento che la cottura. Il primo che condusse là un cavallo, sebbene fosse venuto a contatto con loro in parecchi altri viaggi, fece loro tanto orrore con quella montura che lo uccisero a colpi di frecce prima di poterlo riconoscere. Le loro costruzioni sono molto lunghe, e capaci di contenere due o trecento anime; rivestite con la scorza di grandi alberi, toccano terra da un lato e si sostengono e si appoggiano l’una all’altra alla sommità, al modo di certi nostri granai la cui copertura scende fino a terra e serve di fiancata. Hanno del legno così duro che ne tagliano e ne fanno spade e graticole per cuocere i cibi. I loro letti sono di un tessuto di cotone, sospesi al tetto, come quelli delle nostre navi, a ognuno il suo; perché le donne dormono separate dai mariti. Si alzano col sole, e mangiano subito dopo essersi alzati, una volta per tutta la giornata: non fanno infatti altro pasto che quello. Non bevono allora, come Suida dice di certi altri popoli d’Oriente, che bevevano fuori dei pasti: bevono diverse volte durante il giorno, e a gara.14 La loro bevanda è ricavata da alcune radici, ed ha il colore del nostro chiaretto. La bevono solo tiepida; questa bevanda si conserva solo due o tre giorni; ha un gusto un po’ piccante, non dà alla testa, è salutare per lo stomaco e lassativa per chi non ci è assuefatto; è una bevanda molto gradevole per chi ne ha l’abitudine. Invece del pane usano una certa sostanza bianca, una specie di coriandro confettato. Io ne ho assaggiato: il sapore è dolce e un po’ scipito. Tutta la giornata la passano a danzare. I più giovani vanno a caccia delle bestie con l’arco. Una parte delle donne si occupa intanto a riscaldare la loro bevanda, e questo è il loro compito principale. Qualcuno dei vecchi, la mattina, prima che si mettano a mangiare, fa un sermone a tutti gli abitanti del capannone, passeggiando da un capo all’altro e ripetendo la stessa frase parecchie volte, finché ha finito il giro (poiché sono costruzioni lunghe ben cento passi). Egli raccomanda loro due sole cose: il valore contro i nemici e l’amore per le loro mogli. E non mancano mai di ripetere, come ritornello, questo motivo di gratitudine, che sono loro a mantenere calda e ben preparata la loro bevanda. In parecchi luoghi, e fra l’altro anche a casa mia, si può vedere la foggia dei loro letti, dei loro cordoni, delle spade e dei braccialetti di legno con cui si coprono i polsi nei combattimenti, e delle grandi canne, aperte da un capo, col suono delle quali segnano la cadenza mentre danzano. Sono rasati dappertutto, e si fanno la barba molto meglio di noi, senza altro rasoio che non sia di legno o di pietra. Credono che le anime siano eterne, e che quelle che si sono rese meritevoli di fronte agli dèi dimorino in quella parte del cielo dove si leva il sole; le maledette, dalla parte d’occidente.

Hanno non so quali preti e profeti, che si mostrano molto di rado al popolo, avendo dimora sulle montagne. Al loro arrivo si fa una gran festa e una solenne adunata di parecchi villaggi (ogni capannone, come l’ho descritto, forma un villaggio, e distano circa una lega francese l’uno dall’altro). Questo profeta parla loro in pubblico, esortandoli alla virtù e al dovere; ma tutta la loro scienza etica contiene solo questi due articoli, la fermezza in guerra e l’affetto verso le loro donne. Questi profetizza loro le cose a venire, e i risultati che devono sperare dalle loro imprese: li spinge alla guerra o li dissuade dal farla; ma a tale condizione, che se non indovina bene, e se accade loro diversamente da quanto egli ha predetto, è tagliato in mille pezzi, se riescono ad acchiapparlo, e condannato come falso profeta. Per questo, quello che si è sbagliato una volta non lo si vede più. [C] La divinazione è dono di Dio: ecco perché l’abusarne dovrebbe essere un’impostura punibile. Fra gli Sciti,15 quando gli indovini avevano sbagliato nelle predizioni, venivano stesi, mani e piedi incatenati, su una carretta piena di erica, tirata da buoi, e su questa venivano bruciati. Quelli che trattano le cose dipendenti dalle capacità umane sono scusabili una volta che hanno fatto quello che potevano. Ma quegli altri, che vengono a ingannarci con assicurazioni di una facoltà straordinaria che è al di fuori della nostra conoscenza, non bisogna forse punirli perché non mantengono la loro promessa, e per la temerità della loro impostura?

