[A] Così essi giudicavano che la generazione dell’anima seguisse la comune condizione delle cose umane, come pure la sua vita, secondo l’opinione di Epicuro e di Democrito, che è stata la più diffusa, in base a queste belle ragioni: che la si vedeva nascere via via che il corpo ne era capace; si vedevano aumentare le sue forze come quelle corporali; vi si riconosceva la debolezza dell’infanzia e col tempo il vigore e la maturità; e poi il declino e la vecchiaia e infine la decrepitezza,
gigni pariter cum corpore, et una
Crescere sentimus, pariterque senescere mentem.I 385
La vedevano capace di diverse passioni e agitata da parecchi impulsi penosi, per i quali cadeva nella prostrazione e nel dolore, capace di alterazione e di mutamento, di allegrezza, di assopimento e di languore, soggetta alle sue malattie e infermità come lo stomaco o il piede,
[B]mentem sanari, corpus ut ægrum
Cernimus, et flecti medicina posse videmus,II 386
[A] sconvolta e turbata dalla forza del vino; scossa nel suo equilibrio dai vapori d’una febbre violenta, addormentata per l’applicazione di alcuni medicamenti, e risvegliata da altri:
[B]corpoream naturam animi esse necesse est,
Corporeis quoniam telis ictuque laborat.III 387
[A] La si vedeva ottundere e sovvertire tutte le sue facoltà per il solo morso di un cane malato, e che non c’era nessuna fermezza di ragionamento, per quanto grande, nessuna dottrina, nessuna virtù, nessuna risoluzione filosofica, nessuna tensione delle sue forze che potesse liberarla dalla soggezione a questi accidenti: si vedeva la saliva di un vile mastino, colata sulla mano di Socrate, sconvolgere tutta la sua saggezza, e tutti i suoi grandi e tanto ordinati pensieri annientarli in modo che non rimanesse alcuna traccia della sua conoscenza precedente,
[B]vis animaï
Conturbatur …………… et divisa seorsum
Disiectatur, eodem illo distracta veneno.IV 388
[A] E questo veleno non trovar maggior resistenza in quest’anima che in quella di un bambino di quattro anni; veleno capace di far diventare tutta la filosofia, se fosse incarnata, furiosa e insensata: tanto che Catone, che si metteva sotto i piedi perfino la morte e la fortuna, non avrebbe potuto sopportare la vista d’uno specchio o dell’acqua, oppresso da spavento e da terrore, quando fosse stato colto, per il contagio d’un cane arrabbiato, dalla malattia che i medici chiamano idrofobia:
[B]vis morbi distracta per artus
Turbat agens animam, spumantes æquore salso
Ventorum ut validis fervescunt viribus undæ.I 389
[A] Ora, riguardo a questo punto, la filosofia ha certo armato l’uomo, per sopportare tutti gli altri accidenti, o di pazienza o, se questa è troppo difficile da trovare, di una scappatoia infallibile, cioè di privarsi totalmente di sentimento; ma sono mezzi che servono a un’anima che sia in sé e in possesso delle proprie forze, capace di ragionamento e di riflessione; non in quest’infortunio per cui l’anima d’un filosofo diventa l’anima d’un pazzo, turbata, sconvolta e perduta. Cosa che parecchie circostanze producono: come un’agitazione troppo violenta che per qualche forte passione l’anima può generare in sé, o una ferita in una certa parte della persona, o dei vapori di stomaco che ci provochino uno svenimento e un giramento di testa,
[B]morbis in corporis, avius errat
Sæpe animus: dementit enim, deliraque fatur;
Interdumque gravi Lethargo fertur in altum
Æternumque soporem, oculis nutuque cadenti.II 390
[A] I filosofi, mi sembra, non hanno toccato affatto questa corda. [C] E neppure un’altra di uguale importanza. Per consolare la nostra condizione mortale, hanno sempre in bocca questo dilemma: «O l’anima è mortale o è immortale. Se è mortale, sarà libera da ogni pena; se è immortale, andrà a star meglio». Non toccano mai l’altro corno: «Che ne sarà se andrà a star peggio?» E lasciano ai poeti le minacce delle pene future. Ma in tal modo si danno buon gioco. Sono due omissioni che spesso mi si presentano nei loro discorsi. Ritorno alla prima. [A] Quest’anima perde il gusto del supremo bene stoico, così costante e così saldo. Bisogna che la nostra bella saggezza si arrenda a questo punto e ceda le armi.
