Prefazione di Fausta Garavini
Il palazzo degli specchi
Chi entri una volta a Villa Palagonia, la famosa “villa dei mostri”, e dopo aver attraversato il recinto irto di orrido-comiche, inquietanti creature di pietra, si avventuri fino alla soglia del salone, non può che rimanere interdetto davanti alla moltiplicazione della propria immagine riflessa nella miriade di specchi e specchietti che foderano il soffitto. Assai più sconcertante doveva essere l’esperienza per i tanti e celebri viaggiatori che penetravano nella villa alla fine del Settecento, quando erano intatti i farneticanti decori ora ingiuriati dal tempo e dall’incuria, immiseriti in penoso degrado. Centuplicata la propria cangiante sembianza nelle infinite minutaglie di vetri e cristalli che pare rivestissero all’epoca ogni superficie, il candido visitatore perdeva probabilmente il senso dell’equilibrio, avvertendo una sorta di smarrimento dell’io.
È pressappoco la sensazione che può provare un lettore non proprio candido addentrandosi nei Saggi di Montaigne: che non sono, come si è creduto e ancora sovente si crede, un breviario di saggezza ben temperata, un prontuario di morale salutifera, ma lo specchio delle paure e delle difese di un essere che si scopre frammentario e diversificato. La metafora è talmente ovvia da peccare per banalità.
È infatti Montaigne stesso il soggetto di questo libro che si dichiara «consustanziale al suo autore»: soggetto mutevole, di cui appunto non l’essere si può descrivere, ma solo il passaggio, e un passaggio «di giorno in giorno, di minuto in minuto», adattando la descrizione al momento. Tale è l’instabilità dell’«umana condizione»: ognuno ne porta la «forma intera» (III, II), con tutte le sue variabili e virtualità, le cui realizzazioni dipendono però dal volgere degli eventi e dalla congenita turbolenza dell’individuo: «Non soltanto il vento delle occasioni mi agita secondo la sua direzione, ma in più mi agito e mi turbo io stesso per l’instabilità della mia posizione; e a guardar bene, non ci troviamo mai due volte nella stessa condizione. Io do alla mia anima ora un aspetto ora un altro, secondo da che parte la volgo. Se parlo di me in vario modo, è perché mi guardo in vario modo» (II, I). Con alcuni secoli di anticipo sulle ricerche della psicologia, Montaigne sperimenta come la personalità sia un aggregato provvisorio, incomprensibile e affascinante, di soggetti istantanei, un mosaico di io («il mio io di adesso e il mio io di poco fa, siamo certo due», III, IX) che variano secondo le contingenze.
Non per nulla i Saggi sono un’opera in divenire, in continua trasformazione. I due libri consegnati al tipografo per la prima volta nel 1580 (e ristampati con alcune aggiunte nel 1582), nella successiva edizione del 1588 si trovano accresciuti d’un terzo libro, non solo, ma intarsiati di più di seicento addizioni, che definirei propriamente aggiornamenti: via via che l’io muta – senza peraltro rinnegare la sua forma precedente – l’opera, sosia dell’io, dovrà mimarne le metamorfosi: «Qui miro soltanto a scoprire me stesso, e sarò forse diverso domani, se una nuova esperienza mi avrà mutato» (I, XXVI). Di fatto, sui margini di un esemplare dell’edizione del 1588 i Saggi continuano a scriversi, perché l’io di oggi possa dialogare con l’io di ieri, correggendo, confermando, sviluppando il già scritto. La morte dell’individuo, nel 1592, segna la fine di un’immensa frase interrotta accidentalmente. «Qui noi andiamo d’accordo e allo stesso passo, il mio libro ed io» (III, II). È forse possibile sentirsi e dirsi se stesso, uguale a sé, lungo tutto il percorso di un’esistenza?
È questa sfiducia assoluta nell’unità monolitica, identitaria dell’essere che giustifica e rende possibile l’anomalia della scrittura di Montaigne. Una scrittura della soggettività che non tende alla coagulazione dell’io ma ne riproduce la dissociazione in diversi poli di coscienza. Nessuna delle etichette di volta in volta evocate da una critica ansiosa di classificazioni (autobiografia? autoritratto?) è applicabile alla singolare complessità dei Saggi: il cui titolo, ad onta dell’equivoco secolare che intende l’opera come una raccolta di trattatelli di vario argomento, indica invece la prassi seguita da Montaigne, che mette alla prova il proprio giudizio, ne saggia le capacità di analisi e autoanalisi. La precisazione è indispensabile: essai (saggio) in Montaigne significa un atteggiamento mentale, non un’entità letteraria che coinciderebbe con le partizioni del libro, per le quali il solo termine appropriato, usato dall’autore, è chapitre (capitolo). Sicché si può dire, con André Tournon, che l’essai è operante in ogni capitolo, ma ogni capitolo non è un essai.
