CAPITOLO XII

Apologia di Raymond Sebond1

[A] In verità, la scienza è una gran cosa, e utilissima. Quelli che la disprezzano dimostrano a sufficienza la loro stoltezza; tuttavia non stimo il suo valore fino a quel grado estremo che alcuni le attribuiscono: come il filosofo Erillo,2 che riponeva in essa il sommo bene e riteneva che da lei dipendesse renderci saggi e felici; cosa che non credo, come non credo ciò che altri hanno detto, che la scienza è madre di ogni virtù, e che ogni vizio è prodotto dall’ignoranza. Se questo è vero, è suscettibile di un lungo commento.

La mia casa fu già da gran tempo aperta alla gente di scienza, ed è loro ben nota, poiché mio padre, che l’ha diretta per cinquant’anni e più, stimolato da quell’ardore nuovo con cui il re Francesco I abbracciò le lettere e le mise in onore, ricercò con gran cura e spesa la familiarità degli uomini dotti, accogliendoli in casa sua come persone sante e dotate di qualche particolare ispirazione di saggezza divina, ascoltando le loro sentenze e i loro discorsi come oracoli, con tanto maggior reverenza e scrupolo quanto meno era capace di giudicarli: poiché non aveva alcuna conoscenza delle lettere, non più dei suoi antenati. Io le amo, ma non le adoro. Fra gli altri Pierre Bunel,3 uomo tenuto ai suoi tempi in grande reputazione di sapere, trattenutosi qualche giorno a Montaigne in compagnia di mio padre con altri uomini del suo stampo, gli fece dono partendo di un libro che s’intitola Theologia naturalis sive liber creaturarum magistri Raymondi de Sabonde. E poiché la lingua italiana e la spagnola erano familiari a mio padre, e questo libro è composto in uno spagnolo storpiato in desinenze latine, egli sperava che con appena un po’ d’aiuto avrebbe potuto trarne profitto, e glielo raccomandò come un libro molto utile e adatto al tempo nel quale glielo diede: fu quando le novità di Lutero cominciavano a prender credito, e a scuotere in molti luoghi la nostra antica fede. Sul che aveva una opinione giustissima, ben prevedendo, per ragionamento, che quel principio di malattia avrebbe degenerato facilmente in esecrabile ateismo: poiché il volgo, non avendo la facoltà di giudicare le cose per se stesse e lasciandosi trascinare dal caso e dalle apparenze, quando gli si sia messo in mano l’ardire di disprezzare e sindacare le opinioni che aveva tenute nel più grande rispetto, come sono quelle da cui dipende la sua salute spirituale, e quando si siano messi in dubbio e sulla bilancia alcuni articoli della sua religione, trasferisce subito e con grande facilità un’uguale incertezza su tutti gli altri punti della sua fede, che in lui non avevano più autorità né più fondamento di quelli che si son fatti crollare; e scuote come un giogo tirannico tutte le opinioni che aveva accolto per l’autorità delle leggi o per il rispetto del costume antico,

[B]Nam cupide conculcatur nimis ante metutum:I 4

[A] rifiutandosi da quel momento di accogliere alcunché senza aver prima interposto la sua decisione e dato un personale consenso. Ora, qualche tempo prima della sua morte,5 mio padre, avendo per caso ritrovato questo libro sotto un mucchio di altre carte dimenticate, mi incaricò di metterglielo in francese. È facile tradurre gli autori come questo, dove non c’è da riprodurre che la sostanza; mentre quelli che hanno messo molta cura nella grazia e nell’eleganza del linguaggio, è pericoloso affrontarli [C]: specialmente per volgerli in una lingua più debole. [A] Era un’occupazione davvero strana e nuova per me; ma per caso trovandomi allora in ozio, e non potendo rifiutar nulla alla volontà del miglior padre che fosse mai, ne venni a capo come potei; ed egli ne ebbe un piacere straordinario, e dette ordine che si facesse stampare: cosa che fu fatta dopo la sua morte.

Trovai belle le idee di questo autore, l’orditura della sua opera ben condotta, e il proposito pieno di pietà. Siccome molti si dilettano a leggerlo, e specialmente le dame, a cui dobbiamo maggiori servigi, mi son trovato spesso in misura di aiutarle, per difendere il libro da due principali obiezioni che gli son mosse. Il suo fine è ardito e coraggioso, poiché intende, con ragioni umane e naturali, stabilire e provare contro gli atei tutti gli articoli della religione cristiana. Nel che, a dire il vero, lo trovo così sicuro e felice che penso non sia possibile far meglio in quell’argomento, e credo che nessuno l’abbia uguagliato. Sembrandomi quest’opera troppo ricca e troppo bella per un autore il cui nome è così poco noto, e del quale tutto quello che sappiamo è che era spagnolo e faceva professione di medicina a Tolosa circa duecento anni fa,6 chiesi una volta a Adrien Turnebus, il quale sapeva tutto, che cosa poteva essere questo libro; mi rispose che pensava fosse una specie di quintessenza tratta da san Tommaso d’Aquino:7 perché in verità quell’ingegno, pieno di un’infinita erudizione e di una ammirevole acutezza, era l’unico capace di simili idee. Tant’è, chiunque ne sia l’autore e l’inventore (e non c’è ragione di togliere a Sebond questo merito senza più validi argomenti), era un uomo dottissimo e pieno di molte belle qualità.

La prima obiezione che si fa alla sua opera, è che i cristiani si fanno torto volendo sostenere con ragioni umane il loro credo, che si concepisce soltanto per fede e per una particolare ispirazione della grazia divina. In questa obiezione sembra che vi sia un certo zelo di pietà, e per questo bisogna che con tanta più dolcezza e rispetto cerchiamo di soddisfare quelli che la muovono. Sarebbe compito piuttosto di un uomo versato in teologia, che mio, perché non ne so nulla. Tuttavia giudico così, che in una cosa tanto divina e tanto alta, e che sorpassa di tanto l’intelligenza umana, come è quella verità con la quale è piaciuto alla bontà di Dio d’illuminarci, è ben necessario che8 egli ci porga ancora il suo aiuto, con favore straordinario e privilegiato, perché possiamo concepirla e accoglierla in noi; e non credo che i mezzi puramente umani ne siano in alcun modo capaci. E se lo fossero, tante anime rare ed eccellenti, e così abbondantemente dotate di forze naturali nei secoli antichi, non avrebbero mancato di arrivare a questa conoscenza con la ragione. È solo la fede che abbraccia strettamente e sicuramente gli alti misteri della nostra religione. Tuttavia non si può non affermare che sia una bellissima e lodevolissima impresa, applicare al servizio della nostra fede anche gli strumenti naturali e umani che Dio ci ha dato. Non c’è dubbio che sia l’uso più onorevole al quale possiamo impiegarli; e che non c’è occupazione né proposito più degno di un uomo cristiano che mirare con tutti i suoi studi e meditazioni ad abbellire, estendere e ampliare la verità del suo credo. Noi non ci accontentiamo di servir Dio nello spirito e nell’anima: gli dobbiamo inoltre e gli manifestiamo un rispetto fisico; impieghiamo le nostre stesse membra e i nostri movimenti e le cose esteriori a onorarlo. Bisogna fare lo stesso, e accompagnare la nostra fede con tutta la ragione che è in noi: ma sempre con questa riserva, di non ritenere che essa dipenda da noi, né che i nostri sforzi e i nostri argomenti possano arrivare a una scienza così soprannaturale e divina. Se essa non entra in noi per mezzo di una ispirazione straordinaria; se vi entra non solo per via di ragionamento, ma addirittura attraverso mezzi umani, non vi sta nella sua dignità e nel suo splendore.9

E tuttavia temo davvero che non arriviamo a gustarla che per questa via. Se fossimo uniti a Dio per mezzo di una fede viva; se fossimo uniti a Dio per suo stesso mezzo, non per mezzo nostro; se avessimo una base e un fondamento divino, le vicende umane non avrebbero il potere di scuoterci, come invece l’hanno; la nostra rocca non si arrenderebbe a un assalto così debole: l’amore della novità, la pressione dei principi, la buona fortuna di un partito, il mutamento temerario e fortuito delle nostre opinioni non avrebbero la forza di scuotere e alterare il nostro credo; non permetteremmo che venisse turbato dal potere di un nuovo argomento e della persuasione, fosse pure di tutta quanta la retorica che mai sia stata: resisteremmo a questi flutti con inflessibile e immobile fermezza,

Illisos fluctus rupes ut vasta refundit,

Et varias circum latrantes dissipat undas

Mole sua.I 10

Se questo raggio della divinità ci toccasse in qualche modo, sarebbe dovunque manifesto: non solo le nostre parole, ma anche le nostre azioni ne avrebbero la luce e lo splendore. Tutto quanto procedesse da noi, lo si vedrebbe illuminato da questa nobile chiarità. Dovremmo vergognarci che nelle sette umane non ci sia mai stato seguace che, per quante difficoltà e stranezze presentasse la sua dottrina, non vi conformasse in qualche modo la sua condotta e la sua vita; mentre una così divina e celeste disciplina contraddistingue i cristiani solo a parole. [B] Volete accertarvene? Paragonate i nostri costumi a un maomettano, a un pagano: voi rimanete sempre al di sotto. Laddove, per la superiorità della nostra religione, dovremmo risplendere per eccellenza, a estrema e incomparabile distanza; e si dovrebbe dire: «Sono tanto giusti, tanto caritatevoli, tanto buoni, dunque sono cristiani». [C] Tutte le altre manifestazioni sono comuni a tutte le religioni: speranza, fiducia, eventi, cerimonie, penitenza, martiri. Il segno particolare della nostra verità dovrebbe essere la nostra virtù, essendo anche il segno più celeste e più difficile, e il più degno prodotto della verità. [B] Pertanto ebbe ragione il nostro buon san Luigi, quando quel re tartaro che si era fatto cristiano si proponeva di venire a Lione a baciare i piedi al papa e ivi costatare la santità che sperava di trovare nei nostri costumi, di distogliernelo istantemente, per paura che, invece, il nostro modo di vivere sregolato lo disgustasse da un così santo convincimento.11 Benché in seguito sia accaduto tutto il contrario a quell’altro, che andato a Roma con lo stesso scopo, vedendo la dissolutezza dei prelati e del popolo di quel tempo, tanto più si rinsaldò nella nostra religione, considerando quanta forza e quanta divinità essa dovesse avere per conservare dignità e splendore in mezzo a tanta corruzione e in mani così viziose.12 [A] «Se avessimo una sola briciola di fede, smuoveremmo le montagne» dice la Sacra Scrittura; le nostre azioni, che sarebbero guidate e accompagnate dalla divinità, non sarebbero semplicemente umane, avrebbero qualche cosa di miracoloso come la nostra credenza. [C] Brevis est institutio vitæ honestæ beatæque, si credas.I 13 Gli uni danno ad intendere al mondo di credere quello che non credono. Gli altri, in maggior numero, lo danno ad intendere a se stessi, non sapendo concepire che cosa sia credere. [A] E troviamo strano se nelle guerre che opprimono in questo momento il nostro Stato, vediamo ondeggiare e variare gli avvenimenti in modo comune e ordinario. È perché non vi portiamo altro che il nostro interesse. La giustizia che è in uno dei partiti, non vi sta che per ornamento e copertura. Viene, sì, addotta a pretesto, ma non vi è accolta, né albergata, né sposata. Vi sta come sulla bocca dell’avvocato, non come nel cuore e nel sentimento della parte. Dio deve il suo straordinario soccorso alla fede e alla religione, non alle nostre passioni. Gli uomini le conducono e si servono in ciò della religione: dovrebbe essere tutto il contrario.

[C] Osservate se non è con le nostre mani che la maneggiamo: per trarre, come dalla cera, tante forme contrarie da una regola così retta e salda. Quando mai lo si è visto più chiaramente che in Francia ai nostri giorni? Quelli che la tirano a dritta, quelli che la tirano a manca, quelli che ne dicono nero, quelli che ne dicono bianco, se ne servono in modo tanto simile per le loro imprese violente e ambiziose, e si conducono in questo con un andamento tanto concorde per sregolatezza e ingiustizia, da rendere dubbiosa e difficile a credersi la differenza che proclamano tra le loro opinioni in una cosa dalla quale dipende la condotta e la legge della nostra vita. Si possono forse veder uscire da una stessa scuola e disciplina costumi più conformi, più uniformi? Guardate la spaventosa impudenza con cui ci palleggiamo le ragioni divine, e quanto irreligiosamente le abbiamo e gettate e riprese secondo che la fortuna ci ha fatto mutar di posto in queste bufere pubbliche. Quella proposizione tanto solenne: «Se sia permesso al suddito ribellarsi e armarsi contro il proprio principe per la difesa della religione», ricordatevi in quali bocche, l’anno scorso, la risposta affermativa fosse il pilastro di un partito, di quale altro partito fosse il pilastro la risposta negativa; e sentite ora da che parte venga l’enunciazione e la difesa dell’una e dell’altra, e se le armi faccian meno strepito per questa causa che per quella.14 E bruciamo coloro che dicono che bisogna far subire alla verità il giogo della nostra necessità. E la Francia non fa forse molto peggio che dirlo? [A] Confessiamo la verità: chi tirasse fuori dall’esercito, anche da quello legittimo e imparziale, quelli che vi marciano per il solo zelo di un sentimento religioso, e anche quelli che mirano soltanto alla protezione delle leggi del loro paese o al servizio del principe, non potrebbe mettere insieme una compagnia intera d’uomini d’arme. Da che cosa deriva che siano così pochi coloro che hanno conservato la stessa volontà e lo stesso atteggiamento nelle nostre lotte civili, e che li vediamo ora andare semplicemente al passo, ora correre a briglia sciolta? E gli stessi uomini ora mandare a male i nostri interessi con la loro violenza e accanimento, ora con la loro freddezza, fiacchezza e inerzia, se non dal fatto che vi sono spinti da considerazioni particolari e fortuite, secondo il variar delle quali si muovono? [C] Io vedo chiaramente questo, che offriamo volentieri alla devozione solo i servigi che lusingano le nostre passioni. Non c’è inimicizia tanto eminente quanto quella cristiana. Il nostro zelo fa meraviglie quando vien secondando la nostra inclinazione all’odio, alla crudeltà, all’ambizione, alla cupidigia, alla calunnia, alla ribellione. Al contrario, non ha ali né gambe per muovere verso la bontà, la benevolenza, la temperanza, a meno che, quasi per miracolo, qualche rara disposizione naturale non ve lo spinga. La nostra religione è fatta per estirpare i vizi; essa li copre, li alimenta, li eccita.

[A] Non bisogna far barba di stoppa a Dio (come si dice). Se credessimo in lui, non dico per fede, ma per semplice credenza, anzi (e lo dico per nostra grande confusione), se ci credessimo e lo conoscessimo come un altro argomento di storia, come uno dei nostri compagni, lo ameremmo sopra ogni altra cosa per l’infinita bontà e bellezza che risplende in lui: almeno occuperebbe nel nostro affetto lo stesso posto delle ricchezze, dei piaceri, della gloria e dei nostri amici. [C] Il migliore di noi non teme di offenderlo, mentre teme di offendere il proprio vicino, il proprio parente, il proprio padrone. C’è forse un ingegno così semplice che, avendo da una parte l’oggetto di uno dei nostri viziosi piaceri, e dall’altra, con pari cognizione e convincimento, la condizione di una gloria immortale, vorrebbe barattare una cosa con l’altra? E tuttavia spesso vi rinunziamo per puro disprezzo: infatti, quale gusto ci spinge a bestemmiare, se non forse il gusto stesso dell’offesa? Il filosofo Antistene, venendo iniziato ai misteri di Orfeo, al sacerdote che gli diceva che coloro che si consacravano a quella religione avrebbero ricevuto dopo la morte beni eterni e perfetti: «Perché dunque tu stesso non muori?» fece.15 Diogene, più bruscamente secondo il suo solito, e fuori del nostro discorso, al sacerdote che lo esortava egualmente ad abbracciare il suo ordine per conseguire i beni dell’altra vita: «Non vorrai davvero farmi credere che Agesilao ed Epaminonda, uomini tanto grandi, saranno infelici, mentre tu che sei solo un vitello sarai beato perché sei sacerdote?»16 [A] Quelle grandi promesse di beatitudine eterna, se le accogliessimo come autorevoli al pari di un ragionamento filosofico, non avremmo la morte in tale orrore come l’abbiamo.

[B]Non iam se moriens dissolvi conquereretur;

Sed magis ire foras, vestemque relinquere, ut anguis,

Gauderet, prælonga senex aut cornua cervus.I 17

[A] Voglio dissolvermi, diremmo, ed essere con Gesù Cristo.18 La forza del ragionamento di Platone sull’immortalità dell’anima spinse pure alcuni dei suoi discepoli alla morte, per godere più presto delle speranze che dava loro.