[A] Essi fanno guerra contro i popoli che sono al di là delle montagne, più addentro nella terraferma, e vanno in guerra tutti nudi, senza altre armi che archi o spade di legno appuntite da un capo, come le punte dei nostri spiedi. Straordinaria è la loro tenacia nei combattimenti, che non finiscono altro che con strage e spargimento di sangue; poiché fughe e panico non sanno che siano. Ognuno riporta come proprio trofeo la testa del nemico che ha ucciso, e l’appende all’ingresso della propria casa. Per molto tempo trattano bene i loro prigionieri, e con tutte le comodità che possono immaginare, poi quello che ne è il capo riunisce in una grande assemblea i suoi sodali; attacca una corda a un braccio del prigioniero [C] e lo tiene per un capo di essa, lontano di qualche passo per paura di esserne colpito, [A] e dà da tenere alla stessa maniera l’altro braccio al suo più caro amico; e tutti e due, alla presenza di tutta l’assemblea, l’ammazzano a colpi di spada. Fatto ciò, lo arrostiscono e lo mangiano tutti insieme, e ne mandano dei pezzi ai loro amici assenti. Non lo fanno, come si può pensare, per nutrirsene, come facevano anticamente gli Sciti; ma per esprimere una suprema vendetta. E che sia così lo prova il fatto che avendo visto i Portoghesi, i quali si erano uniti ai loro nemici, adottare contro loro medesimi, quando li prendevano, un altro genere di morte, cioè di seppellirli fino alla cintura e tirare contro il resto del corpo gran colpi di frecce, e poi impiccarli, pensarono che quei popoli di quest’altro mondo, che avevano diffuso la conoscenza di molti vizi fra i loro vicini, e che erano ben più grandi maestri di loro in ogni sorta di malizie, non usavano questa specie di vendetta senza ragione, e che doveva essere ben più dura della loro, e cominciarono ad abbandonare il loro uso antico per seguire questo. Non mi rammarico che noi rileviamo il barbarico orrore che c’è in tale modo di agire, ma piuttosto del fatto che, pur giudicando le loro colpe, siamo tanto ciechi riguardo alle nostre. Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martìri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci – come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa –, che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto. Crisippo e Zenone,16 capi della setta stoica, hanno pensato, è vero, che non ci fosse alcun male a servirsi della nostra carogna secondo i nostri bisogni, e a trarne nutrimento; come i nostri antenati, assediati da Cesare in Alesia, decisero di resistere agli assedianti che li affamavano mangiando i corpi dei vecchi, delle donne e di altre persone inutili alla lotta:

[B]Vascones, fama est, alimentis talibus usi

Produxere animas.I 17

[A] E i medici non rifuggono dal servirsene ad ogni uso per la nostra salute, sia all’interno che all’esterno; ma non si trovò mai opinione tanto dissennata da giustificare il tradimento, la slealtà, la tirannia, la crudeltà, che sono le nostre colpe abituali.