In questa prassi, ovviamente, gli argomenti trattati non hanno importanza: che la riflessione parta da un passo di Cicerone o di Plutarco, di Giusto Lipsio o di Cornelio Agrippa, che si parli di cose accadute o soltanto favoleggiate, il modo con cui Montaigne si avvicina a questo o quell’autore è la via d’accesso alla comprensione della sua propria condizione: «Non dico gli altri, se non per dirmi di più» (I, XXVI). Di conseguenza, citazioni e aneddoti sono spesso ritoccati e piegati a un nuovo senso: «Io ritorco una buona sentenza per cucirmela addosso ben più volentieri di quanto ritorca il mio filo per andarla a cercare» (ibid.). La pratica citazionale non è qui gusto d’erudizione, come nei centoni che andavano di moda (l’Officina di Ravisius Textor, gli Apophthegmata di Lycosthenes, il Theatrum vitæ humanæ di Theodor Zwinger, e altri zibaldoni di luoghi comuni), ancor meno ossequio a un’autorità – anzi, uso spregiudicato e al limite beffardo: «Fra tanti prestiti, sono ben lieto di poterne trafugare qualcuno, mascherandolo e deformandolo per un nuovo uso. A rischio di lasciar dire che è perché non ho capito il suo uso originario, gli do di mano mia qualche piega particolare, affinché in tal modo sia meno completamente estraneo» (III, XII). I libri forniscono inesauribile materia a ragionare e, di riverbero, a ragionare sui propri ragionamenti, in una sorta di cogitazione al quadrato, alla seconda potenza: «Il lavoro dell’essai frammenta il miraggio d’una identità oggettiva per dar consistenza al soggetto che si problematizza e si cerca, sotto forma di riflessi mutevoli delle sue stesse investigazioni» (André Tournon).
Non inganni il primo stadio dell’opera, con quei capitoli che nel 1580 sembrano puri repertori di fatti più o meno memorabili o di semplici fatterelli – azioni eroiche, episodi di crudeltà o di delirio, situazioni risibili – talvolta neppure accompagnati da un commento (che sarà eventualmente, ma non sempre, introdotto con le farciture ulteriori). Quelle brevi storie, spesso ellittiche, sono piccole scene che rappresentano altrettanti incontri fantasticati. «Il mondo, quale appare negli Essais, è un luogo di confronto e d’incontri, e la specificità del filosofo […] è di riflettere nella propria meditazione, come in uno specchio a faccette, quest’infinita diversità; quasi che la sua identità di pensatore facesse di lui, in primo luogo, un rivelatore di alterità» (ancora André Tournon). Nella folla di figure convocate nel libro – guerrieri, santi, banditi, imperatori, filosofi, lacchè – il soggetto si contempla impersonandosi nelle altrui vicende: l’aneddoto è in certo modo il luogo in cui si iscrive il fantasma dello scrittore. Pascal diceva che i due principali difetti di Montaigne erano che “raccontava troppe storie” e che “parlava troppo di sé”. Ma Pascal non sapeva che è la stessa cosa: la tendenza di Montaigne ad accumulare storie è ancora un modo di parlare di sé (ed è ai miei occhi una scoperta fondamentale). Ad ogni aneddoto è sotteso un implicito interrogativo: che cosa farei io, Michel de Montaigne, in circostanze analoghe? Interrogativo che riporta, ancora, al fine ultimo dell’impresa dei Saggi: qui saggiarsi è mettersi nei panni altrui, è cercar di vivere, attraverso gli altri, tutte le esperienze che non si possono vivere nel proprio quotidiano; è allargare la propria limitata esistenza reale nelle direzioni infinite delle proprie esistenze possibili, sperimentando situazioni diverse – diciamo così – per procura, per interposta persona.
Non è del resto la propria vita concreta che conta: «Non sono le mie azioni che descrivo, è me stesso, è la mia essenza» (II, VI). È, questa, un’intuizione folgorante che si traduce in programma di scrittura. Parlare di chiarezza, di lucidità straordinaria da parte di Montaigne, è dir poco: non conosco, a questa data, altri esempi consimili. Sbarazzandosi così dei suoi atti, in altri termini della cronologia, Montaigne si situa nell’acronia dell’inconscio. Se avesse preso a redigere un’autobiografia allineando gli eventi in successione, si sarebbe trovato nella necessità di teatralizzare le maschere dell’io; cercando invece la propria essenza (che ha ancora qui uno statuto provvisorio, valendo solo in contrapposizione alle azioni) spazza via le ombre del tempo biografico, la lanterna magica dell’esistenza rivissuta (reinterpretata, reinventata, come in ogni autobiografia): senza più nulla davanti – se non, si potrebbe dire, il desiderio di scrivere allo stato puro – può compiere il passo che gli permette, mentre dice io, di lasciar apparire le fenditure di sé soggetto.