Del resto, essi ritenevano anche che per la vanità della ragione umana la mescolanza e l’unione di due parti così diverse come il mortale e l’immortale fosse inimmaginabile:
Quippe etenim mortale æterno iungere, et una
Consentire putare, et fungi mutua posse,
Desipere est. Quid enim diversius esse putandum est,
Aut magis inter se disiunctum discrepitansque,
Quam mortale quod est, immortali atque perenni
Iunctum, in concilio sævas tolerare procellas?I 391
Inoltre sentivano l’anima avviarsi alla morte come il corpo,
[B]simul ævo fessa fatiscit:II 392
[C] cosa che, secondo Zenone,393 l’immagine del sonno ci rappresenta a sufficienza, poiché egli ritiene che sia un venir meno e un cadere dell’anima come del corpo: Contrahi animum et quasi labi putat atque concidere.III 394 [A] E il riscontrare che in alcuni essa conservava la sua forza e il suo vigore fino alla fine della vita, lo attribuivano alla diversità delle malattie, come si vedono gli uomini, in quel punto estremo, conservare chi un senso, chi un altro, chi l’udito, chi l’odorato, senza alterazione; e non si vede alcun indebolimento così totale che non rimanga qualche parte integra e vigorosa:
[B]Non alio pacto quam si, pes cum dolet ægri,
In nullo caput interea sit forte dolore.IV 395
La vista del nostro giudizio può avvicinarsi alla verità quanto l’occhio del barbagianni allo splendore del sole, come dice Aristotele.396 Come potremmo meglio persuadercene che con tali grossolani accecamenti di fronte a una luce tanto evidente? [A] Di fatto l’opinione contraria, dell’immortalità dell’anima, [C] che Cicerone dice397 esser stata per la prima volta introdotta, almeno in base alla testimonianza dei libri, da Ferecide di Siro, al tempo del re Tullo (altri ne attribuiscono l’idea a Talete ed altri ad altri), [A] è la parte della scienza umana trattata con maggiori riserve e dubbi. I dogmatici più decisi sono costretti soprattutto su questo punto a rifugiarsi al riparo delle ombre dell’Accademia. Nessuno sa che cosa Aristotele ha affermato su questo argomento, [C] non più di tutti gli antichi in generale, che lo trattano con pareri vacillanti: rem gratissimam promittentium magis quam probantium.I 398 [A] Egli si è celato sotto il velame di parole e significati difficili e non intelligibili, e ha lasciato ai suoi seguaci da discutere tanto sul suo giudizio quanto sulla materia. Due cose rendevano loro plausibile quest’opinione. Una, che senza l’immortalità delle anime non ci sarebbe più di che sostenere le vane speranze di gloria: considerazione, questa, che gode di un credito straordinario nel mondo. L’altra, che è una percezione utilissima, come dice Platone,399 che i vizi, quand’anche sfuggano alla vista oscura e incerta della giustizia umana, rimangono sempre esposti a quella divina, che li perseguiterà anche dopo la morte dei colpevoli. [C] L’uomo è assillato da una preoccupazione estrema di allungare la propria esistenza: vi ha provveduto per tutte le sue parti. Per la conservazione del corpo ci sono le sepolture; per la conservazione del nome, la gloria. Insofferente della propria sorte, ha messo in opera tutto il suo pensiero per ricostruirsi e per puntellarsi con le sue invenzioni. L’anima, non potendo reggersi per il suo turbamento e la sua debolezza, va cercando dovunque consolazioni, speranze e fondamenti in circostanze estranee, dove si attacca e si radica. E per quanto lievi e fantastiche gliele fabbrichi l’immaginazione, vi si adagia con maggior sicurezza che in se stessa, e più facilmente. [A] Ma i più ostinati in questa così giusta e chiara convinzione dell’immortalità dei nostri spiriti, è stupefacente come siano rimasti senza parole e impotenti a stabilirla con le loro forze umane. [C] Somnia sunt non docentis, sed optantis,II 400 diceva un antico. [A] L’uomo può riconoscere da questa testimonianza che è debitore