Possiamo dunque ben chiamarli barbari, in considerazione delle regole della ragione, ma non nei confronti di noi stessi, che li superiamo in ogni sorta di barbarie. La loro guerra è assolutamente nobile e generosa, e ha tutte le giustificazioni e tutta la bellezza che può avere questa malattia dell’umanità: tra loro essa non ha altro fondamento che la sola passione per il valore. Non lottano per la conquista di nuove terre, perché godono ancora di quell’ubertà naturale che li provvede senza lavoro e senza fatica di tutte le cose necessarie, con tale abbondanza che non hanno alcun interesse ad allargare i loro confini. E sono ancora nella felice situazione di desiderare solo quel tanto che le loro necessità naturali richiedono: tutto quello che va al di là è superfluo per loro. Generalmente, fra loro, quelli che hanno la medesima età si chiamano fratelli; figli, i più giovani, mentre i vecchi sono padri per tutti gli altri. Questi lasciano ai loro eredi in comune il pieno possesso dei beni indivisi, senz’altro titolo che quello puro e semplice che natura dà alle sue creature mettendole al mondo. Se i loro vicini passano le montagne per venire ad assalirli, e riportano la vittoria su di loro, la conquista del vincitore è la gloria, e il vantaggio di aver mostrato la propria superiorità per valore e coraggio: perché, del resto, non sanno che farsene dei beni dei vinti, e tornano al loro paese, dove non manca loro alcuna cosa necessaria, e non manca nemmeno quella grande qualità di saper felicemente godere della propria condizione e accontentarsene. Altrettanto fanno questi a loro volta. Non chiedono ai prigionieri altro riscatto che la confessione e il riconoscimento di essere vinti; ma non se ne trova nemmeno uno, in tutto un secolo, che non preferisca la morte all’abbandonare, sia nel contegno sia nelle parole, un punto soltanto della propria invincibile grandezza d’animo; non se ne vede uno che non preferisca essere ucciso e mangiato, piuttosto che chieder soltanto di non esserlo. Tengono i prigionieri in piena libertà, perché la vita sia loro più cara; e spesso ricordano loro la minaccia di morte che li sovrasta e le torture che dovranno soffrire, i preparativi che si stanno facendo a questo fine, lo spezzettamento delle loro membra, e il banchetto che si farà a loro spese. Tutto questo si fa al solo scopo di strappar loro di bocca qualche parola debole o sottomessa o di far loro venire la voglia di fuggire, per avere il vantaggio di averli spaventati e di aver fatto violenza alla loro fermezza.

Infatti, a ben guardare, è in questo solo che consiste la vera vittoria:

[C]victoria nulla est

Quam quæ confessos animo quoque subiugat hostes.I 18

Gli Ungheresi, combattenti quanto mai bellicosi, un tempo non proseguivano il loro attacco oltre la resa del nemico alla loro mercé. Infatti, dopo avergli strappato questa confessione, lo lasciavano andare senza fargli del male, senza chiedere un riscatto, salvo, tutt’al più, farsi dare la parola che da allora in poi non avrebbe preso le armi contro di loro. [A] Noi riportiamo sui nostri nemici parecchi vantaggi che sono vantaggi presi a prestito, non propriamente nostri. È prerogativa di un facchino, non del valore, aver le braccia e le gambe più dure; una complessione robusta è una qualità inerte e fisica; è un colpo di fortuna far vacillare il nostro nemico e abbagliarne gli occhi con la luce del sole; è un tratto d’arte e di scienza, e che si può trovare anche in una persona vile e dappoco, essere abile nella scherma. Il merito e il pregio d’un uomo consistono nel cuore e nella volontà: è qui che risiede il suo vero onore; il valore sta nella saldezza non delle gambe e delle braccia, ma del coraggio e dell’animo; non consiste nella validità del nostro cavallo, né delle nostre armi, ma nella nostra. Colui che cade tenace nel suo coraggio, si succiderit, de genu pugnat;I 19 che davanti al pericolo di una morte vicina non perde nulla della propria risolutezza; che rendendo l’anima guarda ancora il suo nemico con sguardo fermo e sprezzante, non è vinto da noi, ma dalla sorte; è ucciso, non vinto. [B] I più valorosi sono a volte i più sfortunati. [C] Così vi sono sconfitte trionfali in confronto alle vittorie. E quelle quattro vittorie sorelle, le più belle che si siano mai viste sotto il sole, di Salamina, di Platea, di Micale, di Sicilia, non osarono mai opporre tutta la loro gloria riunita alla gloria della sconfitta del re Leonida e dei suoi al passo delle Termopili. Chi mai corse alla vittoria in una battaglia con brama più gloriosa e più ambiziosa di quella con cui il capitano Iscola corse alla sconfitta?20 Chi cercò di assicurarsi la salvezza con studio e cura maggiori di quelli con cui egli cercò la propria rovina? Gli era stata affidata la difesa di un certo passo del Peloponneso contro gli Arcadi. Ritenendo che gli sarebbe stato assolutamente impossibile farlo, vista la natura del luogo e la disparità di forze, e constatando che tutti coloro che avessero affrontato il nemico avrebbero dovuto necessariamente restarci; stimando, d’altra parte, indegno e del proprio valore e coraggio e del nome spartano mancare al suo incarico, fra questi due estremi scelse un partito medio, in questo modo. I più giovani e gagliardi della sua compagnia, li riserbò alla difesa e al servizio del loro paese, e ve li rimandò; e con quelli la cui perdita era meno grave decise di difendere quel passo e, al prezzo della loro morte, far pagare ai nemici più caro che fosse possibile il passaggio. Come infatti avvenne. Perché, trovandosi subito circondati da ogni parte dagli Arcadi, dopo averne fatto gran strage, lui e i suoi furono tutti passati a fil di spada. C’è forse un trofeo da assegnarsi ai vincitori, che non sia piuttosto dovuto a questi vinti? La vera vittoria ha per compito la battaglia, non la salvezza; e l’onore del valore sta nel combattere, non nel battere.