Tutto questo è un segno evidentissimo che accogliamo la nostra religione solo a modo nostro e a nostra guisa, e non diversamente da come si accolgono le altre religioni. Ci siamo trovati nel paese dove essa era in uso: diamo importanza alla sua antichità, o all’autorità degli uomini che l’hanno conservata, o temiamo le minacce con cui colpisce i miscredenti, o seguiamo le sue promesse. Queste considerazioni devono servire a farci credere, ma come sussidiarie: sono legami umani. Un altro paese, altri testimoni, uguali promesse e minacce potrebbero inculcarci per la stessa via una credenza contraria. [B] Siamo cristiani allo stesso titolo per cui siamo perigordini o tedeschi. [A] E quello che dice Platone,19 che ci sono pochi uomini così saldi nell’ateismo che un pericolo incombente non li riconduca al riconoscimento della potenza divina: questo atteggiamento non riguarda un vero cristiano. È proprio delle religioni mortali e umane essere accolte in termini umani. Che fede sarà quella che la debolezza e la viltà di cuore ficcano e fissano in noi? [C] Bella fede, che crede quello che crede solo perché non ha il coraggio di non crederlo! [A] Una passione viziosa, come quella della vigliaccheria e dello spavento, può forse far nascere nel nostro animo qualcosa di equilibrato? [C] Essi sostengono, dice, basandosi sulla loro ragione, che quello che si racconta dell’inferno e delle pene future è invenzione. Ma presentandosi l’occasione di sperimentarlo quando la vecchiaia o le malattie li avvicinano alla morte, il terrore di questa li spinge di nuovo a credere, per l’orrore della loro condizione futura. E poiché tali sensazioni rendono i cuori timorosi, egli proibisce assolutamente nelle sue leggi che si divulghino tali minacce e la convinzione che dagli dèi possa venire all’uomo qualche male: se non per il suo maggior bene, quando ciò avviene, e per un fine salutare. Si narra di Bione20 che, infetto dall’ateismo di Teodoro, si era burlato per molto tempo degli uomini religiosi, ma quando la morte lo colse, cedette alle più eccessive superstizioni: come se gli dèi si potessero togliere e rimettere per comodo di Bione. Da Platone e da questi esempi si vuol dunque concludere che siamo ricondotti a credere in Dio o per amore o per forza. L’ateismo è infatti una proposizione quasi contro natura e mostruosa, difficile anche e malagevole a fissarsi nell’animo umano, per insolente e sregolato che possa essere. Se ne sono visti molti, per la vanità e per l’orgoglio di esprimere opinioni non comuni e riformatrici del mondo, affettarne la professione per darsi tono: uomini abbastanza folli, ma tuttavia non forti abbastanza da averla radicata nella loro coscienza. Non mancheranno di giunger le mani al cielo se piantate loro un buon colpo di spada nel petto. E quando il timore o la malattia avrà fiaccato quel licenzioso fervore di umore volubile, non mancheranno di ravvedersi e lasciarsi prudentemente guidare dalle credenze e dagli esempi comuni. Altra cosa è un precetto seriamente digerito, altra cosa tali impressioni superficiali che, nate dal disordine di uno spirito squilibrato, vanno nuotando a caso e con incertezza nell’immaginazione. Uomini davvero miserabili e scervellati, che cercano di esser peggiori di quanto possono. [B] L’errore del paganesimo e l’ignoranza della nostra santa verità lasciò cadere quella grande anima di Platone, grande però soltanto di umana grandezza, anche in quest’altro abbaglio simile:21 che i fanciulli e i vecchi siano più suscettibili di religione, come se essa nascesse e traesse autorità dalla nostra debolezza.

[A] Il nodo che dovrebbe legare il nostro giudizio e la nostra volontà, che dovrebbe stringere la nostra anima e congiungerla al nostro creatore, dovrebbe essere un nodo che derivasse il suo intreccio e la sua forza non dalle nostre considerazioni, dalle nostre ragioni e passioni, ma da una stretta divina e soprannaturale, avente una sola forma, un solo aspetto e una sola luce, che è l’autorità di Dio e la sua grazia. Ora, essendo il nostro cuore e la nostra anima retti e governati dalla fede, è giusto che essa si giovi per il proprio scopo di tutte le nostre altre parti, secondo la loro capacità. Così non è credibile che tutta questa macchina non porti qualche impronta della mano di quel grande architetto, e che non ci sia nelle cose del mondo alcuna immagine che si riferisca in qualche modo all’artefice che le ha costruite e foggiate. Egli ha impresso in queste alte opere il carattere della sua divinità, e dipende solo dalla nostra debolezza se non possiamo scoprirlo. È quello che ci dice lui stesso, che le sue opere invisibili ce le manifesta attraverso quelle visibili. Sebond si è applicato a questo degno studio, e ci dimostra come non vi sia alcuna parte del mondo che smentisca il suo fattore. Sarebbe far torto alla bontà divina, se l’universo non confermasse il nostro credere. Il cielo, la terra, gli elementi, il nostro corpo e la nostra anima, tutte le cose vi cospirano; non c’è che da trovare il modo di servirsene. Esse ci ammaestrano, se siamo capaci d’intendere. [B] Poiché questo mondo è un tempio santissimo, nel quale l’uomo è introdotto per contemplarvi delle statue, non foggiate da mano mortale, ma quelle che il pensiero divino ha fatto sensibili: il sole, le stelle, le acque e la terra, perché siano per noi immagine di quelle intelligibili. [A] Le cose invisibili di Dio, dice san Paolo,22 sono manifeste nella creazione del mondo, se si considera la sua eterna sapienza e la sua divinità attraverso le sue opere.

Atque adeo faciem cæli non invidet orbi

Ipse Deus, vultusque suos corpusque recludit

Semper volvendo; seque ipsum inculcat et offert,

Ut bene cognosci possit, doceatque videndo

Qualis eat, doceatque suas attendere leges.I 23

Ora, i nostri ragionamenti e i nostri discorsi umani sono come la materia rozza e sterile; la grazia di Dio ne è la forma: è lei che dà loro foggia e pregio. Proprio come le azioni virtuose di Socrate e di Catone rimangono vane e inutili perché non hanno avuto un loro fine, e non hanno mirato all’amore e all’obbedienza verso il vero creatore di tutte le cose, e hanno ignorato Dio. Così è delle nostre idee e dei nostri discorsi: hanno un certo corpo, ma è una massa informe, senza armonia e senza luce, se non vi si accompagnano la fede e la grazia di Dio. La fede, impregnando e illuminando gli argomenti di Sebond, li rende forti e solidi: sono atti a servire d’indirizzo e di prima guida a un principiante per metterlo sulla via di questa conoscenza; lo preparano in qualche modo e lo rendono atto a ricevere la grazia di Dio, per mezzo della quale la nostra credenza poi si compie e giunge a perfezione.24 Io conosco un uomo autorevole, erudito nelle lettere, che mi ha confessato di esser stato allontanato dagli errori della miscredenza per virtù degli argomenti di Sebond. E quando anche li si spogli di questo ornamento, e del soccorso e della conferma della fede, e li si prenda per pure fantasie umane, per combattere coloro che sono precipitati nelle spaventose ed orribili tenebre dell’irreligione, saranno pur sempre tanto validi e forti quanto tutti gli altri dello stesso genere che vi si possano opporre. Sicché noi saremo in grado di dire ai nostri avversari,

Si melius quid habes, accerse, vel imperium fer:II 25

che si sottomettano alla forza delle nostre prove, o che ce ne mostrino altre, e su qualche altro argomento, meglio imbastite e rimpolpate.

Io mi sono, senza pensarci, già a metà impegnato nella seconda obiezione alla quale mi ero proposto di rispondere per Sebond. Alcuni dicono che i suoi argomenti sono deboli e inetti a dimostrare ciò che vuole, e pensano di ribatterli facilmente. Bisogna trattare costoro un po’ più duramente, perché sono più pericolosi e più maligni dei primi. [C] Si volge volentieri il senso degli scritti altrui a favore delle opinioni preconcette che sono in noi; e un ateo si lusinga di ricondurre tutti gli autori all’ateismo, infettando col proprio veleno la materia innocente. Costoro hanno alcuni [A] pregiudizi che li rendono insensibili ai ragionamenti di Sebond. Del resto, sembra loro che gli si dia buon gioco lasciandoli liberi di combattere la nostra religione con armi puramente umane, mentre non oserebbero attaccarla nella sua maestà piena di autorità e d’imperio. Il mezzo che scelgo per abbattere questa frenesia e che mi sembra il più adatto, è di schiacciare e calpestare l’orgoglio e l’umana baldanza, far sentir loro l’inanità, la vanità e nullità dell’uomo; strappar loro di pugno le meschine armi della loro ragione; far loro abbassare la testa e mordere la polvere, sotto l’autorità e la reverenza della maestà divina. A lei sola appartiene la scienza e la sapienza, lei sola può stimarsi per se stessa, e da lei noi ricaviamo il valore e il pregio che ci attribuiamo.

Ο γρ ϕρονεν Θες µέγα λλον αυτόν.I 26

[C] Abbattiamo questa presunzione, primo fondamento della tirannia dello spirito maligno. Deus superbis resistit; humilibus autem dat gratiam.II 27 L’intelligenza è in tutti gli dèi, dice Platone,28 e in pochissimi uomini. [A] Or tuttavia, è una grande consolazione per l’uomo cristiano vedere i nostri strumenti mortali e caduchi tanto propriamente adattati alla nostra fede santa e divina che, quando li applichiamo ad argomenti di eguale natura, mortali e caduchi, non paiano più adeguati né più efficaci. Vediamo dunque se l’uomo ha in suo potere altre ragioni più forti di quelle di Sebond: cioè se sta in lui arrivare a qualche certezza con argomentazioni e ragionamenti. [C] Infatti sant’Agostino,29 disputando contro costoro, ha ragione di rimproverar loro l’ingiustizia di ritener false quelle parti della nostra credenza che la nostra ragione non arriva a stabilire. E per dimostrare che ci possono essere, ed essere state, molte cose delle quali la nostra ragione non saprebbe determinare né la natura né le cause, produce certe esperienze note e indubitabili davanti alle quali l’uomo confessa di non capirci nulla. E questo, come tutte le altre cose, con un’indagine accurata e sottile. Occorre far di più: e insegnar loro che per dimostrare la debolezza della loro ragione non c’è bisogno di andare a scegliere esempi rari, e che essa è così manchevole e cieca che non c’è evidenza tanto chiara che sia per lei abbastanza chiara; che il facile e il difficile per lei sono tutt’uno; che tutte le cose indifferentemente, e la natura in generale, respingono la sua giurisdizione e intromissione. [A] Che cosa ci predica la verità, quando ci predica di fuggire la filosofia del mondo; quando tanto spesso ci inculca che la nostra saggezza non è che follia davanti a Dio; che di tutte le vanità la più vana è l’uomo; che l’uomo che presume del suo sapere non sa neppure che cosa sia sapere; e che l’uomo, che non è nulla, se pensa di essere qualcosa, illude se stesso e s’inganna? Queste massime dello Spirito Santo30 esprimono con tanta chiarezza e tanto vigore quello che voglio sostenere, che non mi occorrerebbe altra prova contro chi si arrendesse con piena sottomissione ed obbedienza alla sua autorità. Ma costoro vogliono essere frustati a proprie spese e non vogliono sopportare che si combatta la loro ragione se non per suo stesso mezzo.

Consideriamo dunque per ora l’uomo solo, senza soccorso esterno, armato delle sue sole armi e sprovvisto della grazia e della conoscenza divina, che è tutto il suo onore, la sua forza e il fondamento del suo essere. Vediamo quanto possa resistere in questo bello stato. Che mi faccia capire con la forza del suo ragionamento su quali basi ha fondato quei grandi privilegi che pensa di avere sulle altre creature. Chi gli ha fatto credere che quel mirabile movimento della volta celeste, la luce eterna di quelle fiaccole ruotanti così arditamente sul suo capo, i moti spaventosi di quel mare infinito siano stati determinati e perdurino per tanti secoli per la sua utilità e per il suo servizio? È possibile immaginare qualcosa di tanto ridicolo quanto che questa miserabile e meschina creatura, che non è neppure padrona di se stessa, esposta alle ingiurie di tutte le cose, si dica padrona e signora dell’universo? Del quale non è in suo potere conoscere la minima parte, tanto meno governarla. E quel privilegio che si attribuisce, di essere il solo, in questa gran fabbrica, ad avere la facoltà di riconoscerne la bellezza e le parti, il solo a poter renderne grazie all’architetto, e tener conto delle entrate e delle uscite del mondo, chi gli ha conferito questo privilegio? Ci mostri le credenziali di questo grande e bell’incarico. [C] Sono state forse concesse soltanto in favore dei saggi? Non riguardano molta gente. I pazzi e i malvagi sono forse degni di un favore così straordinario? E, pur essendo la parte peggiore del mondo, di essere preferiti a tutto il resto? Crederemo forse a quello là: Quorum igitur causa quis dixerit effectum esse mundum? Eorum scilicet animantium quæ ratione utuntur. Hi sunt dii et homines, quibus profecto nihil est melius.I 31 Non avremo mai deriso abbastanza l’impudenza di questo accoppiamento. [A] Ma, poverino, che cosa ha in sé che sia degno di tale privilegio? A considerare quella vita incorruttibile dei corpi celesti, la loro bellezza, la loro grandezza, il loro moto continuo e così puntualmente regolato:

cum suspicimus magni cælestia mundi

Templa super, stellisque micantibus æthera fixum,

Et venit in mentem lunæ solisque viarum:II 32

a considerare il dominio e il potere che quei corpi hanno, non solo sulle nostre vite e sulle condizioni della nostra fortuna,

Facta etenim et vitas hominum suspendit ab astris,III 33

ma perfino sulle nostre inclinazioni, sui nostri pensieri, sulle nostre volontà, che essi governano, spingono ed eccitano mercé i loro influssi, come insegna e costata la nostra ragione,

speculataque longe

Deprendit tacitis dominantia legibus astra,

Et totum alterna mundum ratione moveri,

Fatorumque vices certis discernere signis:IV 34

a vedere che non un uomo solo, non un re, ma le monarchie, gli imperi e tutto questo basso mondo si muove sotto la spinta dei minimi moti celesti:

Quantaque quam parvi faciant discrimina motus:

Tantum est hoc regnum, quod regibus imperat ipsis;V 35

se la nostra virtù, i nostri vizi, la nostra capacità e scienza, e questo stesso ragionamento che facciamo sulla forza degli astri, e questo paragone fra essi e noi, ci viene, come vede la nostra ragione, per loro mezzo e per loro favore,

furit alter amore,

Et pontum tranare potest et vertere Troiam;

Alterius sors est scribendis legibus apta;

Ecce patrem nati perimunt, natosque parentes;

Mutuaque armati coeunt in vulnera fratres:

Non nostrum hoc bellum est; coguntur tanta movere,

Inque suas ferri pœnas, lacerandaque membra,

Hoc quoque fatale est, sic ipsum expendere fatum;I 36

se abbiamo per elargizione del cielo questa parte di ragione che possediamo, come potrà essa eguagliarci a lui? Come sottomettere alla nostra scienza la sua essenza e le sue condizioni? Tutto quello che vediamo in quei corpi ci stupisce: quæ molitio, quæ ferramenta, qui vectes, quæ machinæ, qui ministri tanti operis fuerunt?II 37 Perché li priviamo e d’anima, e di vita, e di ragione? Abbiamo forse riconosciuto in essi una qualche ottusità immobile e insensibile, noi che non abbiamo alcun rapporto con loro, se non d’obbedienza? [C] Diremo che non abbiamo visto in nessun’altra creatura se non nell’uomo l’uso di un’anima ragionevole? E che? Abbiamo visto qualcosa di simile al sole? Cessa egli di essere, perché noi non abbiamo visto nulla di simile? E cessano di essere i suoi movimenti, perché non ve ne sono di uguali? Se quello che non abbiamo veduto non è, la nostra scienza è straordinariamente ristretta. Quæ sunt tantæ animi angustiæ.III 38 [A] Non sono sogni dell’umana vanità fare della luna una terra celeste,39 immaginarvi montagne, vallate, come Anassagora? Piantarvi abitazioni e dimore umane, e stabilirvi colonie per nostro comodo, come fanno Platone e Plutarco? E della nostra terra fare un astro illuminante e luminoso? [C] Inter cætera mortalitatis incommoda et hoc est: caligo mentium, nec tantum necessitas errandi sed errorum amor. Corruptibile corpus aggravat animam, et deprimit terrena inhabitatio sensum multa cogitantem.I 40 [A] La presunzione è la nostra malattia naturale e originaria. La più calamitosa e fragile di tutte le creature è l’uomo, e al tempo stesso la più orgogliosa. Essa si sente e si vede collocata qui, in mezzo al fango e allo sterco del mondo, attaccata e inchiodata alla peggiore, alla più morta e putrida parte dell’universo, all’ultimo piano41 della casa e al più lontano dalla volta celeste, insieme agli animali della peggiore delle tre condizioni:42 e con l’immaginazione va ponendosi al di sopra del cerchio della luna, e mettendosi il cielo sotto i piedi.

È per la vanità di questa stessa immaginazione che egli si uguaglia a Dio, che si attribuisce le prerogative divine, che trasceglie e separa se stesso dalla folla delle altre creature, fa le parti agli animali suoi fratelli e compagni, e distribuisce loro quella porzione di facoltà e di forze che gli piace. Come può egli conoscere per mezzo dell’intelligenza i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce quella bestialità che attribuisce a loro? [C] Quando gioco con la mia gatta, chi sa se lei non fa di me il suo passatempo più che io di lei? Platone, nella sua descrizione dell’età dell’oro sotto Saturno,43 annovera fra i principali vantaggi dell’uomo di allora la possibilità che aveva di comunicare con le bestie, sicché informandosi e imparando da loro, conosceva le vere qualità e differenze di ciascuna di esse; in tal modo acquistava un’estrema perspicacia e saggezza, grazie alla quale conduceva una vita di gran lunga più felice di quanto noi sapremmo fare. Ci occorre una prova migliore per giudicare l’impudenza umana riguardo alle bestie? Quel grande autore opinava che nella forma corporea che natura ha dato loro, essa ha considerato per lo più solo l’utilità dei pronostici che se ne traevano ai suoi tempi. [A] Quel difetto che impedisce la comunicazione fra esse e noi, perché non è tanto nostro quanto loro? Va’ a indovinare di chi sia la colpa del non intenderci, poiché noi non le comprendiamo più di quanto esse comprendano noi. Per questa stessa ragione esse possono considerarci bestie, come noi le consideriamo. Non c’è gran che da meravigliarsi se non le comprendiamo, allo stesso modo non comprendiamo né i Baschi né i Trogloditi. [A2] Tuttavia alcuni si sono vantati di comprenderle, come Apollonio di Tiana, Melampo, Tiresia, Talete e altri. [B] E poiché sta di fatto, come dicono i cosmografi,44 che ci sono dei popoli che tengono un cane come re, bisogna pure che essi diano qualche interpretazione alla sua voce e ai suoi movimenti. [A] Bisogna che osserviamo la parità che c’è fra noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura. Esse ci lusingano, ci minacciano e ci cercano, e noi loro.