alla fortuna e al caso della verità che scopre da solo, poiché anche quando gli è capitata fra le mani, non ha modo di afferrarla e conservarla, e la sua ragione non ha la forza di valersene. Tutte le cose prodotte dal nostro ragionamento e dal nostro ingegno, siano vere siano false, sono soggette a incertezza e discussione. È per punire la nostra superbia e dimostrarci la nostra miseria e incapacità che Dio provocò il disordine e la confusione dell’antica torre di Babele. Tutto quello che intraprendiamo senza il suo aiuto, tutto quello che vediamo senza la lampada della sua grazia, non è che vanità e follia. L’essenza stessa della verità, che è uniforme e costante, quando la fortuna ce ne dà il possesso, la corrompiamo e l’imbastardiamo con la nostra debolezza. Per qualunque strada l’uomo s’incammini, Dio permette che arrivi sempre a questa medesima confusione, della quale ci mostra un’immagine così viva col giusto castigo con cui colpì l’oltracotanza di Nembrot e annientò la vana impresa della costruzione della sua piramide: [C] Perdam sapientiam sapientium, et prudentiam prudentium reprobabo.I 401 [A] La diversità di idiomi e di lingue con cui sconvolse quell’opera, che altro è se non quell’infinito e perpetuo alterco e contrasto di opinioni e di ragioni che accompagna e turba il vano edificio della scienza umana? [C] E lo turba utilmente. Chi ci terrebbe a freno, se avessimo un solo granello di conoscenza? Mi ha fatto molto piacere quel santo: Ipsa utilitatis occultatio aut humilitatis exercitatio est, aut elationis attritio.CII 402 Fino a qual punto di presunzione e d’insolenza non portiamo il nostro accecamento e la nostra stoltezza? [A] Ma per riprendere il mio discorso: era veramente molto giusto che fossimo debitori a Dio soltanto, e al beneficio della sua grazia, della verità di una così nobile credenza, poiché dalla sua sola liberalità riceviamo il frutto dell’immortalità, che consiste nel godimento della beatitudine eterna. [C] Confessiamo sinceramente che Dio solo ce lo ha detto, e la fede: poiché non è lezione della natura né della nostra ragione. E chi riconsidererà il suo essere e le sue forze, e dentro e fuori, senza questo privilegio divino; chi guarderà l’uomo senza lusinghe, non vi vedrà efficacia né facoltà che sappia d’altro se non di morte e di terra. Quanto più noi diamo e dobbiamo e rendiamo a Dio, tanto più cristianamente ci comportiamo. Ciò che quel filosofo stoico dice di aver avuto dal fortuito consenso della voce popolare, non era meglio che lo avesse avuto da Dio? Cum de animarum æternitate disserimus, non leve momentum apud nos habet consensus hominum aut timentium inferos, aut colentium. Utor hac publica persuasione.I 403
[A] Ora la debolezza degli argomenti umani a questo proposito si vede in particolare dalle favolose circostanze che essi hanno aggiunto a quest’opinione, per trovare di che genere fosse questa nostra immortalità. [C] Lasciamo da parte gli stoici – Usuram nobis largiuntur tanquam cornicibus: diu mansuros aïunt animos; semper negant –II 404 i quali danno alle anime una vita al di là di questa, ma finita. [A] L’opinione più diffusa e più generalmente accettata, e che perdura fino a noi in diversi luoghi, è stata quella di cui si fa autore Pitagora, non perché ne sia stato il primo inventore, ma perché essa ricevette molto peso e credito dall’autorità del suo appoggio. Cioè che le anime, separandosi da noi, non facevano che girare da un corpo a un altro, da un leone a un cavallo, da un cavallo a un re, passeggiando così senza sosta, di casa in casa. [C] E lui diceva405 di ricordarsi di essere stato Etalide, poi Euforbo, in seguito Ermotimo, infine da Pirro essere passato in Pitagora, avendo memoria di se stesso da duecentosei anni. Alcuni aggiungevano che talvolta queste anime risalgono al cielo e poi ne discendono di nuovo.