[A] Per tornare al nostro racconto, quei prigionieri son tanto lontani dall’arrendersi per tutto ciò che vien fatto loro che, anzi, nei due o tre mesi della loro cattività, mantengono un contegno gaio, sollecitano i loro dominatori perché si affrettino a metterli alla prova, li sfidano, li ingiuriano, rinfacciano loro la loro viltà e il numero delle battaglie perdute contro i propri compatrioti. Posseggo una canzone composta da un prigioniero, in cui si trova questo tratto: che vengano pure arditamente tutti quanti e si radunino per mangiarlo; mangeranno, così, al tempo stesso, i loro padri e i loro avi, che hanno servito di alimento e di nutrimento al suo corpo. «Questi muscoli» dice «questa carne e queste vene sono i vostri, poveri pazzi che siete; non vi rendete conto che dentro vi è ancora la sostanza delle membra dei vostri antenati: assaporateli bene, vi troverete il sapore della vostra stessa carne». Idea questa che non ha niente di barbarico. Quelli che li descrivono morenti, e che mostrano il momento in cui vengono ammazzati, descrivono il prigioniero che sputa in faccia a quelli che lo uccidono e fa loro gli sberleffi. In verità, fino all’ultimo respiro non cessano di provocarli e sfidarli con le parole e con l’atteggiamento. Sul serio, ecco degli uomini veramente selvaggi, al nostro confronto: perché bisogna o che essi lo siano davvero completamente, o che lo siamo noi; c’è una distanza enorme fra il loro modo d’essere e il nostro.

Gli uomini laggiù hanno parecchie mogli, e tante più ne hanno quanto maggiore è la loro fama di valorosi; c’è una cosa di notevole bellezza nei loro matrimoni, che la stessa cura gelosa che hanno le nostre mogli nell’impedirci l’amore e il favore di altre donne, le loro la ripongono nell’acquistarli ai mariti. Essendo più sollecite dell’onore del marito che di qualsiasi altra cosa, cercano e si studiano d’aver più compagne che possono, perché questa è prova del valore del marito. [C] Le nostre grideranno al miracolo; non è così: è questa una virtù propriamente matrimoniale, ma del più alto grado. E, nella Bibbia, Lia, Rachele, Sara21 e le mogli di Giacobbe fornirono le loro belle ancelle ai mariti; e contro il suo stesso interesse, Livia secondò i desideri di Augusto;22 e la moglie del re Deiotaro, Stratonica, non solo dette al marito, perché ne usasse, una giovane e bellissima ancella che la serviva, ma ne allevò con cura i figli, e li sostenne nella successione al padre.23