Del resto, vediamo con tutta evidenza che c’è fra esse una piena e totale comunicazione, e che si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma anche di specie diverse.

[B]Et mutæ pecudes et denique secla ferarum

Dissimiles suerunt voces variasque cluere,

Cum metus aut dolor est, aut cum iam gaudia gliscunt.I 45

[A] In un certo latrato del cane il cavallo riconosce che c’è della collera; di una certa altra sua voce non si spaventa affatto. Nelle bestie stesse che non hanno voce, dai servigi scambievoli che le vediamo prestarsi argomentiamo facilmente qualche altro mezzo di comunicazione; [C] i loro movimenti discorrono e trattano:

[B]Non alia longe ratione atque ipsa videtur

Protrahere ad gestum pueros infantia linguæ.II 46

[A] E perché no, dato che i muti discutono, disputano e raccontano storie per mezzo di segni? Ne ho visti alcuni così abili ed esperti in questo che in verità non mancava loro nulla per farsi capire perfettamente. Gli innamorati si bisticciano, si riconciliano, si pregano, si ringraziano, si danno appuntamento, e insomma si dicono ogni cosa con gli occhi:

[A2]E ’l silenzio ancor suole

aver prieghi e parole.47

[C] E con le mani? Noi chiediamo, promettiamo, chiamiamo, congediamo, minacciamo, preghiamo, supplichiamo, neghiamo, rifiutiamo, interroghiamo, ammiriamo, contiamo, confessiamo, pentiamo, temiamo, vergogniamo, dubitiamo, insegniamo, comandiamo, incitiamo, incoraggiamo, giuriamo, testimoniamo, accusiamo, condanniamo, assolviamo, ingiuriamo, disprezziamo, sfidiamo, indispettiamo, aduliamo, applaudiamo, benediciamo, umiliamo, scherniamo, riconciliamo, raccomandiamo, esaltiamo, festeggiamo, divertiamo, compiangiamo, rattristiamo, sconfortiamo, disperiamo, meravigliamo, gridiamo, taciamo; e che altro non facciamo? Con una varietà e molteplicità che rivaleggia con la lingua. Con la testa, noi invitiamo, congediamo, ammettiamo, ritrattiamo, smentiamo, diamo il benvenuto, onoriamo, veneriamo, disdegniamo, domandiamo, ricusiamo, rallegriamo, lamentiamo, accarezziamo, brontoliamo, sottomettiamo, affrontiamo, esortiamo, minacciamo, assicuriamo, indaghiamo. E con le sopracciglia? E con le spalle? Non c’è gesto che non parli e un linguaggio intelligibile senza scuola e un linguaggio comune: sicché, considerando la varietà e l’uso particolare degli altri, questo qui deve essere ritenuto il più proprio alla natura umana. Tralascio quello che in particolare la necessità insegna sul momento a coloro che ne hanno bisogno, e gli alfabeti delle dita e le grammatiche in gesti, e le scienze che si esercitano e si esprimono solo per mezzo di essi.48 E i popoli che Plinio dice non avere altra lingua.49 [B] Un ambasciatore della città di Abdera, dopo aver parlato a lungo al re Agide di Sparta, gli domandò: «Ebbene, Sire, quale risposta vuoi ch’io rechi ai nostri cittadini?» «Che ti ho lasciato dire tutto quello che hai voluto, e finché hai voluto, senza mai dire una parola».50 Non è questo un tacere eloquente e ben comprensibile?

[A] Del resto, quale delle nostre facoltà non troviamo nelle opere degli animali?51 C’è forse un governo regolato con maggior ordine, distribuito in più incarichi e uffici diversi e mantenuto con più fermezza di quello delle api? Questa disposizione di azioni e funzioni così ordinata, possiamo forse immaginarla condotta senza raziocinio e senza previdenza?

His quidam signis atque hæc exempla sequuti,

Esse apibus partem divinæ mentis et haustus

Æthereos dixere.I 52

Le rondini che vediamo al ritorno della primavera frugare tutti gli angoli delle nostre case, cercano forse senza giudizio e scelgono senza discernimento, fra mille posti, quello che è loro più comodo per alloggiarvi? E in quella bella e ammirevole tessitura dei loro nidi, gli uccelli possono servirsi di una forma quadrata piuttosto che rotonda, di un angolo ottuso piuttosto che retto, senza conoscerne le proprietà e gli effetti? Prendono ora dell’acqua, ora dell’argilla, senza pensare che ciò che è duro si fa molle inumidendolo? Rivestono di muschio o di piume il loro palazzo, senza prevedere che le tenere membra dei loro piccoli vi staranno più morbidamente e più comodamente? Si riparano dal vento piovoso e fanno il nido ad oriente, senza conoscere la diversa natura di quei venti e considerare che l’uno è per loro più salutare dell’altro? Perché il ragno fa la tela più fitta in un punto e più larga in un altro? E si serve ora di una specie di nodo, ora di un’altra, se non ha facoltà di scegliere e di pensare e di concludere? Noi costatiamo ampiamente, nella maggior parte delle loro opere, quanta superiorità hanno gli animali su di noi, e quanto la nostra arte è insufficiente a imitarli. Vediamo tuttavia nelle nostre, più grossolane, le facoltà che vi impieghiamo, e che la nostra anima vi si applica con tutte le sue forze: perché non pensiamo lo stesso di loro? Perché attribuiamo a non so quale inclinazione naturale, e bassa, le opere che superano tutto quello che noi possiamo per natura e per arte? Nel che, senza pensarci, diamo loro un grandissimo vantaggio su di noi, ammettendo che la natura, con dolcezza materna, li accompagni e li guidi quasi per mano in tutte le azioni e circostanze della loro vita; mentre noi, ci abbandona al caso e alla fortuna, e a cercar con l’arte le cose necessarie alla nostra conservazione; e ci rifiuta al tempo stesso i mezzi per poter arrivare, quale che sia l’educazione e lo sforzo mentale, alla naturale industriosità delle bestie: sicché la loro stupidità bruta supera in ogni circostanza tutto ciò che può la nostra divina intelligenza. Veramente, a questo riguardo, avremmo ben ragione di chiamarla un’ingiustissima matrigna. Ma non è così: il nostro ordinamento non è così difforme e sregolato. La natura ha universalmente abbracciate tutte le sue creature, e non ve n’è alcuna che non abbia pienamente fornito di tutti i mezzi necessari alla conservazione del suo essere: di fatto, quelle comuni lagnanze che sento fare dagli uomini (giacché la licenza delle loro opinioni ora li solleva sulle nuvole, ora li rigetta agli antipodi), che noi siamo il solo animale abbandonato nudo sulla terra nuda, legato, incatenato, senza avere per armarsi e coprirsi che le spoglie altrui; mentre tutte le altre creature la natura le ha rivestite di conchiglie, di gusci, di scorza, di pelo, di lana, di punte, di cuoio, di crine, di piume, di scaglie, di vello e di setole, secondo i bisogni della loro esistenza; e le ha armate di artigli, di denti, di corna per attaccare e per difendersi; e le ha perfino addestrate a ciò che è loro proprio, a nuotare, a correre, a volare, a cantare, mentre l’uomo non sa né camminare, né parlare, né mangiare, né far altro che piangere se non glielo insegnano:

[B]Tum porro puer, ut sævis proiectus ab undis

Navita, nudus humi iacet, infans, indigus omni

Vitali auxilio, cum primum in luminis oras

Nixibus ex alvo matris natura profudit;

Vagituque locum lugubri complet, ut æquum est

Cui tantum in vita restet transire malorum.

At variæ crescunt pecudes, armenta, feræque,

Nec crepitacula eis opus est, nec cuiquam adhibenda est

Almæ nutricis blanda atque infracta loquella;

Nec varias quærunt vestes pro tempore cæli;

Denique non armis opus est, non mœnibus altis,

Queis sua tutentur, quando omnibus omnia large

Tellus ipsa parit, naturaque dædala rerum.I 53

[A] Queste lagnanze sono ingiustificate; c’è nel governo del mondo una maggiore eguaglianza e un rapporto più uniforme. La nostra pelle è, non meno della loro, dotata di sufficiente durezza contro le ingiurie del tempo: lo attestano tanti popoli che non hanno ancora conosciuto l’uso di vesti. [B] I nostri antichi Galli non erano molto vestiti, non lo sono gli Irlandesi nostri vicini, in un clima tanto freddo. [A] Ma lo costatiamo meglio in noi stessi, poiché tutte le parti della persona che ci piace scoprire al vento e all’aria si trovano in grado di sopportarlo: il viso, i piedi, le mani, le gambe, le spalle, la testa, secondo che ci induca l’uso. Di fatto, se c’è in noi una parte debole e che sembri dover temere il freddo, dovrebbe essere lo stomaco, dove avviene la digestione; i nostri padri lo portavano scoperto, e le nostre dame, così tenere e delicate come sono, poco manca ormai che vadano mezzo scoperte fino all’ombelico. Nemmeno i legacci e le fasce dei bambini sono necessari; e le madri spartane allevavano i propri lasciando alle loro membra piena libertà di movimento, senza legarli né stringerli.54 Il nostro piangere è comune alla maggior parte degli altri animali, e non ce ne sono molti che non vediamo lamentarsi e gemere a lungo dopo la nascita: poiché è un comportamento del tutto conforme alla debolezza in cui si sentono. Quanto all’uso del mangiare, è in noi, come in loro, naturale e non appreso,

[B]Sentit enim vim quisque suam quam possit abuti.I 55

[A] Chi mette in dubbio che un bambino, una volta in grado di nutrirsi, saprebbe cercare il proprio nutrimento? E la terra gliene produce e gliene offre abbastanza per il suo bisogno, senza particolari coltivazioni e artifici; e se non lo fa in ogni stagione, non lo fa nemmeno per le bestie: come provano le provviste che vediamo fare dalle formiche e da altri animali per le stagioni sterili dell’anno. Quei popoli che abbiamo or ora scoperto, così abbondantemente forniti di cibo e di bevanda naturale, senza preoccupazioni e senza fatica, ci hanno insegnato che il pane non è il nostro solo alimento; e che senza agricoltura, nostra madre natura ci aveva riforniti in abbondanza di tutto ciò che ci abbisognava; anzi, come è verosimile, con maggiore abbondanza e ricchezza di quanto faccia ora che vi abbiamo introdotto la nostra arte,

Et tellus nitidas fruges vinetaque læta

Sponte sua primum mortalibus ipsa creavit;

Ipsa dedit dulces fœtus et pabula læta,

Quæ nunc vix nostro grandescunt aucta labore,

Conterimusque boves et vires agricolarum,II 56

giacché l’eccesso e la sregolatezza del nostro appetito superano tutto ciò che cerchiamo d’inventare per saziarlo. Quanto alle armi, noi ne abbiamo di naturali più della maggior parte degli altri animali, più vari movimenti di membra, e ne traiamo maggior utilità, naturalmente e senza che ce lo insegnino: quelli che sono abituati a combattere nudi, li vediamo affrontare pericoli simili ai nostri. Se alcune bestie ci superano in questo vantaggio, noi ne superiamo molte altre. E l’arte di fortificare il corpo e coprirlo con mezzi acquisiti, l’abbiamo per un istinto e una regola naturale. Infatti l’elefante aguzza e affila i denti, dei quali si serve per la lotta (poiché ne ha di particolari per quest’uso, che risparmia e non adopera affatto per gli altri suoi bisogni). Quando i tori vanno al combattimento, spandono e sollevano la polvere intorno a sé; i cinghiali affinano le loro difese; e l’icneumone, quando deve venire alle prese col coccodrillo, protegge il proprio corpo e lo riveste e lo incrosta tutt’intorno di fango ben denso e impastato, come d’una corazza. Perché non diremo che è altrettanto naturale per noi armarci di legno e di ferro?

Quanto al parlare, è certo che se non è naturale, non è necessario. Tuttavia io credo che un fanciullo che fosse stato allevato in piena solitudine, lontano da ogni rapporto umano (e sarebbe un esperimento difficile a farsi), avrebbe qualche specie di linguaggio per esprimere i suoi pensieri; e non è credibile che la natura abbia rifiutato a noi questo mezzo che ha dato a molti altri animali: infatti, che altro è se non parlare, la facoltà che vediamo in loro di lamentarsi, di rallegrarsi, di chiamarsi a vicenda in aiuto, di invitarsi all’amore, come fanno usando la loro voce? [B] Come potrebbero non parlare tra loro? Parlano pure a noi, e noi a loro. In quante maniere parliamo ai nostri cani? Ed essi ci rispondono. Parliamo loro con altro linguaggio, con altri appellativi che con gli uccelli, coi porci, coi buoi, coi cavalli, e cambiamo idioma secondo la specie:

[A2]Così per entro loro schiera bruna

S’ammusa l’una con l’altra formica

Forse a spiar lor via, e lor fortuna.1 57

[A] Mi sembra che Lattanzio attribuisca alle bestie non solo la parola, ma anche il riso.58 E la differenza di linguaggio che si vede fra noi secondo la differenza dei paesi, si trova anche fra gli animali della stessa specie. Aristotele cita a questo proposito il diverso canto delle pernici secondo la posizione dei luoghi,59

[B]variæque volucres

Longe alias alio iaciunt in tempore voces,

Et partim mutant cum tempestatibus una

Raucisonos cantus.I 60

[A] Ma resta da sapere che linguaggio parlerebbe quel bambino; e quello che se ne dice per congettura non è molto probabile. Se mi si adduce, contro questa opinione, che i sordi dalla nascita non parlano, rispondo che non è soltanto perché non hanno potuto ricevere l’insegnamento della parola attraverso gli orecchi, ma piuttosto perché il senso dell’udito, del quale sono privi, è in relazione con quello del parlare, e stanno insieme per un legame naturale: di modo che quello che noi diciamo, bisogna che lo diciamo prima a noi stessi e che lo facciamo risuonare all’interno ai nostri orecchi prima di rivolgerlo a quelli estranei.

Ho detto tutto questo per sostenere quella somiglianza che c’è fra le cose umane, e per riportarci e congiungerci alla massa. Noi non siamo né al di sopra né al di sotto del resto: tutto quello che è sotto il cielo, dice il saggio,61 è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte,

[B]Indupedita suis fatalibus omnia vinclis.I 62

[A] C’è qualche differenza, ci sono ordini e gradi; ma sotto la forma di una stessa natura:

[B]res quæque suo ritu procedit, et omnes

Fœdere naturæ certo discrimina servant.II 63

[A] Bisogna piegare l’uomo e costringerlo entro le barriere di quest’ordine. Il miserabile si attenta a scavalcarle di fatto: è legato e vincolato, è soggetto agli stessi obblighi delle altre creature della sua specie, e in una condizione assolutamente media, senza alcuna prerogativa, alcuna superiorità vera ed essenziale. Quella che si attribuisce per opinione e per capriccio, non ha né corpo né sapore; e se è vero che lui solo, fra tutti gli animali, ha questa libertà d’immaginazione e questa sfrenatezza di pensieri, che gli rappresenta ciò che è, ciò che non è, e ciò che vuole, il falso e il vero, è un vantaggio che gli è venduto troppo caro e del quale ha poco da vantarsi, poiché di là nasce la sorgente principale dei mali che lo affliggono: peccato, malattia, incertezza, turbamento, disperazione.

Dico dunque, per tornare al mio discorso, che non c’è ragione di ritenere che le bestie facciano per inclinazione naturale e forzata le stesse cose che noi facciamo per nostra scelta e per arte. Da effetti simili dobbiamo indurre facoltà simili, e riconoscere di conseguenza che quello stesso raziocinio, quello stesso ordine che noi seguiamo nell’agire è anche quello degli animali. Perché immaginiamo in loro questa costrizione naturale, noi che non proviamo niente di simile? Si aggiunga che è più onorevole essere indotto e obbligato ad agire regolatamente in conseguenza di una condizione naturale e inevitabile, e ci avvicina di più alla divinità, che non agire regolatamente in conseguenza di una libertà temeraria e fortuita; ed è più sicuro lasciare alla natura, che a noi, le redini della nostra condotta. La vanità della nostra presunzione fa sì che preferiamo esser debitori delle nostre capacità alle nostre forze più che alla sua generosità; e arricchiamo gli altri animali dei beni naturali e li cediamo loro, per onorarci e nobilitarci con beni acquisiti: molto ingenuamente, mi sembra, giacché io apprezzerei altrettanto le doti tutte mie e spontanee di quelle che avessi mendicato e accattato con l’esercizio. Non è in nostro potere acquistarci più bella stima di quella di esser favoriti da Dio e dalla natura.