O pater, anne aliquas ad cælum hinc ire putandum est
Sublimes animas iterumque ad tarda reverti
Corpora? Quæ lucis miseris tam dira cupido?III 406
Origene le fa andare e venire eternamente da un buono a un cattivo stato.407 L’opinione che Varrone espone è che in quattrocentoquaranta anni di rivoluzione esse si ricongiungono al loro primo corpo. Crisippo, che ciò deve accadere dopo un certo spazio di tempo non determinato.408 Platone, che dice di derivare da Pindaro e dall’antica poesia questa credenza delle infinite vicissitudini di mutamento alle quali l’anima è preparata, non avendo nell’altro mondo pene o ricompense se non temporali, poiché la sua vita in questo non è che temporale, conclude che essa possiede una straordinaria conoscenza delle cose del cielo, dell’inferno e di qui, dove è passata, ripassata e ha soggiornato in parecchi viaggi: materia per la sua reminiscenza.409 Ecco altrove il suo processo: chi ha vissuto bene, si ricongiunge all’astro al quale è assegnato; chi male, passa in una donna, e se anche allora non si emenda, si muta di nuovo in bestia di condizione conforme ai suoi costumi viziosi; e non vedrà fine alle sue punizioni finché non sarà tornato alla sua primitiva costituzione, liberatosi, per virtù di ragione, dalle qualità grossolane, stupide ed elementari che erano in lui. [A] Ma non voglio tacere l’obiezione che muovono gli epicurei a questa trasmigrazione da un corpo all’altro. È arguta. Essi domandano che ordine si osserverebbe se la folla dei morenti fosse più grande di quella dei nascenti: poiché le anime sloggiate dalla loro sede verrebbero ad accalcarsi per prender posto per prime in questo nuovo astuccio. E domandano anche come passerebbero il tempo, aspettando che fosse loro apprestato un alloggio. O al contrario, se nascessero più animali di quanti ne morissero, dicono che i corpi si troverebbero a mal partito, aspettando l’infusione della loro anima, e accadrebbe che alcuni di questi morirebbero prima di esser stati vivi:
Denique connubia ad veneris partusque ferarum
Esse animas præsto deridiculum esse videtur,
Et spectare immortales mortalia membra
Innumero numero, certareque præproperanter
Inter se, quæ prima potissimaque insinuetur.I 410
Altri hanno trattenuto l’anima nel corpo dei defunti per animarne i serpenti, i vermi e altre bestie che si dice si generino dalla corruzione delle nostre membra, e anche dalle nostre ceneri. Altri la dividono in una parte mortale e in una immortale. Altri la fanno corporea, e tuttavia immortale. Alcuni la fanno immortale, senza scienza e senza conoscenza. Ce ne sono anche che hanno ritenuto che dalle anime dei condannati si facessero dei diavoli (e alcuni dei nostri411 hanno pensato così); come Plutarco pensa che da quelle che si sono salvate si facciano degli dèi. Di fatto vi sono poche cose che quell’autore stabilisca in termini tanto decisi come questa, mentre altrove mantiene sempre un tono dubitativo e ambiguo. «Bisogna ritenere» dice «e credere fermamente che le anime degli uomini virtuosi secondo natura e secondo la giustizia divina divengano, da uomini, santi, e da santi, semidèi, e da semidèi, dopo che sono perfettamente mondi e purificati come nei sacrifici di purgazione, liberati da ogni passibilità e mortalità, divengano, non per alcuna legge civile, ma in verità e secondo verosimile ragione, dèi interi e perfetti, ottenendo una fine oltremodo felice e gloriosa».412 Ma chi lo vorrà vedere, lui che pure è fra i più contenuti e moderati della compagnia, battagliare con maggior arditezza e raccontarci i suoi miracoli a questo proposito, lo rimando al suo discorso della Luna e del Demone di Socrate, dove, con maggiore evidenza che in qualsiasi altro luogo, si può verificare che i misteri della filosofia hanno molte stranezze in comune con quelle della poesia: perché l’intelletto umano si perde nel voler sondare e controllare tutte le cose fino in fondo; allo stesso modo che, stanchi e affaticati della lunga corsa della vita, ricadiamo nell’infantilismo.