Ho detto inconscio. L’espressione (la nozione) è davvero fuori tempo e fuori luogo? Stiamo parlando di un gentiluomo del Cinquecento che sembra un maestro del discorso razionale, guidato da concetti che articola con tutta la libertà e la duttilità del suo giudizio. Ma nessun testo, nemmeno il più speculativo, è il semplice prodotto di un itinerario mentale nell’astratto paese delle idee. Un testo è un testo (sostiene da qualche parte Derrida) solo se nasconde al primo sguardo, al primo venuto, la legge della sua composizione e la regola del suo gioco. Ora, i Saggi sono indubbiamente un testo. E sebbene non concedano spazio legittimo alle ossessioni, ai fantasmi, alle angosce, forse l’articolazione logica del discorso esibito in primo piano s’intreccia con un senso nascosto di origine emozionale. La ragione è all’erta, e lotta in ogni momento per dominare gli impulsi che potrebbero sfuggire alla sua vigilanza.
Si veda il passo del capitolo Dell’ozio (I, VIII) dove giustappunto lo scrittore esplicita l’origine del libro: quando (dice) mi sono ritirato dalla scena pubblica, pensavo di trascorrere in pace quel po’ di vita che mi resta, lasciando il mio spirito conversare con se stesso e riposarsi in se medesimo. Ma mi sono accorto che, al contrario, come un cavallo imbizzarrito, «mi genera tante chimere e mostri fantastici gli uni sugli altri, senz’ordine e senza motivo, che per contemplarne a mio agio la balordaggine e la stravaganza, ho cominciato a registrarli. Sperando col tempo di farlo vergognare di se stesso». Come intendere quelle chimere, quei mostri? L’espressione è, all’epoca, di uso relativamente corrente, ad esempio nelle arti figurative: parvenze informi o deformi quali si accumulano nelle grottesche (a cui peraltro Montaigne raffronta il suo libro all’inizio del capitolo Dell’amicizia, I, XXVIII). Fantasie dunque, divagazioni di cui occorre canalizzare il flusso capriccioso per evitare che il pensiero si disperda? Sì, ma forse anche presagio, intuizione – una volta ancora folgorante – delle forze misteriose che possono impadronirsi del pensiero cosciente e razionale. Queste forze, si tratta d’imbrigliarle, per affermare l’imperio della ragione sulle tenebre. Vegliare a che il soggetto, volubile, oscillante, sfuggevole, resti comunque padrone di sé.
Vengono in mente i mostri di pietra di Villa Palagonia, che sono forse la materializzazione dei sogni assurdi, incoerenti, del principe proprietario, le forme tangibili in cui sono imprigionati i suoi deliri. Montaigne tenta d’irretire i propri mostri con le parole: perché bisogna metterli in riga, addomesticarli, proteggersi dalla loro aggressione – difendersi dalla nevrosi. Troppi sono i luoghi del libro in cui affiorano, a livello della prima redazione, oscuri tremori del soggetto, che si nasconde e si rispecchia, magari senza avvedersene, in questa o quell’effigie: il re egizio Psammetico e gli altri personaggi inebetiti dal dolore e incapaci di esprimerlo che sfilano nel capitolo Della tristezza (I, II) figurano l’incubo dell’inibizione di parola, che colpisce anche il malcapitato Poyet in Del parlare spedito o lento (I, X); I nostri sentimenti vanno oltre noi stessi (I, III) lascia trasparire, attraverso gli esempi evocati, il fantasma della sopravvivenza del cadavere; nel Comportamento di alcuni ambasciatori (I, XVII) si rivela un’inconfessata ansia di dominio a dispetto delle reiterate professioni d’insufficienza che Montaigne dissemina un po’ dappertutto; in Della solitudine (I, XXXIX) serpeggia il ribrezzo dei contatti umani; la tentazione del suicidio si dà a leggere in Usanza dell’isola di Ceo (II, III). E così via.
Tenere a bada i mostri sarà il lavoro di una vita. La conclamata “salute” di Montaigne non è certo una qualità innata, ma il risultato di un attento, tenace processo di autocontrollo. Marie de Gournay, colei che Montaigne aveva eletto a propria figlia spirituale, vedeva nell’opera «l’elleboro della follia» – così nella prefazione all’edizione degli Essais da lei curata –: intendeva per i lettori. Ma gli Essais sono in primo luogo un elettuario per lo scrittore.
Il solo modo, infatti, di rimanere al di qua della frontiera dell’inconscio, sul terreno dell’equilibrio e della salute, è una scrittura sorvegliata e riflessa (che riflette sui propri meccanismi), capace di riassorbire e ricomporre le lacerazioni: la scrittura dell’essai. Forse Marie de Gournay – ancora lei – lo aveva indovinato (ma sapeva davvero quello che diceva?), quando scriveva, nella stessa prefazione: «Gli altri discorrono delle cose; costui discorre del suo stesso discorso, quanto di esse».