Così la volpe,64 di cui si servono gli abitanti della Tracia quando vogliono attraversare sul ghiaccio qualche fiume gelato, e la mandano avanti a questo scopo, quando la vedessimo sul bordo dell’acqua accostare l’orecchio vicinissimo al ghiaccio per sentire se da lungi o da presso udrà mormorare l’acqua corrente al di sotto, e secondo che trovi in tal modo che il ghiaccio abbia più o meno spessore, indietreggiare o avanzare, non avremmo forse ragione di ritenere che le passi per la testa lo stesso ragionamento che passerebbe per la nostra? E che è un’argomentazione e una conclusione tratta dal buon senso naturale: quello che fa rumore si muove, quello che si muove non è gelato, quello che non è gelato è liquido, e quello che è liquido cede sotto il peso. Di fatto, attribuire ciò soltanto a una acutezza del senso dell’udito, senza ragionamento e senza conclusione, è una chimera, e non può aver posto nella nostra immaginazione. Lo stesso bisogna pensare di tante specie di astuzie e di accorgimenti con cui le bestie si proteggono dagli agguati che tendiamo loro.

E se vogliamo trarre qualche superiorità dal fatto stesso che è in nostro potere prenderle, servircene e adoperarle a nostra volontà, non si tratta che di quella stessa superiorità che abbiamo gli uni sugli altri. Allo stesso modo abbiamo i nostri schiavi, [B] e le Climacidi, in Siria, non erano forse donne che, chinate a quattro zampe, servivano di sgabello e di scala alle dame per montare in carrozza? [A] E la maggior parte delle persone libere abbandonano per vantaggi ben lievi la loro vita e il loro essere nelle mani di altri. [C] Le mogli e le concubine dei Traci disputano tra loro per essere prescelte a morire sulla tomba del marito. [A] I tiranni hanno mai mancato di trovare abbastanza uomini devoti al loro servizio? Alcuni di essi aggiungendo inoltre l’obbligo di accompagnarli nella morte come nella vita. [B] Interi eserciti si sono così legati ai loro capitani. La formula del giuramento in quella dura scuola di gladiatori conteneva queste promesse: «Noi giuriamo di lasciarci incatenare, bruciare, battere e uccidere di spada, e di sopportare tutto ciò che i gladiatori regolari sopportano dal loro padrone, impegnando con estremo scrupolo il corpo e l’anima al suo servizio»,

Ure meum, si vis, flamma caput, et pete ferro

Corpus, et intorto verbere terga seca.I 65

Era un impegno vero; eppure, se ne trovavano diecimila, in un anno, che l’assumevano e ci morivano. [C] Quando gli Sciti seppellivano il loro re,66 strangolavano sul suo corpo la favorita tra le sue concubine, il suo coppiere, il valletto di scuderia, il ciambellano, il cameriere e il cuoco. E nel suo anniversario uccidevano cinquanta cavalli montati da cinquanta paggi che avevano impalati per la spina dorsale fino alla gola, e li lasciavano così piantati in parata intorno alla tomba. [A] Gli uomini che ci servono, lo fanno con loro minor profitto e con un trattamento meno sollecito e benevolo di quello che usiamo agli uccelli, ai cavalli e ai cani. [C] A quali premure non ci abbassiamo per il loro comodo? Non mi sembra che i più abietti servitori facciano volentieri per i loro padroni quello che i principi si onorano di fare per queste bestie. Diogene, vedendo i suoi parenti affannarsi per riscattarlo dalla schiavitù: «Sono pazzi!» diceva «è colui che mi mantiene e mi nutre che serve me, e quelli che mantengono le bestie, si deve dire che le servono più che esserne serviti».67 [A] Ed esse hanno questo di più generoso, che mai leone si fece servo di un altro leone, né un cavallo di un altro cavallo per mancanza di coraggio.

Come noi andiamo a caccia delle bestie, così le tigri e i leoni vanno a caccia degli uomini; ed hanno un uguale modo d’agire gli uni verso gli altri: i cani verso le lepri, i lucci verso le tinche, le rondini verso le cicale, gli sparvieri verso i merli e le allodole:

[B]serpente ciconia pullos

Nutrit, et inventa per devia rura lacerta,

Et leporem aut capream famulæ Iovis, et generosæ

In saltu venantur aves.I 68

Noi spartiamo il frutto della caccia, come la fatica e l’abilità, coi nostri cani e i nostri uccelli. E sopra Anfipoli in Tracia, i cacciatori e i falchi selvatici dividono equamente il bottino a metà; come lungo la palude Meotide, se il pescatore non lascia ai lupi, lealmente, una parte uguale della preda, essi vanno immediatamente a lacerare le sue reti. [A] E come noi abbiamo un tipo di caccia che vien condotta più con l’astuzia che con la forza, come quella che si fa con i lacci, con le lenze e con l’amo, di simili se ne vedono anche fra le bestie. Aristotele dice che la seppia manda fuori dal collo un budello lungo come una lenza, che tende lontano lasciandolo andare e lo ritrae a sé quando vuole: via via che vede qualche pesciolino avvicinarsi, gli lascia mordere il capo di questo budello, restando nascosta nella sabbia o nella melma, e a poco a poco lo ritrae finché quel pesciolino sia così vicino a lei che d’un balzo possa acchiapparlo. Quanto alla forza, non c’è animale al mondo esposto a tante offese come l’uomo: non ci è necessaria una balena, un elefante e un coccodrillo, né altri animali simili, uno solo dei quali è capace di distruggere un gran numero di uomini: i pidocchi bastano a render vacante la dittatura di Silla; il cuore e la vita di un grande e trionfante imperatore sono la colazione di un piccolo verme.

Perché diciamo che nell’uomo è scienza e cognizione, basata sull’arte e sulla ragione, il discernere le cose utili alla sua vita e alla guarigione delle sue malattie da quelle che non lo sono, conoscere il potere del rabarbaro e del polipodio; e quando vediamo le capre di Candia, ferite da un colpo di freccia, andare fra un milione d’erbe a scegliere il dittamo per guarire; e la tartaruga, quando ha mangiato la vipera, cercar subito dell’origano per purgarsi; il drago pulirsi e schiarirsi gli occhi col finocchio; le cicogne farsi da sole dei clisteri con l’acqua di mare; gli elefanti strappare non solo dai propri corpi e da quelli dei loro compagni, ma anche dai corpi dei loro padroni (come prova quello del re Poro, che Alessandro sconfisse), i giavellotti e i dardi scagliati contro di loro nel combattimento, e strapparli così abilmente che noi non sapremmo farlo con così poco dolore: perché non diciamo ugualmente che è scienza e saggezza? Di fatto, addurre, per avvilirli, che essi sanno queste cose solo per insegnamento e scuola della natura, non è toglier loro il merito di scienza e saggezza: è attribuirlo a loro a maggior ragione che a noi, in onore di una così sicura maestra. Crisippo, benché in ogni altra cosa tanto sdegnoso giudice della condizione degli animali quanto nessun altro filosofo, considerando i movimenti del cane che, trovandosi a un incrocio di tre strade, o cercando il padrone che ha perduto, o inseguendo una preda che fugge davanti a lui, va tentando una via dopo l’altra, e dopo essersi accertato delle prime due e non avervi trovato traccia di quel che cerca, si lancia nella terza senza esitare, è costretto a riconoscere che in quel cane si svolge questo ragionamento: «Ho seguito fino a questo incrocio le peste del mio padrone, bisogna per forza che egli passi per una di queste tre strade: non è passato né da questa né da quella, bisogna dunque infallibilmente che sia passato da quest’altra»; e fatto sicuro da questa conclusione e ragionamento, non si serve più del suo odorato sulla terza strada, né la fiuta più, ma si lascia trasportare dalla forza della ragione.69 Questo tratto puramente dialettico e quest’uso di proposizioni divise e congiunte e dell’abile enumerazione delle parti, non vale tanto che il cane lo sappia da sé quanto che l’abbia imparato dal Trebisonda?70

Le bestie, poi, non sono neppure incapaci di essere istruite al modo nostro. Ai merli, ai corvi, alle gazze, ai pappagalli noi insegniamo a parlare; e quella facilità che riconosciamo in loro di prestarci la voce e il fiato così duttili e docili per adattarli e piegarli a un certo numero di lettere e di sillabe, prova che hanno internamente un raziocinio che li rende tanto suscettibili di disciplina e volonterosi di apprendere. Tutti sono stufi, credo, di vedere tante specie di smorfie che i saltimbanchi insegnano ai loro cani: le danze in cui questi non sbagliano una sola cadenza del suono che sentono, parecchi diversi movimenti e salti che essi fanno far loro al comando della loro parola. Ma io osservo con maggior ammirazione il comportamento, che è tuttavia piuttosto comune, dei cani di cui si servono i ciechi, sia nelle campagne sia nelle città: ho notato come si fermino a certe porte dove sono abituati a ricevere l’elemosina, come evitino l’urto delle carrozze e delle carrette, anche quando per loro soli ci sarebbe abbastanza posto per passare; ne ho visto uno, lungo il fossato di una città, lasciare un sentiero piano e uguale e prenderne uno peggiore per tenere il padrone lontano dal fossato. Come si era potuto far comprendere a quel cane che era suo compito badare soltanto alla sicurezza del padrone e trascurare i propri comodi per servirlo? E come poteva sapere che quel sentiero, largo per lui a sufficienza, non lo sarebbe stato per un cieco? Si può capire tutto questo senza raziocinio e senza senno? Non bisogna dimenticare quello che Plutarco dice71 di un cane che ha visto a Roma, al Teatro Marcello, presente l’imperatore Vespasiano padre. Questo cane era agli ordini di un saltimbanco che rappresentava una farsa con parecchie scene e parecchi personaggi, e vi aveva una parte. Bisognava, tra l’altro, che per un certo tempo fingesse di esser morto per aver ingoiato una certa droga: dopo aver inghiottito il pane che raffigurava la droga, cominciò subito a tremare e ad agitarsi come se fosse impazzito; infine, stendendosi e irrigidendosi, come morto, si lasciò tirare e trascinare da un luogo all’altro come voleva il soggetto della rappresentazione; poi, quando capì che era tempo, cominciò prima a muoversi piano piano, come se si fosse svegliato da un profondo sonno, e alzando la testa guardò qua e là in un modo che stupì tutti i presenti. Ai buoi di cui ci si serviva nei giardini reali di Susa per innaffiarli e far girare certe grandi ruote per attinger acqua, cui erano attaccati dei mastelli (come se ne vedono molte in Linguadoca), era stato ordinato di attingerne ogni giorno fino a cento giri ciascuno. Essi erano tanto abituati a questo numero che era impossibile, qualsiasi mezzo si usasse, fargliene attingere un giro di più; e finito il loro compito, si fermavano immediatamente. Noi siamo già adolescenti prima di saper contare fino a cento, e abbiamo appena scoperto popoli che non hanno alcuna cognizione dei numeri.

C’è inoltre maggior esercizio di ragione nell’istruire gli altri che nell’essere istruiti. Ora, tralasciando quello che Democrito asseriva e provava, che la maggior parte delle arti ce le hanno insegnate le bestie: come il ragno a tessere e a cucire, la rondine a costruire, il cigno e l’usignolo la musica, e parecchi animali, con il loro esempio, a esercitare la medicina; Aristotele sostiene che gli usignoli insegnano ai loro piccoli a cantare, e vi impiegano tempo e cura, per cui avviene che quelli che noi alleviamo in gabbia, che non hanno avuto modo di andare alla scuola dei loro genitori, perdono molto della grazia del loro canto. [B] Possiamo dedurne che questo si perfeziona con la disciplina e con lo studio. E anche fra quelli liberi, non è unico e uguale: ognuno ha imparato secondo le proprie capacità; e nella rivalità dell’apprendere si battono a gara con tanto animoso sforzo che a volte il vinto rimane morto, mancandogli il fiato prima della voce. I più giovani meditano, pensosi, e cominciano a imitare certe strofe di canzone: il discepolo ascolta la lezione del maestro e la ripete con gran cura; essi tacciono, ora l’uno, ora l’altro: sentiamo correggere gli errori e avvertiamo alcuni rimproveri del maestro. Ho visto una volta, dice Arrio,72 un elefante che aveva un cembalo pendente a ogni coscia e un altro attaccato alla proboscide, al suono del quale tutti gli altri ballavano in giro, alzandosi e abbassandosi a certe cadenze, secondo che lo strumento li guidava, ed era un piacere udire quell’armonia. [A] Negli spettacoli di Roma si vedevano abitualmente elefanti ammaestrati a muoversi e ad eseguire, al suono della voce, dei balli con parecchie figure, pause e diverse cadenze molto difficili a impararsi. Se ne sono visti che in disparte ripassavano la lezione, e si esercitavano con cura e con studio per non essere sgridati e battuti dai loro padroni. Ma quest’altra storia della gazza, per la quale abbiamo garante Plutarco medesimo,73 è strana. Essa era nella bottega di un barbiere a Roma, e faceva meraviglie nel contraffare con la voce tutto quello che udiva; un giorno accadde che certi trombettieri si fermassero a lungo a suonare davanti a quella bottega: da quel momento, e per tutto il giorno seguente, ecco quella gazza pensosa, muta e melanconica, del che tutti erano meravigliati; e si pensava che fosse stato il suono delle trombe a stordirla e sbigottirla a quel modo, e che con l’udito anche la voce si fosse affievolita; ma si scoprì infine che si trattava di uno studio profondo e di un raccoglimento in se stessa, mentre il suo spirito si esercitava e preparava la voce a riprodurre il suono di quelle trombe: sicché il primo suono che emise fu di ripetere alla perfezione quelle riprese, quelle pause e quelle variazioni, abbandonando e disprezzando per questo nuovo studio tutto quello che sapeva dire prima.

Non voglio omettere di citare anche quest’altro esempio di un cane che sempre Plutarco74 dice di aver visto (poiché, quanto all’ordine, mi accorgo bene che lo sconvolgo, ma non l’osservo nell’allineare questi esempi più che in tutto il resto del mio lavoro) mentre si trovava su una nave: questo cane, affannandosi per leccare l’olio che era sul fondo di una brocca al quale non poteva arrivare con la lingua a causa della stretta imboccatura del vaso, andò a cercare dei ciottoli e li mise in questa brocca finché ebbe fatto alzar l’olio più vicino all’orlo, dove poté arrivarci. Che cosa è questo se non il risultato di un ingegno molto acuto? Si dice che i corvi di Barberia facciano lo stesso, quando l’acqua che vogliono bere è troppo bassa. Questo fatto è in qualche modo simile a quello che raccontava degli elefanti un re del loro paese, Giuba: che quando per l’astuzia di quelli che li cacciano, uno di loro si trova preso in certe fosse profonde che si preparano per loro, coprendole di frascame per trarli in inganno, i suoi compagni prontamente vi portano una grande quantità di pietre e pezzi di legno perché ciò lo aiuti a tirarsi fuori. Ma questo animale si avvicina in tante altre cose all’abilità umana, che se volessi minutamente descrivere quello che l’esperienza ce ne ha insegnato, avrei facilmente causa vinta in ciò che sostengo di solito, che c’è più differenza fra un uomo e un altro uomo, che non fra un animale e un uomo. Il custode di un elefante, in una casa privata di Siria, gli sottraeva a tutti i pasti la metà della razione che gli era stata assegnata; un giorno il padrone volle provvedervi di persona, e versò nella mangiatoia la giusta misura d’orzo che gli aveva prescritta per il suo nutrimento; l’elefante, guardando di traverso quel custode, separò con la proboscide e ne mise da parte la metà, denunciando così il torto che gli veniva fatto. E un altro, avendo un custode che mescolava delle pietre al suo foraggio per accrescerne il peso, si avvicinò alla pentola in cui quello faceva cuocere la carne per il proprio pranzo e gliela riempì di cenere. Questi sono fatti particolari; ma quello che tutti hanno visto e che tutti sanno è che in tutti gli eserciti che si conducevano dai paesi di levante una delle forze più grandi consisteva negli elefanti, dai quali si traevano risultati senza confronto più grandi di quelli che noi otteniamo attualmente dalla nostra artiglieria, che occupa all’incirca il loro posto nell’ordinamento di una battaglia (questo può essere facilmente costatato da coloro che conoscono le storie antiche):

[B]siquidem Tirio servire solebant

Annibali, et nostris ducibus, regique Molosso,

Horum maiores, et dorso ferre cohortes,

Partem aliquam belli et euntem in prœlia turmam.I 75

[A] Bisognava bene che si fosse pienamente sicuri della fedeltà di queste bestie e del loro raziocinio, se si affidava loro l’attacco di una battaglia, là dove la minima sosta che avessero fatto per la grandezza e il peso dei loro corpi, il minimo spavento che le avesse fatte voltare verso i loro soldati, era sufficiente a perder tutto. E si sono visti meno esempi in cui sia accaduto che essi si gettassero sulle loro truppe, di quelli in cui noi stessi ci gettiamo gli uni sugli altri e ci mettiamo in rotta. Si dava loro l’incarico non di un solo movimento, ma di molte diverse parti della battaglia [B]: come facevano gli Spagnoli nella recente conquista delle Indie con i cani, ai quali pagavano il soldo e facevano parte del bottino; e questi animali mostravano tanta abilità e accortezza nel perseguire e nel decidere la vittoria, nell’assalire o indietreggiare secondo i casi, nel distinguere gli amici dai nemici, quanto mostravano ardore e vigore.