Ecco i begli e sicuri insegnamenti che ricaviamo dalla scienza umana a proposito della nostra anima. Non c’è minore stoltezza in quello che essa ci insegna delle parti del corpo. Scegliamo un esempio o due, altrimenti ci perderemmo in questo mare torbido e vasto degli errori della medicina. Vediamo se si è d’accordo almeno su questo: di qual materia gli uomini si generino gli uni dagli altri. [C] Di fatto, quanto alla loro originaria generazione, non c’è da meravigliarsi se, in una cosa tanto alta e antica, l’intelletto umano si turba e si disperde. Il fisico Archelao,413 del quale, secondo Aristosseno, Socrate fu il discepolo e il beniamino, diceva che sia gli uomini sia gli animali erano stati fatti da un limo lattiginoso spremuto dal calore della terra. [A] Pitagora dice che il nostro seme è la schiuma del nostro sangue migliore; Platone, la secrezione del midollo della spina dorsale, il che egli argomenta dal fatto che questa parte risente per prima della stanchezza dell’atto; Alcmeone, parte della sostanza del cervello, e a riprova, dice, gli occhi si confondono a chi si dedica oltre misura a tale esercizio; Democrito, una sostanza estratta da tutta la massa del corpo; Epicuro, estratta dall’anima e dal corpo; Aristotele, un escremento tratto dall’alimento del sangue, l’ultimo che si diffonde nelle nostre membra; altri, sangue cotto e digerito per il calore dei genitali, cosa che pensano per il fatto che negli sforzi estremi si mandano fuori gocce di sangue puro: e in questo sembra che vi sia maggiore verosimiglianza, se si può ricavare qualche verosimiglianza da una così infinita confusione. Ora, su come portare a compimento questo seme, quante opinioni contrarie esprimono? Aristotele e Democrito ritengono che le donne non hanno affatto sperma, e che è soltanto un sudore che emettono per il calore del piacere e del movimento, che non serve a nulla per la generazione. Galeno e i suoi seguaci al contrario, che senza l’incontro dei semi, la generazione non può avvenire. Ecco i medici, i filosofi, i giureconsulti e i teologi alle prese, insieme alle nostre donne, nel disputare sul termine entro il quale le donne portano a compimento il loro frutto. Ed io soccorro col mio stesso esempio quelli fra loro che sostengono la gravidanza di undici mesi. Il mondo è fondato su questa esperienza, non c’è semplice donnicciola che non possa dire il suo parere su tutte queste contestazioni, e tuttavia non riusciremmo a metterci d’accordo.
Eccone abbastanza per provare che, quanto alla conoscenza di se stesso, l’uomo non è più informato per la parte fisica che per quella spirituale. Abbiamo proposto lui a lui stesso, e la sua ragione alla sua ragione, per vedere che cosa essa ce ne avrebbe detto. Mi sembra di aver dimostrato a sufficienza quanto poco essa comprenda di sé. [C] E chi non comprende se stesso, che cosa può comprendere? quasi vero mensuram ullius rei possit agere, qui sui nesciat.I 414 Davvero Protagora ce ne raccontava delle belle, facendo dell’uomo la misura di tutte le cose,415 l’uomo che non conobbe mai neppure la sua. Se non lo ha lui, la sua dignità non permetterà mai che un’altra creatura abbia questo privilegio. Ora, essendo egli così contraddittorio in se stesso, e un giudizio contrastando l’altro senza posa, questa favorevole proposizione non era che uno scherno che ci portava a concludere necessariamente la nullità del compasso e del misuratore. Quando Talete ritiene416 la conoscenza dell’uomo difficilissima per l’uomo, gli insegna che la conoscenza di ogni altra cosa gli è impossibile.
[A] Voi,417 per cui mi sono preso la briga di sciorinare un così lungo discorso contro la mia abitudine, non mancherete di sostenere il vostro Sebond con la forma usuale di argomentazione che ogni giorno vi è insegnata, ed eserciterete in questo il vostro spirito e il vostro studio: infatti quest’ultima mossa bisogna usarla solo come estremo rimedio. È un colpo disperato, nel quale bisogna che abbandoniate le vostre armi per far perdere al vostro avversario le sue, e una mossa segreta della quale bisogna servirsi di rado e con parsimonia: è una grande temerità perdere se stessi per rovinare un altro. [B] Non bisogna voler morire per vendicarsi, come fece Gobria:418 infatti, mentre combatteva corpo a corpo con un signore di Persia, sopraggiunse Dario con la spada in pugno, ed esitando a colpire per paura di cogliere Gobria, questi gli gridò che colpisse senz’altro, anche se avesse dovuto trapassarli entrambi. [C] E armi e condizioni di lotta così disperate che è del tutto incredibile che l’uno o l’altro si possa salvare, le ho viste condannare quando sono state proposte.419 I Portoghesi presero nel mare delle Indie quattordici Turchi i quali, insofferenti della prigionia, si risolsero, e ci riuscirono, a ridurre in cenere se stessi e i loro padroni e il vascello, strofinando l’uno contro l’altro dei chiodi di nave, finché una scintilla di fuoco non cadde sui barili di polvere da cannone che si trovavano lì.420 [A] Noi sconvolgiamo qui i limiti e le ultime barriere delle scienze, in cui l’eccesso è vizioso, come nella virtù. [A2] Tenetevi sulla strada comune, non è bene essere tanto sottili e acuti. Ricordatevi di quel che dice il proverbio toscano, Chi troppo s’assottiglia si scavezza.421 [A] Vi consiglio, nelle vostre opinioni e nei vostri discorsi, come nei vostri costumi e in ogni altra cosa, la moderazione e la temperanza, e di rifuggire la novità e la stravaganza. Tutte le strade fuori dall’ordinario mi irritano. Voi che per l’autorità che la vostra grandezza vi conferisce, e ancor più per i privilegi che vi danno le vostre qualità più personali, potete con un batter di ciglio comandare a chi vi piace, dovevate affidare quest’incarico a uno che facesse professione di lettere, che vi avrebbe ben altrimenti sostenuto e arricchito questa fantasia. Tuttavia eccovene quanto basta per l’uso che dovete farne.