[A] E perché non si pensi che tutto questo si faccia per semplice e servile dovere verso le loro usanze, e sotto l’influsso dell’autorità dei loro antichi costumi, senza riflessione e senza giudizio, e perché hanno un animo tanto sciocco da non poter prendere un altro partito, è bene portare qualche esempio della loro sagacia. Oltre quello che ho sopra riportato di una delle loro canzoni di guerra, ne ho un’altra, d’amore, che comincia in questo modo: «Serpente, fermati; fermati, serpente, affinché mia sorella tragga dal modello della tua colorazione la foggia e la lavorazione d’una ricca cintura che io doni alla mia amica: così in ogni tempo la tua bellezza e la tua forma sia preferita a quella di tutti gli altri serpenti». Questa prima strofa è il ritornello della canzone. Ora, ho abbastanza dimestichezza con la poesia per giudicare che non solo non vi è nulla di barbarico in questa immagine, ma che è assolutamente anacreontica. La loro lingua, del resto, è una lingua dolce e dal suono gradevole, con cadenze somiglianti a quelle greche.

Tre di loro, non sapendo quanto costerà un giorno alla loro tranquillità e alla loro felicità la conoscenza della corruzione del nostro mondo, e che da questo commercio nascerà la loro rovina, che del resto suppongo sia già a uno stadio avanzato, assai da compatire per essersi lasciati ingannare dal desiderio della novità e aver abbandonato la dolcezza del loro cielo per venire a vedere il nostro, furono a Rouen, al tempo in cui c’era il defunto re Carlo IX.24 Il re parlò loro a lungo; fu loro mostrato il nostro modo di vivere, la nostra magnificenza, l’aspetto d’una bella città. Dopo di che qualcuno chiese il loro parere, e volle sapere che cosa avessero trovato di più ammirevole; essi risposero tre cose, di cui non ricordo più la terza, e me ne rammarico; ne ricordo però ancora due. Dissero che prima di tutto trovavano molto strano che tanti grandi uomini, con la barba, forti e armati, che stavano intorno al re (è probabile che parlassero degli Svizzeri della sua guardia), si assoggettassero a obbedire a un fanciullo, e che invece non si scegliesse piuttosto qualcuno di loro per comandare. In secondo luogo (hanno una maniera di parlare per cui chiamano gli uomini metà gli uni degli altri) che si erano accorti che c’erano fra noi uomini pieni e saturi di ogni sorta di agi, e che le loro metà stavano a mendicare alle porte di quelli, smagriti dalla fame e dalla povertà; e trovavano strano che quelle metà bisognose potessero tollerare una tale ingiustizia, e che non prendessero gli altri per la gola o non appiccassero il fuoco alle loro case. Parlai assai a lungo con uno di loro, ma avevo un interprete che mi seguiva tanto male e che si trovava così impacciato per la sua balordaggine a capire le mie idee, che non potei trarne quasi alcun piacere. Quando gli domandai che vantaggio ricavasse dalla superiorità di cui godeva fra i suoi (perché era un capo, e i nostri marinai lo chiamavano re) mi disse che era di marciare per primo in guerra; da quanti uomini era seguito, e mi mostrò un tratto di terreno, per significare che erano tanti quanti potevano stare in quello spazio, e potevano essere quattro o cinquemila uomini; se, fuori della guerra, tutta la sua autorità era finita, ed egli rispose che gli rimaneva questa, che quando visitava i villaggi che dipendevano da lui, gli si preparavano sentieri attraverso i cespugli dei boschi, per i quali potesse passare comodamente.

Tutto ciò non va poi tanto male: ma via, non portano calzoni!

 

I Si dice che queste regioni, divelte da un violento ed enorme sconvolgimento, siano state un tempo separate, mentre prima formavano un’unica terra

II per lungo tempo sterile palude battuta dai remi, alimenta le città vicine e sopporta il pesante aratro

I L’edera viene meglio senza esser coltivata, e il corbezzolo cresce più bello nelle grotte solitarie, e il canto degli uccelli è più dolce se manca d’artificio

I Uomini or ora usciti dalle mani degli dèi

II Queste sono le regole che la natura ha dato all’origine

I I Guasconi, si dice, facendo uso di tali alimenti, prolungarono la loro vita

I non è vittoria quella che non soggioga anche moralmente i nemici riconosciutisi vinti

I se è caduto, combatte in ginocchio

Saggi
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