[A] Noi ammiriamo e apprezziamo di più le cose straordinarie di quelle ordinarie; e se così non fosse, non mi sarei soffermato su questa lunga elencazione: infatti, a mio parere, a osservar da vicino quello che vediamo abitualmente negli animali che vivono in mezzo a noi, c’è di che trovarvi fatti ammirevoli quanto quelli che si vanno raccogliendo in paesi e in secoli remoti. [C] È sempre la stessa natura che segue il suo corso. Chi ne avesse sufficientemente esaminato lo stato attuale, potrebbe con sicurezza dedurne e tutto l’avvenire e tutto il passato. [A] Un tempo ho visto fra noi76 degli uomini condotti per mare da lontani paesi: poiché non comprendevamo affatto la loro lingua e, quanto al resto, il loro modo di fare e il loro atteggiamento e i loro vestiti erano quanto mai diversi dai nostri, chi di noi non li riteneva e selvaggi e bruti? Chi non attribuiva a stupidità e bestialità il vederli muti, ignoranti della lingua francese, ignoranti dei nostri baciamano e dei nostri inchini serpentini, del nostro portamento e del nostro contegno che, senza fallo, la natura umana dovrebbe prendere a modello? Tutto quello che ci sembra strano, lo condanniamo, e così tutto quello che non comprendiamo: come ci accade nel giudizio che diamo delle bestie. Esse hanno parecchie qualità che si avvicinano alle nostre: da queste, per confronto, possiamo trarre qualche congettura; ma quello che è loro particolare, come possiamo sapere che cosa sia? I cavalli, i cani, i buoi, le pecore, gli uccelli e la maggior parte degli animali che vivono con noi riconoscono la nostra voce e si lasciano guidare da essa; così faceva anche la murena di Crasso, e veniva da lui quando la chiamava; e lo fanno anche le anguille che stanno nella fontana di Aretusa, [B] e ho visto parecchi vivai nei quali i pesci accorrono, per mangiare, a un certo richiamo di quelli che li accudiscono,

[A]nomen habent, et ad magistri

Venit quisque sui vocem citatus.I 77

Di questo possiamo giudicare. Possiamo anche dire che gli elefanti hanno qualche cognizione di religione, poiché dopo molte abluzioni e purificazioni li vediamo, levando la proboscide come fosse un braccio, e tenendo gli occhi fissi verso il sol levante, rimanere a lungo in meditazione e contemplazione a certe ore del giorno, di loro proprio impulso, senza istruzione e senza precetto. Ma dal non vedere alcuna manifestazione simile negli altri animali, non possiamo tuttavia concludere che siano senza religione, e non possiamo intendere in alcun senso quello che ci è nascosto. Così noi vediamo qualcosa in questo atto che il filosofo Cleante notò,78 perché assomiglia ai nostri: egli vide, dice, delle formiche partire dal loro formicaio portando il corpo di una formica morta verso un altro formicaio, dal quale molte altre formiche vennero loro incontro, come per parlare; e dopo esser rimaste insieme qualche tempo, queste tornarono indietro per consultarsi, probabilmente, con le loro concittadine, e fecero così due o tre viaggi per risolvere le difficoltà delle trattative; infine le ultime venute portarono alle prime un verme dalla loro tana, come per riscatto del morto, e le prime si caricarono questo verme sul dorso e lo portarono con sé, lasciando alle altre il corpo dell’estinto. Ecco l’interpretazione che ne dette Cleante. Provando in tal modo che quelle bestie che non hanno voce non mancano di avere comunicazione e rapporti reciproci, e se non vi abbiamo parte è per colpa nostra; e per questo è sciocco che ci impicciamo di opinarne.

Ora, esse fanno anche altre azioni che superano di gran lunga la nostra capacità, e a cui siamo tanto lontani dal poter arrivare per imitazione che non possiamo neppure concepirle con l’immaginazione. Molti ritengono79 che in quella grande e decisiva battaglia navale che Antonio perdette contro Augusto, la sua galera ammiraglia fu fermata a metà della corsa da quel pesciolino che i Latini chiamano remora, a causa di questa sua proprietà di fermare ogni specie di vascello a cui si attacca. E mentre l’imperatore Caligola vogava con una gran flotta presso la costa della Romania, la sua sola galera fu fermata all’improvviso da questo stesso pesce, che egli fece prendere così attaccato com’era al fondo del suo vascello, indispettito che un animale così piccolo potesse far forza e al mare e ai venti e alla potenza di tutti i suoi remi, stando semplicemente attaccato alla galera col becco (perché è un pesce con sperone); e si meravigliò ancora, non senza gran ragione, che portato sulla nave non avesse più quella forza che aveva fuori. Un cittadino di Cizico acquistò un tempo fama di buon matematico per aver scoperto la proprietà del riccio, che ha la tana aperta da diverse parti e a venti diversi, e prevedendo il vento che verrà, va a chiudere il buco dalla parte di quel vento; e notando questo, quel cittadino portava nella sua città sicure previsioni sul vento che doveva tirare. Il camaleonte prende il colore del luogo dove si posa; ma il polpo si dà lui stesso il colore che gli piace, secondo i casi, per nascondersi da ciò che teme e acchiappare quello che cerca: nel camaleonte è un mutamento passivo, ma nel polpo è un mutamento attivo. Noi abbiamo alcuni mutamenti di colore, per lo spavento, la collera, la vergogna e altre passioni che alterano la tinta del nostro viso, ma è un effetto della passività, come nel camaleonte: è in potere dell’itterizia farci ingiallire, mentre non è in potere della nostra volontà. Ora queste azioni che costatiamo negli altri animali, superiori alle nostre, testimoniano in essi l’esistenza di qualche facoltà più eccellente che ci è ignota, come è verosimile che lo siano molte altre delle loro qualità e possibilità, delle quali non giunge fino a noi alcuna manifestazione. Di tutte le profezie del tempo passato, le più antiche e le più sicure erano quelle che si traevano dal volo degli uccelli. Noi non abbiamo nulla di simile né di così mirabile. Quella regola, quel ritmo del movimento della loro ala, da cui si traggono deduzioni sulle cose a venire, bisogna pure che sia guidato a un così nobile effetto da qualche facoltà superiore; poiché è dare una spiegazione arbitraria attribuire questo grande risultato a qualche disposizione naturale, senza l’intelligenza, il consenso e il ragionamento di chi lo produce: ed è un’opinione evidentemente falsa. Infatti, la torpedine ha la proprietà non solo di intorpidire le membra che la toccano, ma di trasmettere attraverso le reti e la sagena una pesantezza torpida alle mani di quelli che la muovono e maneggiano; anzi si dice anche che se le si versa sopra dell’acqua, si sente questa sensazione che arriva salendo fino alla mano e intorpidisce il tatto attraverso l’acqua. Questa forza è meravigliosa, ma non è inutile alla torpedine: essa la sente e se ne serve, in maniera che per afferrare la preda che cerca, la si vede acquattarsi sotto la melma, affinché gli altri pesci guizzandole sopra, colpiti e tramortiti da quella sua tensione, cadano in suo potere. Le gru, le rondini e altri uccelli di passo, cambiando dimora secondo le stagioni dell’anno, rivelano chiaramente la cognizione che hanno della propria facoltà divinatrice, e la mettono in pratica. I cacciatori ci assicurano che per scegliere fra diversi cuccioli quello che si deve conservare come migliore, basta mettere la madre in condizione di scegliere lei stessa: così, se si portano fuori della cuccia, il primo che lei vi riporterà sarà sempre il migliore; oppure, se si fa finta di appiccare il fuoco tutt’intorno alla cuccia, quello dei piccoli in soccorso del quale lei correrà prima. Da questo risulta che esse hanno una facoltà di pronosticare che noi non abbiamo, o che hanno qualche virtù di giudicare dei loro piccoli, diversa e più viva della nostra.

Poiché il modo di nascere, di generare, nutrirsi, agire, muoversi, vivere e morire delle bestie è così simile al nostro, tutto quello che togliamo alle loro cause motrici e che aggiungiamo alla nostra condizione come superiore alla loro, non può in alcun modo venire dalla facoltà della nostra ragione. Come regola per la nostra salute i medici ci propongono l’esempio della vita delle bestie e i loro usi: infatti fu sempre sulla bocca del popolo quel detto,

Tenez chauds les pieds et la tête,

Au demeurant vivez en bête.I

La generazione è il più importante degli atti naturali: noi abbiamo una certa disposizione delle membra che è per noi la più adatta a questo scopo; tuttavia ci prescrivono di metterci nella posizione e nella giacitura delle bestie perché è più efficace,

more ferarum

Quadrupedumque magis ritu, plerumque putantur

Concipere uxores; quia sic loca sumere possunt,

Pectoribus positis, sublatis semina lumbis.II 80

[A2] E respingono come nocivi quei movimenti impudenti e insolenti che le donne vi hanno aggiunto di loro iniziativa, riconducendole all’esempio e al modo delle bestie del loro sesso, più modesto e posato:

Nam mulier prohibet se concipere atque repugnat,

Clunibus ipsa viri venerem si læta retractet,

Atque exossato ciet omni pectore fluctus.

Eiicit enim sulci recta regione viaque

Vomerem, atque locis avertit seminis ictum.I 81

[A] Se è giustizia dare a ciascuno quello che gli è dovuto, le bestie che servono, amano e difendono i loro benefattori, e che inseguono e aggrediscono gli estranei e quelli che li offendono, riproducono in questo una certa immagine della nostra giustizia; come anche nel conservare un’eguaglianza assai equa nel dispensare i loro beni ai propri piccoli. Quanto all’amicizia, l’hanno senza confronto più viva e più costante che non l’abbiano gli uomini. Ircano, il cane del re Lisimaco, morto il padrone, rimase ostinatamente sul letto di lui senza voler né bere né mangiare; e il giorno che ne bruciarono il corpo, prese la rincorsa e si gettò nel fuoco, nel quale rimase bruciato. Così fece anche il cane di un certo Pirro, poiché non si mosse da sopra il letto del padrone dopo che questi fu morto; e quando lo portarono via, si lasciò portar via insieme a lui, e infine si gettò nel rogo dove veniva bruciato il corpo del padrone. Ci sono certi impulsi di affetto che nascono a volte in noi senza l’intervento della ragione, che vengono da uno slancio fortuito che altri chiamano simpatia: le bestie ne sono capaci come noi. Vediamo i cavalli prendere una certa familiarità gli uni con gli altri, tanto da renderci difficile il farli vivere o viaggiare separatamente. Li vediamo volgere il loro affetto a un certo tipo di pelo dei loro compagni, o a un certo loro aspetto: e quando li incontrano, avvicinarsi subito ad essi con festa e dimostrazioni di benevolenza, e prendere altri sembianti in antipatia e in odio. Gli animali hanno come noi un criterio di scelta nei loro amori, e fanno una qualche cernita delle loro femmine. Non vanno esenti dalle nostre gelosie e da rivalità estreme e irreconciliabili.

I desideri sono o naturali e necessari, come il bere e il mangiare; o naturali e non necessari, come il commercio con le femmine; oppure non sono né naturali né necessari; di questa ultima specie sono quasi tutti quelli degli uomini: sono tutti superflui e artificiali. Di fatto, fa meraviglia vedere quanto poco occorra alla natura per contentarsi, quanto poco essa ci abbia lasciato da desiderare. Le raffinatezze delle nostre cucine non rientrano nella sua regola. Gli stoici dicono82 che un uomo avrebbe di che sostentarsi con un’oliva al giorno. La squisitezza dei nostri vini non fa parte dei suoi precetti, né il soprappiù che aggiungiamo agli appetiti amorosi,

neque illa

Magno prognatum deposcit consule cunnum.I 83

Questi desideri estranei, che l’ignoranza del bene e una falsa opinione hanno infuso in noi, sono in sì gran numero che scacciano quasi tutti quelli naturali: né più né meno che se in una città vi fosse un così gran numero di stranieri che ne cacciassero fuori i naturali abitanti, o soffocassero la loro antica autorità e potenza, usurpandola interamente e impadronendosene. Gli animali sono molto più regolati di quanto siamo noi, e si tengono con maggior moderazione entro i limiti che la natura ci ha prescritto. Ma non così esattamente da non presentare ancora qualche affinità con la nostra sfrenatezza. E come si son visti desideri furiosi che hanno spinto gli uomini all’amore delle bestie, a volte anch’esse si trovano prese da amore per noi e concepiscono affetti mostruosi da una specie all’altra: testimone l’elefante rivale del grammatico Aristofane nell’amore di una giovane fioraia della città di Alessandria, che non era per niente da meno di lui nei servigi di un pretendente appassionatissimo; di fatto, passeggiando per il mercato dove si vendevano le frutta, ne prendeva con la proboscide e gliele portava; la perdeva di vista il meno che gli era possibile, e le metteva talvolta la proboscide in seno passandola sotto il colletto e le tastava le poppe. Raccontano anche di un drago84 innamorato di una fanciulla, e di un’oca presa dall’amore per un ragazzo nella città di Asopo, e di un montone devoto alla suonatrice Glaucia; e si vedono ogni giorno delle bertucce prese da amor furioso per le donne. Si vedono anche certi animali darsi all’amore per i maschi del loro sesso; Oppiano85 e altri riportano alcuni esempi per dimostrare il rispetto per la parentela che le bestie osservano nei loro matrimoni, ma l’esperienza ci fa molto spesso vedere il contrario,

nec habetur turpe iuvencæ

Ferre patrem tergo; fit equo sua filia coniux;

Quasque creavit init pecudes caper; ipsaque cuius

Semine concepta est, ex illo concipit ales.I 86

Quanto a scaltrezza maliziosa, ce n’è una più evidente di quella del mulo del filosofo Talete?87 Il quale, attraversando un fiume con un carico di sale, ed avendo per caso inciampato, sicché i sacchi che portava si bagnarono tutti, accortosi che il sale sciolto in tal modo gli aveva reso il carico più leggero, non mancava mai, ogni volta che incontrava qualche ruscello, di immergervisi col suo carico; finché il padrone, scoprendo la sua malizia, ordinò che lo si caricasse di lana, per cui, trovandosi ingannato, cessò di servirsi di quell’astuzia. Ce ne sono parecchie che riproducono per natura l’immagine della nostra avarizia, poiché si vede in loro una cura estrema di afferrare tutto quello che possono e di nasconderlo accuratamente, sebbene non ne traggano alcun profitto. Quanto all’economia domestica, esse ci superano non solo nella previdenza di accumulare e risparmiare per il tempo a venire, ma posseggono anche molti requisiti della scienza che è necessaria a tal fine. Le formiche stendono fuori del formicaio i grani e semi perché prendano aria, si rinfreschino e si secchino, quando vedono che cominciano ad ammuffire e a sapere di rancido, per paura che si guastino e imputridiscano. Ma la precauzione e la previdenza che mettono nel rosicchiare il chicco di frumento, supera ogni idea di saggezza umana. Siccome il frumento non rimane sempre secco né sano, ma si ammollisce, si scioglie e si stempera come nel latte, cominciando a germogliare e a crescere, per paura che diventi semente e perda la sua natura e proprietà di riserva per il loro nutrimento, esse rosicchiano la punta dalla quale di solito esce il germoglio.

Quanto alla guerra, che è la più grande e pomposa delle azioni umane, mi piacerebbe sapere se vogliamo servircene come prova di qualche nostra prerogativa, o al contrario come testimonianza della nostra debolezza e imperfezione: poiché invero la scienza di distruggerci e ucciderci a vicenda, di rovinare e perdere la nostra stessa specie, sembra che non abbia molto di che farsi desiderare dalle bestie che non la posseggono:

[B]quando leoni

Fortior eripuit vitam leo? quo nemore unquam

Expiravit aper maioris dentibus apri?I 88

[A] Pur tuttavia esse non ne sono del tutto esenti: come provano i furiosi scontri delle api e le zuffe dei capi dei due eserciti contrari,

sæpe duobus

Regibus incessit magno discordia motu,

Continuoque animos vulgi et trepidantia bello

Corda licet longe præsciscere.II 89

Non leggo mai questa divina descrizione senza che mi sembri di vedervi dipinta la stoltezza e la vanità umana. Poiché quelle azioni guerriere che ci stordiscono col loro orrore e spavento, quella tempesta di suoni e di grida,

[B]Fulgur ubi ad cælum se tollit, totaque circum

Ære renidescit tellus, subterque virum vi

Excitur pedibus sonitus, clamoreque montes

Icti reiectant voces ad sidera mundi;III 90

[A] quello spaventoso schieramento di tante migliaia di uomini armati, tanto furore, ardore e coraggio, è divertente considerare da quali vane cagioni sia eccitato e da quali futili cagioni estinto.

Paridis propter narratur amorem

Græcia Barbariæ diro collisa duello:IV 91

tutta l’Asia si perdette e si consumò in guerre per l’adulterio di Paride. Il capriccio di un solo uomo, un dispetto, un piacere, una gelosia domestica, cause che non potrebbero spingere due pescivendole a graffiarsi, sono l’anima e l’impulso di tutto quel gran scompiglio. Vogliamo credere a quei medesimi che ne sono i principali autori e cause? Sentiamo il più grande, il più vittorioso e il più potente imperatore che mai sia stato, prendersi gioco e mettere in celia, molto scherzosamente e argutamente, diverse battaglie arrischiate e per mare e per terra, il sangue e la vita di cinquecentomila uomini che seguirono la sua sorte, e le forze e le ricchezze delle due parti del mondo esaurite per servire alle sue imprese,

Quod futuit Glaphyran Antonius, hanc mihi pœnam

Fulvia constituit, se quoque uti futuam.

Fulviam ego ut futuam? Quid, si me Manius oret

Pædicem, faciam? Non puto, si sapiam.