Epicuro diceva delle leggi422 che perfino le peggiori ci erano tanto necessarie che senza di esse gli uomini si divorerebbero fra loro. [C] E Platone quasi lo stesso,423 cioè che senza leggi vivremmo come bestie brute: e si prova a dimostrarlo. [A] Il nostro spirito è uno strumento vagabondo, pericoloso e temerario: è difficile accompagnarvi l’ordine e la misura. E al tempo mio, quelli che hanno qualche raro pregio al disopra degli altri e qualche vivacità fuori dell’ordinario, li vediamo quasi tutti sconfinare in licenza d’opinioni e di costumi. È un miracolo incontrarne uno pacato e trattabile. Si ha ragione di porre allo spirito umano barriere più strette possibile. Nello studio, come nel resto, bisogna contare e regolare i suoi passi: bisogna assegnargli ad arte i limiti della sua caccia. [A2] Lo si imbriglia e lo si vincola con religioni, leggi, costumi, scienza, precetti, pene e ricompense mortali e immortali: e tuttavia si vede che per la sua volubilità e dissolutezza sfugge a tutti questi lacci. È un corpo vacuo, che non si sa da che parte afferrare e dove dirigere; un corpo diverso e di molteplici forme, su cui non si può stringere un nodo né far presa. [B] Certo vi sono poche anime tanto regolate, forti e ben nate nel cui comportamento si possa avere fiducia, e che possano con moderazione e senza temerità vogare nella libertà dei loro giudizi, al di là delle opinioni comuni. È più opportuno metterle sotto tutela. È una spada pericolosa lo spirito, per il suo stesso possessore, se uno non sa armarsene con regola e discrezione. [C] E non c’è bestia alla quale con maggior ragione occorra mettere dei paraocchi per tenere il suo sguardo obbligato e costretto davanti ai suoi passi, e impedirle di vagare qua e là fuori delle carreggiate che l’uso e le leggi le tracciano. [A] Per cui sarà meglio per voi tenervi sul sentiero battuto, quale che sia, piuttosto che lanciarvi a volo in questa sfrenata licenza. Ma se qualcuno di questi nuovi dottori424 si mette a far l’ingegnoso in vostra presenza, a spese della sua salute e della vostra, per liberarvi di questa peste pericolosa che si diffonde tutti i giorni nelle vostre corti, questo rimedio, nell’estremo bisogno, impedirà che il contagio di questo veleno colpisca voi e la vostra compagnia.
La libertà e la vivacità di quegli spiriti antichi produceva dunque nella filosofia e nelle scienze umane parecchie sette di differenti opinioni, ciascuno mettendosi a giudicare e a scegliere per prender partito. Ma ora [C] che gli uomini vanno tutti per una strada, qui certis quibusdam destinatisque sententiis addicti et consecrati sunt, ut etiam quæ non probant, cogantur defendere,I 425 e [A] che accogliamo le arti per autorità e ordinanza civile, [C] sicché le scuole hanno un solo maestro e una dottrina e disciplina uguale e circoscritta, [A] non si guarda più quel che le monete pesano e valgono, ma ognuno per parte sua le intasca secondo il valore che dà loro il corso e l’approvazione comune. Non si discute della lega, ma dell’uso: e così si ammettono ugualmente tutte le cose. Si accoglie la medicina come la geometria, e le ciarlatanerie, gli incantesimi, le fatture, la comunicazione con gli spiriti dei defunti, i pronostici, le case zodiacali, e perfino quella ridicola ricerca della pietra filosofale, tutto si ammette senza discussione. Basta sapere che il monte di Marte è situato in mezzo al triangolo della mano, quello di Venere al pollice, e di Mercurio al mignolo; e che quando la linea del cuore taglia il monte di Giove è segno di crudeltà, quando finisce sotto il medio, e la linea della testa fa un angolo con la linea della vita nello stesso punto, è segno di una morte miseranda.426 Che se in una donna la linea della testa è aperta e non chiude l’angolo con quella della vita, questo indica che sarà poco casta. Chiamo voi stessa a testimone se con questa scienza un uomo non può esser accolto con stima e onore in ogni compagnia.
Teofrasto diceva427 che la conoscenza umana, guidata dai sensi, poteva giudicare le cause delle cose fino a un certo punto, ma arrivata alle cause ultime e prime bisognava che si fermasse e ripiegasse: o per la sua debolezza o per la difficoltà delle cose. È un’opinione media e accomodante, che la nostra capacità possa condurci fino alla conoscenza di alcune cose, e che abbia determinati limiti di potenza oltre i quali è temerità impiegarla. Quest’opinione è plausibile e introdotta da persone concilianti; ma è difficile porre dei limiti al nostro spirito: è curioso e avido, e non ha ragione di fermarsi a mille passi piuttosto che a cinquanta. Avendo provato per esperienza che ciò in cui uno era fallito, un altro vi è riuscito; e che ciò che era ignoto a un secolo, il secolo successivo lo ha chiarito; e che le scienze e le arti non si gettano in uno stampo, ma si formano e si modellano a poco a poco, maneggiandole e rifinendole a più riprese, come gli orsi abbelliscono i loro piccoli leccandoli e rileccandoli: quello che le mie facoltà non possono scoprire, non smetto di sondarlo e saggiarlo; e ritastando e impastando questa nuova materia, agitandola e riscaldandola, apro a colui che mi segue qualche possibilità di goderne più a suo agio, e gliela rendo più duttile e maneggevole,
ut hymettia sole
Cera remollescit, tractataque pollice, multas
Vertitur in facies, ipsoque fit utilis usu.I 428
Altrettanto farà il secondo col terzo: sicché la difficoltà non deve farmi disperare, e nemmeno la mia impotenza, poiché è soltanto mia. L’uomo è capace di tutte le cose, come di nessuna; e se confessa, come dice Teofrasto, l’ignoranza delle cause prime e dei principi, lasci andare senza esitazione tutto il resto della sua scienza: se gli manca il fondamento, il suo ragionamento cade a terra; il discutere e il cercare non ha altro scopo né altra meta che i principi; se questo fine non arresta la sua corsa, egli cade in preda a una irresoluzione infinita. [C] Non potest aliud alio magis minusve comprehendi, quoniam omnium rerum una est definitio comprehendendi.I 429 [A] Ora, è verosimile che se l’anima conoscesse qualche cosa, conoscerebbe prima di tutto se stessa, e se conoscesse qualche cosa al di fuori di sé, conoscerebbe il suo corpo e il suo astuccio prima di ogni altra cosa. Se vediamo anche oggi gli dèi della medicina disputare della nostra anatomia,
Mulciber in Troiam, pro Troia stabat Apollo,II 430
quando ci aspettiamo che si troveranno d’accordo? Noi siamo più vicini a noi stessi di quanto ci sia vicina la bianchezza della neve o la pesantezza della pietra. Se l’uomo non si conosce, come può conoscere le sue funzioni e le sue forze? Non già che forse qualche vera cognizione non alberghi in noi, ma è per caso. E poiché gli errori entrano nella nostra anima per la stessa via, allo stesso modo e con lo stesso procedimento, essa non ha modo di distinguerli né di discernere la verità dalla menzogna.
Gli accademici ammettevano431 qualche inclinazione di giudizio, e trovavano troppo duro dire che non era più verosimile che la neve fosse bianca piuttosto che nera, e che non fossimo più sicuri del movimento di una pietra che parte dalla nostra mano piuttosto che di quello dell’ottava sfera. E per evitare questa difficoltà e stranezza, che in verità non può alloggiare nella nostra immaginazione che a fatica, benché sostenessero che non siamo in alcun modo capaci di sapere, e che la verità è sommersa entro profondi abissi dove la vista umana non può penetrare, riconoscevano tuttavia che alcune cose sono più verosimili di altre, e ammettevano nel loro giudizio questa facoltà di potersi piegare piuttosto a un’apparenza che a un’altra: gli permettevano questa propensione, vietandogli ogni risoluzione.