Aut futue, aut pugnemus, ait. Quid, si mihi vita

Charior est ipsa mentula? Signa canant.I 92

(Uso in libertà di coscienza il mio latino, col permesso che voi me ne avete dato). Ora, questo gran corpo, dai tanti aspetti e movimenti, che sembra minacciare il cielo e la terra:

[B]Quam multi Lybico volvuntur marmore fluctus

Sævus ubi Orion hybernis conditur undis,

Vel cum sole novo densæ torrentur aristæ,

Aut Hermi campo, aut Lyciæ flaventibus arvis,

Scuta sonant, pulsuque pedum tremit excita tellus,II 93

[A] questo mostro furioso dalle tante braccia e dalle tante teste, è sempre l’uomo debole, pieno di disgrazie e miserabile. Non è che un formicaio mosso e agitato,

It nigrum campis agmen.III 94

Un soffio di vento contrario, il gracchiare d’un volo di corvi, l’inciampare d’un cavallo, il passaggio casuale di un’aquila, un sogno, una voce, un segno, una bruma mattutina bastano a rovesciarlo e metterlo a terra. Che solo un raggio di sole lo colpisca in viso, eccolo prostrato e svenuto; che appena un po’ di polvere gli sia gettata negli occhi, come alle api del nostro poeta, ecco disfatte e fracassate tutte le nostre bandiere, le nostre legioni, e lo stesso grande Pompeo alla lor testa: infatti fu lui, mi pare,95 che Sertorio batté in Spagna con queste belle armi [B] che hanno servito anche ad altri, come a Eumene contro Antigono, a Surena contro Crasso:

[A]Hi motus animorum atque hæc certamina tanta

Pulveris exigui iactu compressa quiescent.I 96

[C] Che gli si lancino pure dietro le nostre api, esse avranno e la forza e il coraggio di sbaragliarlo. Recentemente, quando i Portoghesi assediavano la città di Tamly nel territorio di Xiatime, gli abitanti di questa portarono sulle mura una gran quantità di alveari, di cui sono ricchi. E con un po’ di fuoco, spinsero le api con tanta forza sui loro nemici che li misero in fuga, perché non potevano sostenere i loro assalti e le loro punture. Così la vittoria e la libertà della loro città fu dovuta a questo inusitato aiuto, con tale fortuna che al ritorno dal combattimento non mancava neppure un’ape. [A2] Le anime degli imperatori e dei ciabattini sono fatte su uno stesso stampo. Considerando l’importanza delle azioni dei principi e il loro peso, ci persuadiamo che siano prodotte da qualche causa altrettanto grave e importante. Ci inganniamo: essi sono trascinati e trattenuti nelle loro azioni dagli stessi impulsi che ci governano nelle nostre. La stessa ragione che ci fa litigare con un vicino, suscita fra i principi una guerra; la stessa ragione che ci fa frustare un servo, se si presenta a un re, gli fa devastare una provincia. [B] Essi vogliono con la stessa leggerezza di noi, ma possono di più. [A2] Simiglianti appetiti agitano un pidocchio e un elefante.

[A] Quanto alla fedeltà, non c’è animale al mondo più traditore dell’uomo: le nostre storie narrano la crudele vendetta che certi cani hanno fatto della morte dei loro padroni. Il re Pirro, imbattutosi in un cane che faceva la guardia a un uomo morto, e avendo sentito che erano tre giorni che compiva quest’ufficio, ordinò che si seppellisse il corpo, e portò con sé il cane. Un giorno che assisteva alla rivista generale del suo esercito, questo cane, scorgendo gli assassini del proprio padrone, corse loro addosso con grandi latrati e rabbia feroce, e con questo primo indizio dette avvio alla vendetta di quel delitto, che fu compiuta subito dopo per via di giustizia. Altrettanto fece il cane del saggio Esiodo, che smascherò i figli di Ganistore Naupaziano per il delitto da loro commesso sulla persona del suo padrone. Un altro cane, che stava a guardia di un tempio ad Atene, avendo scorto un ladro sacrilego che portava via i gioielli più belli, si mise ad abbaiargli contro a più non posso; ma poiché i custodi non si erano svegliati per questo, si mise a inseguirlo, e fattosi giorno si tenne un po’ più lontano da lui, senza mai perderlo di vista. Se quello gli offriva da mangiare, non ne voleva, e agli altri passanti che incontrava per strada faceva festa con la coda, e prendeva dalle loro mani quello che gli davano da mangiare; se il ladro si fermava per dormire, si fermava anche lui nello stesso posto. Venuta notizia di questo cane ai custodi di quella chiesa, si misero a seguirne la traccia, chiedendo informazioni sul pelo di quel cane, e finalmente lo trovarono nella città di Cromione, e anche il ladro, che ricondussero nella città di Atene, dove fu punito. E i giudici, per riconoscenza di questo buon servizio, ordinarono che fosse pagata a spese pubbliche una certa misura di grano per nutrire il cane, e che i sacerdoti ne avessero cura. Plutarco dà questa storia come verissima e accaduta ai suoi tempi.97

Quanto alla gratitudine (poiché mi sembra che abbiamo bisogno di dar credito a questa parola), basterà questo solo esempio, che Apione racconta98 essendone stato lui stesso spettatore. Un giorno, egli dice, che a Roma si offriva al popolo il sollazzo di un combattimento di molte bestie straniere, e soprattutto di leoni di inusitata grandezza, ce n’era uno fra gli altri che per l’atteggiamento furioso, per la forza e la grandezza delle membra e il fiero e spaventoso ruggito, attirava su di sé gli sguardi di tutti gli astanti. Fra gli altri schiavi che furono presentati al popolo in questo combattimento di bestie vi fu un certo Androclo di Dacia, che apparteneva a un signore romano di dignità consolare. Questo leone, avendolo scorto da lontano, dapprima si fermò di botto, come preso da stupore, e poi si avvicinò lemme lemme, con aria tranquilla e pacifica, come per volerlo riconoscere. Fatto ciò e assicuratosi di quello che cercava, cominciò ad agitare la coda come i cani che fanno festa al loro padrone, e a baciare e leccare le mani e le cosce di quel povero disgraziato mezzo morto di spavento e fuori di sé. Rincuoratosi Androclo per la mansuetudine di quel leone, e rinfrancato lo sguardo avendolo osservato e riconosciuto, era un piacere singolare vedere le carezze e le feste che si facevano l’un l’altro. E avendo il popolo levato grida di gioia, l’imperatore fece chiamare quello schiavo per udire da lui la spiegazione di un fatto tanto strano. Quello gli raccontò una storia straordinaria e mirabile: «Quando il mio padrone» disse «era proconsole in Africa, fui costretto dalla crudeltà e dal rigore con cui mi trattava, facendomi battere tutti i giorni, a scappargli e fuggire. E per nascondermi al sicuro da un personaggio che aveva una così grande autorità nella provincia, trovai che la cosa migliore era raggiungere i deserti e le contrade sabbiose e inabitabili di quel paese, risoluto, se venisse a mancarmi il mezzo di nutrirmi, a trovar qualche modo di uccidermi. Poiché sul mezzogiorno il sole era estremamente cocente e il calore insopportabile, trovata una caverna nascosta e inaccessibile, mi ci gettai dentro. Subito dopo sopraggiunse questo leone, con una zampa sanguinante e ferita, che si lamentava e gemeva per i dolori che soffriva. Al suo arrivo ebbi molta paura, ma lui, vedendomi rannicchiato in un angolo della sua tana, si avvicinò adagio adagio a me, presentandomi la zampa ferita, e mostrandomela come per chiedere aiuto; gli tolsi allora una grossa scheggia di legno che vi era conficcata, ed essendomi un po’ familiarizzato con lui, premendo la ferita, ne feci uscire il sudicio che vi si era raccolto, l’asciugai e la pulii meglio che potei; lui, sentendo alleviato il suo male, e sollevato da quel dolore, si mise a riposare e a dormire, tenendo sempre la zampa fra le mie mani. Da allora in poi lui ed io vivemmo insieme in quella caverna tre anni interi degli stessi cibi: poiché egli mi portava le parti migliori delle bestie che uccideva alla caccia, ed io le facevo cuocere al sole in mancanza di fuoco, e me ne nutrivo. A lungo andare, stancatomi di questa vita bestiale e selvaggia, un giorno che questo leone era uscito per la sua solita caccia, me ne andai di là, e al terzo giorno fui preso dai soldati che mi condussero dall’Africa in questa città, dal mio padrone, che subito mi condannò a morte e ad essere dato alle belve. A quanto vedo, è stato preso poco dopo anche questo leone, che ha voluto ora ricompensarmi del beneficio e della guarigione che aveva ricevuto da me». Ecco la storia che Androclo raccontò all’imperatore, e che dall’uno all’altro fu resa nota anche alla folla. Per cui a richiesta di tutti fu messo in libertà e assolto da quella condanna, e per volere del popolo gli fu fatto dono di quel leone. Vedevamo in seguito, dice Apione, Androclo condurre con sé quel leone con un piccolo guinzaglio, andando in giro per le taverne di Roma, prendendo il denaro che gli davano, mentre il leone si lasciava coprire dai fiori che gli gettavano, e ognuno diceva incontrandoli: «Ecco il leone ospite dell’uomo, ecco l’uomo medico del leone».

[B] Piangiamo spesso la perdita delle bestie che amiamo, e altrettanto esse fanno per la nostra,

Post, bellator equus, positis insignibus, Æthon

It lachrymans, guttisque humectat grandibus ora.I 99

Come alcuni dei nostri popoli hanno le donne in comune, presso altri ognuno ha la sua: la stessa cosa non si vede anche fra le bestie, e non si vedono matrimoni rispettati più dei nostri?

[A] Quanto all’alleanza e alla confederazione che stringono fra loro per far lega insieme e portarsi aiuto a vicenda, vediamo nei buoi, nei porci e in altri animali che al grido di quello che voi colpite, tutto il gruppo accorre in suo aiuto e si unisce per difenderlo. Quando lo scaro ha inghiottito l’amo del pescatore, i suoi compagni gli si radunano attorno in massa e rosicchiano la lenza; e se per caso ce n’è uno che sia entrato nella nassa, gli altri gli porgono la coda dal di fuori e lui la stringe quanto può coi denti: così lo tirano fuori e lo liberano. I barbi, quando uno dei loro compagni è stato preso, si mettono la lenza contro il dorso, rizzando una spina che hanno, dentata come una sega, e con questa la segano e la tagliano. Quanto ai particolari servizi che ci rendiamo l’un l’altro nella vita pratica, se ne vedono parecchi esempi simili fra di esse. Si dice che la balena non avanzi mai senza avere davanti a sé un pesciolino simile al ghiozzo di mare, che per questo si chiama la guida: la balena lo segue, lasciandosi condurre e girare facilmente come il timone fa girare la nave; e in ricompensa, mentre ogni altra cosa, sia bestia o vascello, che entra nell’orribile caos della bocca di quel mostro è immediatamente perduta e inghiottita, questo pesciolino vi si ritira in piena sicurezza e vi dorme, e durante il suo sonno la balena non si muove; ma appena quello esce, si mette a seguirlo senza posa; e se per caso se ne discosta, va errando qua e là, e spesso urtando contro gli scogli, come un bastimento senza timone: e questo Plutarco assicura100 di aver visto nell’isola di Anticira. C’è un’alleanza simile fra l’uccellino chiamato scricciolo e il coccodrillo: lo scricciolo serve di sentinella a quel grande animale; e se l’icneumone, suo nemico, si avvicina per assalirlo, quell’uccellino, per paura che lo sorprenda addormentato, col suo canto e a colpi di becco lo sveglia e lo avverte del pericolo; esso vive degli avanzi di quel mostro che lo accoglie familiarmente nella sua bocca e gli permette di beccare fra le mascelle e fra i denti, e di raccogliervi i pezzi di carne che vi sono rimasti; e se vuole chiudere la bocca, lo avverte prima perché ne esca, serrandola a poco a poco senza schiacciarlo e ferirlo. Quella conchiglia che si chiama madreperla vive anch’essa così con il pinnotere, che è un animaletto simile a un granchio, che le serve da usciere e da portiere, situato all’apertura di quella conchiglia che tiene continuamente socchiusa e aperta, finché vi veda entrare qualche pesciolino buono per la loro preda; allora entra nella madreperla e le pizzica la carne viva, costringendola a chiudere la conchiglia; poi tutti e due insieme mangiano la preda chiusa nella loro fortezza.

Nel modo di vivere dei tonni si nota una singolare conoscenza di tre parti della matematica. Quanto all’astrologia, essi l’insegnano all’uomo; infatti si fermano nel luogo dove li sorprende il solstizio d’inverno, e non se ne allontanano fino all’equinozio seguente: ecco perché Aristotele stesso riconosce loro volentieri questa scienza. Quanto alla geometria e all’aritmetica, essi dispongono sempre il loro banco a forma di cubo, quadrato per ogni verso, e ne fanno un corpo di battaglione compatto, chiuso e cinto tutt’intorno, con sei facce tutte uguali; poi nuotano in questa formazione quadrata, larga tanto dietro quanto davanti, sicché chi ne vede e ne conta una fila può facilmente contare tutta la frotta, poiché il numero è uguale tanto in profondità quanto in larghezza, e in larghezza come in lunghezza.

Quanto alla magnanimità, è difficile darne un esempio più evidente di quel fatto del gran cane che fu mandato dalle Indie al re Alessandro. Dapprima gli fu presentato un cervo da combattere, e poi un cinghiale, e poi un orso: quello non se ne curò e non si degnò di muoversi dal proprio posto; ma quando vide un leone, si alzò subito sulle zampe, mostrando chiaramente che riconosceva quello solo come degno di venire a combattimento con lui. Riguardo al pentimento e al riconoscimento delle colpe, si racconta di un elefante il quale, avendo ucciso il suo guardiano in un impeto di collera, ne ebbe tanto dolore che non volle più mangiare e si lasciò morire. Quanto alla clemenza, si racconta di una tigre, la più inumana di tutte le bestie, che essendole stato offerto un capretto, patì la fame per due giorni pur di non fargli male, e il terzo spezzò la gabbia nella quale era chiusa per andare a cercarsi un altro pasto, non volendo attaccarsi al capretto, suo familiare e ospite. E quanto ai diritti della familiarità e della relazione che si stabilisce con la convivenza, ci accade di solito di addomesticare insieme cani, gatti e lepri; ma ciò che l’esperienza insegna a quelli che viaggiano per mare, e specialmente nel mare di Sicilia, riguardo alla prerogativa degli alcioni, supera ogni umana immaginazione. Di quale specie di animali la natura ha mai tanto onorato il puerperio, la nascita e il parto? Narrano infatti i poeti101 che la sola isola di Delo, prima vagante, fu raffermata perché servisse al parto di Latona; ma Dio ha voluto che tutto il mare sia frenato, raffermato e appianato, senza onde, senza venti e senza pioggia, mentre l’alcione fa i suoi piccoli, che è precisamente verso il solstizio, il giorno più corto dell’anno; e per grazia sua abbiamo sette giorni e sette notti, nel cuore dell’inverno, durante i quali possiamo navigare senza pericolo. Le loro femmine non conoscono altro maschio che il proprio, ne hanno cura per tutta la vita senza mai abbandonarlo: se si riduce a essere debole e fiacco, se lo caricano sulle spalle, lo portano dappertutto e lo servono fino alla morte. Ma nessuna scienza è ancora potuta arrivare alla conoscenza di quell’arte meravigliosa con cui l’alcione costruisce il nido per i suoi piccoli, né indovinarne la materia. Plutarco,102 che ne ha visti e avuti in mano parecchi, pensa che siano le lische di qualche pesce che esso unisce e lega insieme, intrecciandole, le une per lungo, le altre per traverso, e modellando curve e rotondità, sicché infine ne forma un vascello rotondo atto a navigare; poi, quando ha finito di costruirlo, lo espone all’urto dei flutti marini, e il mare, percuotendolo dolcemente, gli insegna a racconciare quello che non è ben legato, e a rafforzare i punti in cui vede che la struttura si disfa e si allenta per i colpi del mare; e al contrario, quello che è ben legato, l’urto del mare lo stringe e lo serra in modo che non può rompersi né sciogliersi, né esser danneggiato da colpi di pietra o di ferro, se non con gran difficoltà. E quello che è più da ammirare, è la proporzione e la forma della cavità interna: poiché è composta e proporzionata in modo che non può ricevere né accogliere altro che l’uccello che l’ha costruita: infatti per ogni altra cosa è impenetrabile, chiusa e serrata al punto che nulla può entrarvi, nemmeno l’acqua del mare. Ecco una descrizione molto chiara di questa costruzione, e presa da buona fonte; tuttavia mi sembra che non ci chiarisca ancora sufficientemente la difficoltà di questa architettura. Ora, da quale vanità ci può derivare il porre al di sotto di noi e l’interpretare con disprezzo i fatti che non possiamo imitare né comprendere?

Per portare ancora un po’ più lontano questa somiglianza e corrispondenza fra noi e le bestie, il privilegio di cui si gloria la nostra anima, di ridurre alla propria condizione tutto ciò che concepisce, di spogliare delle qualità mortali e corporee tutto ciò che entra in essa, di costringere le cose che stima degne della propria familiarità a svestirsi e spogliarsi delle loro condizioni corruttibili, e di far loro abbandonare, come vesti superflue e vili, lo spessore, la lunghezza, la profondità, il peso, il colore, l’odore, la ruvidezza, la levigatezza, la durezza, la mollezza, e tutti gli accidenti sensibili, per adeguarle alla propria condizione immortale e spirituale: in modo che la Roma e la Parigi che ho nell’anima, la Parigi che immagino, la immagino e la comprendo senza grandezza e senza estensione, senza pietra, senza gesso e senza legno; questo stesso privilegio, dico, sembra appartenere molto evidentemente alle bestie; infatti un cavallo abituato alle trombe, alle archibugiate e ai combattimenti, quando lo vediamo scuotersi e fremere nel sonno, steso sulla sua lettiera, come se fosse in mezzo alla mischia, è certo che concepisce nella sua anima un suono di tamburo senza rumore, un esercito senz’armi e senza corpo:

Quippe videbis equos fortes, cum membra iacebunt

In sommis, sudare tamen, spirareque sæpe,

Et quasi de palma summas contendere vires.I 103

Quella lepre che un levriere immagina in sogno, e dietro la quale lo vediamo ansare dormendo, allungare la coda, scuotere i garretti e riprodurre alla perfezione i movimenti della corsa, è una lepre senza pelo e senz’ossa,

Venantumque canes in molli sæpe quiete

Iactant crura tamen subito, vocesque repente

Mittunt, et crebras reducunt naribus auras,

Ut vestigia si teneant inventa ferarum.

Expergefactique sequuntur inania sæpe

Cervorum simulachra, fugæ quasi dedita cernant:

Donec discussis redeant erroribus ad se.II 104

I cani da guardia, che vediamo spesso brontolare nel sonno, e poi guaire d’un tratto e svegliarsi di soprassalto, come se vedessero arrivare qualche estraneo; questo estraneo che la loro anima vede è un uomo in spirito, e impercettibile, senza dimensione, senza colore e senza essere:

consueta domi catulorum blanda propago

Degere, sæpe levem ex oculis volucremque soporem

Discutere, et corpus de terra corripere instant,

Proinde quasi ignotas facies atque ora tueantur.I 105

Quanto alla bellezza del corpo, prima di passare oltre mi bisognerebbe sapere se siamo d’accordo sulla sua definizione. È verosimile che non sappiamo affatto che cosa sia la bellezza in natura e in generale, poiché alla bellezza umana e nostra diamo tante forme diverse: [C] se ci fosse per essa qualche regola naturale, saremmo tutti d’accordo nel riconoscerla, come il calore del fuoco. Noi ne immaginiamo le forme a nostro piacimento.

[B]Turpis Romano Belgicus ore color.II 106

[A] Gli Indiani la dipingono nera e bruna, con le labbra grosse e gonfie, il naso largo e schiacciato. [B] E caricano di grossi anelli d’oro la cartilagine fra le narici per farla pendere fino alla bocca, e così il labbro inferiore di grossi cerchi ornati di gemme, sicché esso cade loro sul mento; ed è grazia per loro mostrare i denti fin sotto le radici. Nel Perù, le orecchie più grandi sono le più belle, e le allargano quanto più possono con artifici [C]: e un uomo dei nostri giorni107 dice di aver visto tanto in voga presso un popolo orientale questa cura di ingrandirle, e di caricarle di pesanti gioielli, che senza alcuna difficoltà poteva passare il proprio braccio con la manica e tutto attraverso il foro di un orecchio. [B] Ci sono altrove popoli che si anneriscono i denti con gran cura, e hanno in dispregio di vederli bianchi; altrove li tingono di rosso. [C] Non solo fra i Baschi le donne si ritengono più belle con la testa rasata, ma anche altrove; e per di più in certe contrade glaciali, come dice Plinio. [B] Le Messicane annoverano fra le bellezze la piccolezza della fronte, e mentre si radono il pelo in tutto il resto del corpo, sulla fronte lo fanno crescere e lo infoltiscono ad arte; e hanno in così gran pregio la grandezza delle mammelle che ostentano di poter dare la poppa ai loro bambini di sopra la spalla: [A] noi rappresenteremmo così la bruttezza. Gli Italiani la dipingono108 grossa e massiccia, gli Spagnoli scavata e strigliata; e fra noi, uno la fa bianca, l’altro bruna; uno tenera e delicata, l’altro forte e vigorosa; chi la vuole dolce e leggiadra, chi fiera e maestosa. [C] Allo stesso modo l’eccellenza nella bellezza che Platone attribuisce alla figura sferica,109 gli epicurei la danno piuttosto a quella piramidale o quadrata, e non possono mandar giù un dio a forma di palla. [A] Ma comunque sia, la natura non ci ha privilegiati in questo più che nel resto al di sopra delle sue leggi comuni. E se ci giudichiamo bene, vedremo che se ci sono alcuni animali meno favoriti in questo di noi, ce ne sono altri, e in gran numero, che lo sono di più. [C] A multis animalibus decore vincimur,I 110 e proprio fra i terrestri, nostri compatrioti; poiché quanto a quelli marini (tralasciando la forma, che non può paragonarsi, tanto è diversa), in colore, nettezza, levigatezza, agilità, noi la cediamo loro d’assai; e non meno, in ogni qualità, a quelli dell’aria. [A] E quella prerogativa che i poeti fanno tanto valere, della nostra posizione eretta, rivolta verso il cielo, sua origine,

Pronaque cum spectent animalia cætera terram,

Os homini sublime dedit cælumque videre

Iussit, et erectos ad sydera tollere vultus,II 111

è davvero poetica: poiché ci sono parecchie bestiole che hanno lo sguardo assolutamente rivolto verso il cielo; e il collo dei cammelli e degli struzzi lo trovo ancor più alto e dritto del nostro. [C] Quali animali non hanno la faccia in alto, e in avanti, e non guardano di fronte come noi, e non vedono nella loro normale posizione altrettanto cielo e altrettanta terra dell’uomo? E quali caratteri della nostra conformazione fisica, com’è descritta da Platone e da Cicerone, non possono applicarsi a mille specie di bestie? [A] Quelle che ci assomigliano di più sono le più brutte e le più abiette di tutta la schiera; infatti, per l’aspetto esterno e la forma del viso, sono le bertucce:

[C]Simia quam similis, turpissima bestia, nobis,III 112

[A] per l’interno e le parti vitali, è il porco. Certo, quando considero l’uomo tutto nudo (anche in quel sesso che sembra dotato di maggior bellezza), le sue tare, la sua natura soggetta a tante imperfezioni, trovo che abbiamo avuto più ragione di coprirci di qualsiasi altro animale. Siamo scusabili di aver preso lana, piuma, pelo, seta da quelli che la natura aveva favorito in questo più di noi, per ornarci della loro bellezza e nasconderci sotto le loro spoglie. Notiamo del resto che siamo il solo animale il cui difetto offenda i nostri propri compagni, e i soli ad esser costretti, nei nostri atti naturali, a nasconderci dai nostri simili. Davvero è un fatto degno di considerazione anche che i maestri del mestiere ordinino come rimedio alle passioni amorose la vista intera e libera del corpo che si desidera; che, per raffreddare l’amore, basti veder liberamente quello che si ama,

Ille quod obscænas in aperto corpore partes

Viderat, in cursu qui fuit, hæsit amor.I 113

E benché questa ricetta possa forse venire da un’indole un po’ delicata e tepida, tuttavia è un segno straordinario della nostra imperfezione che la pratica e la conoscenza ci disgusti gli uni degli altri. [B] Non è tanto pudore, quanto arte e prudenza, che rende le nostre dame così circospette nel proibirci l’ingresso ai loro gabinetti prima di essersi imbellettate e acconciate per mostrarsi in pubblico,

[A]Nec veneres nostras hoc fallit: quo magis ipsæ

Omnia summopere hos vitæ postscenia celant,

Quos retinere volunt adstrictoque esse in amore.II 114

Laddove, in molti animali, non c’è parte di essi che non amiamo e che non piaccia ai nostri sensi: tanto che perfino dai loro escrementi e dalla loro secrezione ricaviamo non solo leccornie da mangiare, ma i nostri più ricchi ornamenti e profumi.

Questo discorso riguarda solo la nostra norma comune, e non è tanto sacrilego da volervi comprendere quelle divine, soprannaturali e straordinarie bellezze che si vedono a volte risplendere fra noi, come astri sotto un velo corporeo e terrestre.115

Del resto, quella stessa parte dei favori della natura che accordiamo agli animali, per nostra ammissione, è per loro molto vantaggiosa. Noi ci attribuiamo dei beni immaginari e fantastici, dei beni futuri e assenti, dei quali le capacità umane non possono da sole rispondere; o dei beni che ci attribuiamo falsamente per la licenza della nostra opinione, come la ragione, la scienza e l’onore; mentre agli animali lasciamo in sorte dei beni essenziali, tangibili e palpabili: la pace, la tranquillità, la sicurezza, l’innocenza e la salute; la salute, dico, il dono più ricco e più bello che la natura ci possa fare. Tanto che la filosofia, perfino quella stoica,116 a ragione osa dire che Eraclito e Ferecide, se avessero potuto scambiare la loro saggezza con la salute, e liberarsi con tale mercato l’uno dall’idropisia, l’altro dal morbo petecchiale che lo tormentava, avrebbero fatto bene. Con questo, danno alla saggezza, paragonandola e contrapponendola alla salute, un pregio ancora maggiore di quanto facciano in quest’altra proposizione, che è pure loro. Essi dicono che se Circe avesse presentato a Ulisse due beveraggi, uno per far diventare un uomo da folle saggio, l’altro da saggio folle, Ulisse avrebbe dovuto accettare quello della follia piuttosto che consentire a Circe di mutare la sua figura umana in quella di una bestia. E dicono che la saggezza stessa gli avrebbe parlato in questo modo: «Lasciami, abbandonami, piuttosto che farmi alloggiare nella forma e nel corpo di un asino». Come? quella grande e divina sapienza, i filosofi l’abbandonano dunque per questo velo corporeo e terrestre? Non è dunque più per la ragione, per la favella e per l’anima che noi eccelliamo sulle bestie: è per la nostra bellezza, il nostro bel colorito e la bella disposizione delle nostre membra per la quale dobbiamo abbandonare la nostra intelligenza, la nostra prudenza e tutto il resto. Ora, io accetto questa franca e schietta confessione. Certo essi si sono accorti che quelle qualità per le quali tanto ci rallegriamo non sono che vane fantasie. Dunque, quand’anche le bestie avessero tutta la virtù, la scienza, la saggezza e la dottrina stoica, sarebbero sempre delle bestie: e non sarebbero pertanto paragonabili a un uomo miserabile, malvagio e dissennato. [C] Insomma, tutto ciò che non è come noi non ha alcun valore. E Dio stesso, per farsi valere, bisogna che ci assomigli, come diremo presto. Per cui è chiaro che [A] non è per un vero ragionamento, ma per una folle superbia e ostinazione che ci mettiamo al di sopra degli altri animali e ci isoliamo dalla loro condizione e compagnia.

Ma per tornare al mio discorso, noi abbiamo per parte nostra l’incostanza, l’irresolutezza, l’incertezza, il dolore, la superstizione, la preoccupazione per le cose future, ovvero per l’al di là, l’ambizione, l’avarizia, la gelosia, l’invidia, i desideri sregolati, forsennati e indomabili, la guerra, la menzogna, la slealtà, la calunnia e la curiosità. Certo, abbiamo davvero strapagato quella bella ragione di cui ci gloriamo, e quella capacità di giudicare e di conoscere, se l’abbiamo acquistata al prezzo di questo numero infinito di passioni alle quali siamo continuamente in preda. [B] Se non vogliamo fare ancora valere, come fa appunto Socrate,117 quella notevole prerogativa sugli altri animali per cui, mentre la natura ha loro prescritto determinate stagioni e limiti per i piaceri di Venere, a noi ha lasciato briglia sciolta in tutti i momenti e in tutte le occasioni. [C] Ut vinum ægrotis, quia prodest raro, nocet sæpissime, melius est non adhibere omnino, quam, spe dubiæ salutis, in apertam perniciem incurrere: sic haud scio an melius fuerit humano generi motum istum celerem cogitationis, acumen, solertiam, quam rationem vocamus, quoniam pestifera sint multis, admodum paucis salutaria, non dari omnino, quam tam munifice et tam large dari.I 118 [A] Di quale utilità possiamo ritenere sia stata per Varrone e per Aristotele la loro intelligenza di tante cose? Li ha forse esentati dai disagi umani? Sono stati liberati dagli accidenti che affliggono un facchino? Hanno tratto dalla logica qualche consolazione alla gotta? Per aver saputo come questo umore si insinua nelle giunture, lo hanno sentito meno? Sono venuti a patti con la morte, sapendo che alcuni popoli se ne rallegrano, e con l’esser becchi, sapendo che in alcune contrade le donne sono in comune? Al contrario, benché abbiano occupato il primo posto per il sapere, l’uno fra i Romani, l’altro fra i Greci, e nell’età in cui la scienza era più fiorente, non abbiamo tuttavia saputo che abbiano avuto qualche particolare eccellenza nella loro vita; anzi il greco ha abbastanza da fare per liberarsi di alcune notevoli macchie119 nella sua.

[B] Si è forse trovato che la voluttà e la salute siano più saporite per colui che conosce l’astrologia e la grammatica,

Illiterati num minus nervi rigent?II 120

e la vergogna e la povertà meno fastidiose?

Scilicet et morbis et debilitate carebis,

Et luctum et curam effugies, et tempora vitæ

Longa tibi post hæc fato meliore dabuntur.III 121

Ho visto al tempo mio cento artigiani, cento contadini, più saggi e più felici di molti rettori d’università, e ai quali preferirei assomigliare. La scienza, a mio parere, trova posto fra le cose necessarie alla vita, come la gloria, la nobiltà, la dignità, o al massimo come la bellezza, la ricchezza e altre simili qualità che sono, sì, utili, ma alla lontana, e un po’ più per capriccio che per natura. [C] Non ci bisognano affatto più cariche, regole e leggi per vivere nella nostra società, di quante ne occorrano alle gru e alle formiche nella loro. E nondimeno vediamo che queste vi si conducono con perfetto ordine senza istruzione. Se l’uomo fosse saggio, stimerebbe ogni cosa al suo giusto prezzo, secondo che fosse più utile e più adatta alla sua vita. [A] Chi ci stimerà secondo le nostre azioni e la nostra condotta, troverà un maggior numero di persone eccellenti fra gli ignoranti che fra i dotti: dico in ogni sorta di virtù. L’antica Roma mi sembra averne prodotti di maggior valore, e in pace e in guerra, di quella Roma dotta che si distrusse da sola. A parità di tutto il resto, la probità e l’innocenza, almeno, rimarrebbero dalla parte dell’antica, poiché essa si concilia particolarmente bene con la semplicità.

Ma lascio questo discorso, che mi porterebbe più lontano di quanto vorrei andare. Dirò ancora soltanto questo, che solo l’umiltà e la sottomissione possono fare un uomo dabbene. Non bisogna lasciare al giudizio di ciascuno la conoscenza del proprio dovere, bisogna prescriverglielo, non lasciarlo scegliere a suo senno: altrimenti, a causa della debolezza e dell’infinita varietà delle nostre ragioni e opinioni, ci fabbricheremmo alla fine dei doveri che ci porterebbero a mangiarci l’un l’altro, come dice Epicuro.122 La prima legge che Dio abbia mai dato all’uomo fu una legge di pura obbedienza, fu un comandamento nudo e semplice sul quale l’uomo non avesse nulla da apprendere e da discutere [C], poiché l’obbedire è il primo dovere di un’anima ragionevole che riconosca un superiore e benefattore celeste. Dall’obbedire e dal cedere nasce ogni altra virtù, come dall’orgoglio ogni peccato. [B] E al contrario, la prima tentazione che venne alla natura umana da parte del diavolo, il suo primo veleno, si insinuò in noi per le promesse che ci fece di scienza e di conoscenza, eritis sicut dii, scientes bonum et malum.I 123 [C] E le sirene per abbindolare Ulisse, in Omero,124 e attirarlo nei loro pericolosi e rovinosi lacci, gli offrono in dono la scienza. [A] La peste dell’uomo è la presunzione di sapere. Ecco perché l’ignoranza ci è tanto raccomandata dalla nostra religione, come qualità propria alla fede e all’obbedienza. [C] Cavete ne quis vos decipiat per philosophiam et inanes seductiones secundum elementa mundi.I 125

[A] Tutti i filosofi di tutte le sette sono d’accordo in questo, che il bene supremo consiste nella tranquillità dell’anima e del corpo. [B] Ma dove la troviamo?

[A]Ad summum sapiens uno minor est Iove: dives,

Liber, honoratus, pulcher, rex denique regum;

Præcipue sanus, nisi cum pituita molesta est.II 126

Sembra in verità che la natura, per consolarci del nostro stato miserabile e meschino, ci abbia dato in sorte solo la presunzione. È quello che dice Epitteto:127 che l’uomo non ha nulla di veramente suo se non l’uso delle proprie opinioni. Non abbiamo in sorte che vento e fumo. [B] Gli dèi hanno la salute per essenza, dice la filosofia, e la malattia per conoscenza: l’uomo, al contrario, possiede i propri beni per fantasia, i mali per essenza. [A] Abbiamo avuto ragione di far valere le forze della nostra immaginazione: poiché tutti i nostri beni non sono che sogno. Ascoltate vantarsi questo povero e disgraziato animale: «Nulla è così dolce» dice Cicerone «come occuparsi delle lettere: di quelle lettere, dico, per mezzo delle quali l’infinità delle cose, l’immensa grandezza della natura, i cieli in questo stesso mondo e le terre e i mari ci si rivelano; sono esse che ci hanno insegnato la religione, la moderazione, la magnanimità; e che hanno strappato la nostra anima dalle tenebre per farle vedere tutte le cose, alte, basse, prime, ultime e medie; sono esse che ci forniscono di che viver bene e felici, e ci guidano a trascorrere la nostra vita senza dolore e senza sofferenza».128 Costui non sembra parlare della condizione di Dio onnipresente e onnipotente? E in realtà mille donnicciole hanno vissuto in un villaggio una vita più tranquilla, più dolce e più costante della sua.

[A2]Deus ille fuit, Deus, inclute Memmi,

Qui princeps vitæ rationem invenit eam, quæ

Nunc appellatur sapientia, quique per artem

Fluctibus e tantis vitam tantisque tenebris

In tam tranquillo et tam clara luce locavit.I 129

Ecco parole oltremodo magnifiche e belle; ma un lievissimo accidente mise il cervello di costui in uno stato peggiore di quello del più vile pastore, nonostante quel dio maestro e quella divina sapienza. [A] Egualmente impudente è [C] quella promessa del libro di Democrito: «Parlerò di tutte le cose». E quello sciocco titolo che Aristotele ci dà, di dèi mortali. E [A] quel giudizio di Crisippo,130 che Dione era virtuoso quanto Dio. E il mio Seneca riconosce, dice, che Dio gli ha dato la vita, ma che dipende da lui viverla bene [C]; conformemente a quest’altro: In virtute vere gloriamur; quod non contingeret, si id donum a deo, non a nobis haberemus.II 131 E questo pure è di Seneca: che in fortezza il saggio è simile a Dio, mantenendo tuttavia la sua umana debolezza; per cui lo supera.132 [A] Niente è più comune che imbattersi in passi di simile temerità. Non c’è nessuno di noi che si offenda tanto nel vedersi paragonare a Dio, quanto nel vedersi abbassare al livello degli altri animali: a tal punto siamo più solleciti del nostro interesse che di quello del nostro creatore. Ma bisogna calpestare questa sciocca vanità, e scuotere violentemente e coraggiosamente le ridicole fondamenta su cui si costruiscono queste false opinioni. Fintanto che penserà di avere qualche potere e qualche forza in sé, l’uomo non riconoscerà mai ciò che deve al suo padrone: gabellerà sempre le sue uova per galline, come si dice; bisogna metterlo in camicia. Vediamo qualche notevole esempio133 degli effetti della sua filosofia. Posidonio, afflitto da una malattia tanto dolorosa che gli faceva torcer le braccia e digrignare i denti, pensava di fottersi del dolore gridando contro di lui: «Hai un bel fare, tanto non dirò che tu sia male». Costui sente le stesse sofferenze del mio servo, ma si vanta perché trattiene almeno la lingua sotto le leggi della sua setta. [C] Re succumbere non oportebat verbis gloriantem.III 134 Arcesilao era malato di gotta. Carneade andato a visitarlo e tornandosene via tutto afflitto, egli lo richiamò e, mostrandogli i piedi e il petto: «Niente è passato da lì a qui» gli disse. Questo qui è più fine. Infatti sente di aver male e vorrebbe esserne liberato. Tuttavia, da questo male il suo cuore non è abbattuto e infiacchito. L’altro si chiude nella sua fermezza, più verbale, temo, che essenziale. E Dionisio di Eraclea, tormentato da un violento bruciore agli occhi, fu costretto ad abbandonare quelle risoluzioni stoiche. [A] Ma anche se la scienza facesse veramente ciò che dicono, cioè smussare e mitigare l’asprezza delle disgrazie che ci perseguitano, che altro farebbe se non quello che fa l’ignoranza con molto maggiore semplicità ed evidenza? Il filosofo Pirrone, mentre in mare correva i rischi di una grande burrasca, mostrava a quelli che erano con lui, come esempio da imitare, soltanto la sicurezza di un porco che viaggiava con loro e guardava quella tempesta senza spavento.135 Alla fine dei suoi precetti, la filosofia ci rimanda agli esempi di un atleta e di un mulattiere, nei quali si vede, in genere, assai minor apprensione della morte, del dolore e di altri inconvenienti, e maggior fermezza di quanto la scienza ne abbia mai fornito a chiunque non vi fosse già preparato e disposto da sé per inclinazione naturale. Che altro fa sì che si incidano e si taglino le tenere membra di un fanciullo più facilmente delle nostre, se non l’ignoranza? E quelle di un cavallo? Quanti non ha reso malati la sola forza dell’immaginazione? Vediamo comunemente persone che si fanno salassare, purgare e curare per guarire dei mali che sentono solo nella loro mente. Quando i veri mali ci mancano, la scienza ci presta i suoi: «Questo colore e questa cera vi preannunciano qualche flussione catarrale; questa stagione calda vi minaccia un attacco di febbre; questo taglio della linea della vita nella vostra mano sinistra vi avverte di qualche grave e prossima indisposizione». E infine essa si volge direttamente contro la salute stessa: «Questo ardore e vigore di giovinezza non può rimanere in questo stato, bisogna togliergli sangue e forza, nel timore che si volga contro voi stessi». Paragonate la vita di un uomo schiavo di tali immaginazioni a quella di un contadino che si lascia andare alla propria tendenza naturale, misurando le cose solo secondo la sensazione del momento, senza scienza e senza pronostici, che ha male solo quando ce l’ha; mentre spesso l’altro ha la pietra nell’animo prima di averla nei reni: come se non fosse abbastanza in tempo per patire il male quando l’avrà, lo anticipa con la fantasia, e gli corre incontro.

Quello che dico della medicina, può estendersi a mo’ d’esempio a tutte le scienze in generale. Di qui è venuta quell’antica opinione dei filosofi che riponevano il sommo bene nel riconoscere la debolezza del nostro giudizio. La mia ignoranza mi offre tanti motivi di speranza quanti di timore, e non avendo altra misura per la mia salute che quella degli esempi altrui e di ciò che vedo accadere altrove in casi simili, ne trovo di ogni specie e mi fermo ai paragoni che mi sono più favorevoli. Accolgo la salute a braccia aperte, libera, piena e intera, e aguzzo la mia voglia di goderla, tanto più che ora è per me meno consueta e più rara: tanto son lontano dal turbare la sua pace e la sua dolcezza con l’amarezza di una nuova e costretta forma di vita. Le bestie ci mostrano a sufficienza quante malattie ci procura l’agitazione del nostro spirito. [C] Ciò che ci narrano di quelli del Brasile,136 che morivano solo di vecchiaia, e che si attribuisce alla serenità e tranquillità della loro aria, io lo attribuisco piuttosto alla tranquillità e serenità della loro anima, libera da ogni passione e pensiero e occupazione impegnativa o spiacevole, come gente che passava la propria vita in una mirabile semplicità e ignoranza, senza istruzione, senza leggi, senza re, senza religione veruna. [A] E da che cosa deriva quel che si vede per esperienza, che i più grossolani e rozzi sono più forti e più desiderabili nelle pratiche amorose, e che l’amore di un mulattiere si rende spesso più gradevole di quello di un galantuomo, se non dal fatto che in quest’ultimo l’agitazione dell’anima turba la sua forza fisica, la fiacca e la stanca? [A2] Come, di solito, essa stanca e turba anche se stessa. Chi la squilibra, chi più spesso la spinge alla pazzia se non la sua prontezza, il suo acume, la sua agilità e infine la sua stessa forza? [B] Da che cosa nasce la più sottile follia se non dalla più sottile saggezza? Come dalle grandi amicizie nascono grandi inimicizie, dalle saluti vigorose le malattie mortali, così dalle rare e vive emozioni delle nostre anime, le pazzie più straordinarie e più bizzarre: non c’è che un mezzo giro di bischero per passare dall’una all’altra. [A2] Nelle azioni dei mentecatti vediamo come propriamente la follia si accordi con le più vigorose operazioni dell’anima nostra. Chi non sa quanto sia impercettibile la distanza fra la follia e le ardite elevazioni di uno spirito libero e gli effetti di una virtù suprema e straordinaria? Platone dice che i malinconici sono più disposti alla scienza e più eccellenti: e non ve ne sono altri che abbiano altrettanta propensione alla follia. Infiniti spiriti sono travolti dalla loro stessa forza e duttilità. Che salto ha fatto ora, per la propria concitazione e il proprio fervore, un uomo fra i più perspicaci, ingegnosi e formati allo spirito di quell’antica e pura poesia che vi sia stato da lungo tempo tra i poeti italiani?137 Non lo deve egli a quella sua letale vivacità? A quella chiarezza che l’ha accecato? A quella precisa e tesa apprensione della ragione che lo ha reso senza ragione? Alla curiosa e laboriosa indagine delle scienze che l’ha condotto alla stupidità? A quella rara attitudine agli esercizi dell’anima che l’ha ridotto senza esercizio e senz’anima? Io provai ancor più dispetto che compassione vedendolo a Ferrara in uno stato così pietoso, sopravvivere a se stesso, disconoscere e sé e le sue opere che, a sua insaputa, e tuttavia sotto i suoi occhi, son state date alle stampe scorrette e informi.138 Volete un uomo sano, lo volete ben regolato e in posizione salda e sicura? Avvolgetelo di tenebre, di ozio e di torpore. [C] Bisogna istupidirci per farci rinsavire, e abbacinarci per dirigerci.

[A] E se mi si dice che il vantaggio di avere la sensibilità fredda e ottusa ai dolori e ai mali trae con sé lo svantaggio di renderci anche, di conseguenza, meno svegli e vogliosi nel godimento dei beni e dei piaceri, questo è vero; ma la miseria della nostra condizione fa sì che non abbiamo tanto da gioire quanto da fuggire, e che il sommo piacere ci tocca meno di un lieve dolore: Segnius homines bona quam mala sentiunt.I 139 La perfetta salute la sentiamo meno della minima malattia,

pungit

In cute vix summa violatum plagula corpus,

Quando valere nihil quemquam movet. Hoc iuvat unum,

Quod me non torquet latus aut pes: cætera quisquam

Vix queat aut sanum sese, aut sentire valentem.II 140

Il nostro benessere non è che privazione di malessere. Ecco perché la setta filosofica che ha dato più importanza alla voluttà, l’ha anche ridotta alla sola assenza di dolore. Il non avere alcun male è il massimo bene che l’uomo possa sperare, [C] come diceva Ennio:

Nimium boni est, cui nihil est mali.III 141

[A] Infatti anche quel prurito e quello stimolo che si trova in certi piaceri e che sembra sollevarci al di sopra della semplice salute e dell’assenza di dolore, quella voluttà attiva, eccitante e, non so come, cocente e mordente, anch’essa mira soltanto, come a suo fine, all’assenza di dolore. La brama che ci trascina al rapporto con le donne non tende che a scacciare il fastidio che ci dà il desiderio ardente e furioso, e non chiede che di saziarlo per poi riposarsi libero da quella febbre. Così gli altri. Dico dunque che se la semplicità ci porta a non avere alcun male, ci porta a uno stato molto felice secondo la nostra condizione.

[C] Tuttavia non bisogna immaginarsela così greve da essere assolutamente senza sapore. Poiché Crantore aveva certo ragione142 di combattere l’assenza di dolore di Epicuro, se la si stabiliva così profonda da non avvertire nemmeno le avvisaglie e la nascita dei mali. Io non approvo affatto questa assenza del dolore che non è né possibile né desiderabile. Sono contento di non essere malato ma se lo sono voglio sapere che lo sono, e se mi cauterizzano o mi incidono, voglio sentirlo. Invero, chi sradicasse la cognizione del male, estirperebbe contemporaneamente la cognizione del piacere, e infine annienterebbe l’uomo. Istud nihil dolere, non sine magna mercede contingit immanitatis in animo, stuporis in corpore.I 143 Il male talvolta è per l’uomo un bene. Né egli deve sempre fuggire il dolore, né sempre cercare il piacere.

[A] È un gran vantaggio a onore dell’ignoranza che la scienza stessa ci spinga fra le sue braccia, quando si trova nell’impossibilità di rafforzarci contro il peso dei mali: essa è costretta a venire a questo patto, di allentarci le briglie e darci licenza di rifugiarci nel seno di lei, e metterci sotto la sua protezione al riparo dai colpi e dalle ingiurie della fortuna. Infatti, che altro vuol dire, quando ci esorta a [C] distrarre il nostro pensiero dai mali che ci opprimono e a volgerlo ai piaceri perduti, e a [A] servirci, come consolazione dei mali presenti, del ricordo dei beni passati, e a chiamare in nostro aiuto una gioia svanita per opporla a ciò che ci affligge [C], levationes ægritudinum in avocatione a cogitanda molestia et revocatione ad contemplandas voluptates ponit,II 144 [A] se non che, quando le manca la forza, vuol servirsi dell’astuzia, e fare un agile sgambetto quando il vigore del corpo e delle braccia le viene a mancare? Infatti, non solo per un filosofo, ma semplicemente per un uomo di senno, quando sente in concreto l’alterazione cocente di una forte febbre, che moneta è quella di ripagarlo col ricordo della dolcezza del vino greco? [B] Sarebbe piuttosto peggiorare il suo stato,

Che ricordarsi il ben doppia la noia.145

[A] Della stessa specie è quest’altro consiglio che dà la filosofia, di serbare nella memoria soltanto la felicità passata, e di cancellarne i dispiaceri che abbiamo sofferto, come se la scienza dell’oblio fosse in nostro potere. [C] E consiglio per il quale, ancora una volta, ci troviamo a star peggio.

Suavis est laborum præteritorum memoria.I 146

[A] Come? la filosofia, che deve mettermi in mano le armi per combattere la fortuna, che deve rafforzarmi l’animo perché io possa calpestare tutte le avversità umane, arriva a questa viltà di farmi sgattaiolare con siffatti strattagemmi codardi e ridicoli? Infatti la memoria ci presenta non ciò che scegliamo, ma ciò che vuole. Anzi, non c’è nulla che ci imprima così vivamente qualcosa nel ricordo come il desiderio di dimenticarla: è un buon metodo per dare qualcosa in custodia alla nostra anima e imprimervela, il sollecitarla a scordarsene. [C] E questo è falso: Est situm in nobis, ut et adversa quasi perpetua oblivione obruamus, et secunda iucunde et suaviter meminerimus.II 147 E questo è vero: Memini etiam quæ nolo, oblivisci non possum quæ volo.III 148 [A] E di chi è questo consiglio? Di colui qui se unus sapientem profiteri sit ausus,IV 149

Qui genus humanum ingenio superavit, et omnes

Præstrinxit stellas, exortus uti ætherius sol.V 150

Vuotare e smantellare la memoria non è la vera e propria strada verso l’ignoranza? Iners malorum remedium ignorantia est.VI 151 Vediamo molti precetti simili con i quali ci viene permesso di prendere in prestito dal volgo delle frivole apparenze, quando la ragione viva e forte non ha potere sufficiente, purché esse ci servano di soddisfazione e di consolazione. Quando non possono guarire la piaga, si accontentano di addormentarla e mascherarla. Credo che non mi negheranno questo, che se potessero dare ordine e costanza a uno stato di vita che si mantenesse nel piacere e nella tranquillità a costo di qualche debolezza e infermità d’intelletto, lo accetterebbero:

potare et spargere flores

Incipiam, patiarque vel inconsultus haberi.I 152

Si troverebbero parecchi filosofi del parere di Lica: costui, avendo per il resto costumi assai moderati, vivendo dolcemente e pacificamente nella sua famiglia, senza mai mancare all’adempimento dei propri doveri verso i suoi e verso gli estranei, tenendosi lontano dalle cose nocive, per una qualche alterazione dei sensi si era messo in mente una fantasia; pensava cioè di essere continuamente a teatro e di assistere a divertimenti, a spettacoli e alle più belle commedie del mondo. Guarito che fu dai medici di questo umore maligno, per poco non fece loro causa perché gli rendessero la dolcezza di quelle fantasticherie,

pol! me occidistis, amici,

Non servastis, ait, cui sic extorta voluptas,

Et demptus per vim mentis gratissimus error.II 153

Con capriccio simile a quello di Trasilao, figlio di Pitodoro, il quale credeva che tutte le navi che salpavano dal porto del Pireo e che vi attraccavano lavorassero solo al suo servizio: e si rallegrava del buon esito della loro navigazione, e le accoglieva con gioia. Quando suo fratello Critone lo ebbe fatto ritornare in sé, rimpiangeva quello stato nel quale aveva vissuto pieno di letizia e libero da ogni dispiacere. È quel che dice questo antico verso greco, che c’è gran vantaggio a non essere tanto saggi,

ν τ ϕρονεν γρ µηδν διστος βίος,III 154

e l’Ecclesiaste: «In molta saggezza molto dolore, e chi acquista scienza, acquista travaglio e tormento».155 E quella cosa sulla quale in generale la filosofia si trova d’accordo, quell’ultima ricetta che essa prescrive per ogni specie di malanno, che è di por fine alla vita che non possiamo sopportare [C]: Placet? Pare. Non placet? quacunque vis, exi.I 156 Pungit dolor, vel fodiat sane: si nudus es, da iugulum; sin tectus armis Vulcaniis, id est fortitudine, resiste.II 157 E quel detto dei banchetti greci di cui essi si servono in questo caso: aut bibat, aut abeatIII (che suona meglio nella lingua di un guascone, che cambia facilmente la B in V, che non in quella di Cicerone),158

[A]Vivere si recte nescis, decede peritis.

Lusisti satis, edisti satis atque bibisti:

Tempus abire tibi est, ne potum largius æquo

Rideat et pulset lasciva decentius ætas,IV 159

Saggi
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