L’opinione dei pirroniani432 è più ardita e al tempo stesso più verosimile. Infatti questa inclinazione accademica e questa propensione verso una proposizione piuttosto che un’altra, che altro è se non il riconoscimento di qualche verità più evidente in questa che in quella? Se il nostro intelletto fosse capace di discernere la forma, i lineamenti, il portamento e il volto della verità, la vedrebbe altrettanto bene intera che a metà, nascente e imperfetta. Questa apparenza di verosimiglianza che li fa inclinare a sinistra piuttosto che a destra, aumentatela; quest’oncia di verosimiglianza che fa pendere la bilancia, moltiplicatela per cento, per mille once, alla fine accadrà che la bilancia prenderà partito del tutto, e decreterà una scelta e una verità intera. Ma come possono lasciarsi piegare alla verosimiglianza, se non conoscono il vero? Come possono conoscere la sembianza di ciò di cui non conoscono l’essenza? O possiamo giudicare del tutto, o del tutto non possiamo. Se le nostre facoltà intellettuali e sensibili sono senza fondamento e senza base, se non fanno che ondeggiare e andar dietro al vento, non c’è ragione di lasciare che il nostro giudizio sia attratto da qualcuna delle loro operazioni, qualunque apparenza di verità essa sembri presentare; e lo stato più sicuro del nostro intelletto, e il più felice, sarebbe quello in cui si mantenesse calmo, dritto, inflessibile, senza movimento e senza agitazione. [C] Inter visa vera aut falsa ad animi assensum nihil interest.I 433
[A] Che le cose non alberghino in noi nella loro forma e nella loro essenza, e che non vi entrino di lor propria forza e autorità, lo vediamo bene. Perché se fosse così, le riceveremmo nella stessa maniera: il vino sarebbe uguale nella bocca del malato come nella bocca del sano. Colui che ha le dita screpolate o intirizzite troverebbe il legno o il ferro che maneggia non più duro di quanto lo troverebbe un altro. Gli oggetti estranei si rendono dunque alla nostra mercé e albergano in noi come a noi piace. Ora, se da parte nostra ricevessimo qualcosa senza alterazione, se le forze umane fossero abbastanza salde e capaci per afferrare la verità con i nostri propri mezzi, essendo tali mezzi comuni a tutti gli uomini, questa verità passerebbe di mano in mano dall’uno all’altro. E si troverebbe almeno una cosa al mondo, fra tante che ce ne sono, che sarebbe creduta dagli uomini con consenso universale. Ma il fatto che non si veda alcuna proposizione che non sia dibattuta e controversa fra noi, o che non possa esserlo, mostra bene che il nostro giudizio naturale non afferra molto chiaramente ciò che afferra. Di fatto il mio giudizio non può farlo ammettere al giudizio del mio compagno: il che è segno che io l’ho afferrato con qualche altro mezzo che non una naturale facoltà che sia in me e in tutti gli uomini.
Lasciamo da parte quell’infinita confusione di opinioni che si vede fra gli stessi filosofi, e quella perpetua e universale controversia sulla conoscenza delle cose. Infatti si presuppone molto veracemente che su nessuna cosa gli uomini, dico i sapienti, i più dotati, i più competenti, siano d’accordo, nemmeno sul fatto che il cielo sia sulla nostra testa: poiché quelli che dubitano di tutto, dubitano anche di questo; e quelli che negano che possiamo comprendere alcunché, dicono che non abbiamo compreso che il cielo sia sulla nostra testa; e queste due opinioni sono numericamente, senza confronto, le più forti. Oltre a questa diversità e divisione infinita, dal turbamento che il nostro giudizio ci causa, e dall’incertezza che ognuno sente in sé, è facile vedere che il suo assetto è assai malfermo. In quanti modi diversi giudichiamo le cose? Quante volte cambiamo idea? Quello che ritengo oggi e quello che credo, lo ritengo e lo credo con tutta la mia capacità di credere; tutti i miei mezzi e tutti i miei riflessi sostengono quest’opinione e me ne danno garanzia per quanto possono, non potrei abbracciare alcuna verità né conservarla con maggior forza di questa. Mi ci son dato intero, mi ci son dato veramente. Ma non mi è forse successo, non una volta, ma cento, ma mille, e tutti i giorni, di aver abbracciato qualche altra cosa con questi stessi strumenti, in questa stessa maniera, e averla poi giudicata falsa? Bisogna almeno diventar saggi a proprie spese. Se spesso mi son trovato tradito da questa vernice, se la mia pietra di paragone si rivela di solito falsa, e la mia bilancia inesatta e ingiusta, come posso esserne sicuro questa volta più delle altre? Non è una sciocchezza lasciarmi imbrogliare tante volte da una guida? Tuttavia, che la fortuna ci muova cinquecento volte di posto, che non faccia che vuotare e riempire continuamente, come un vaso, la nostra credulità di opinioni sempre diverse, la presente e l’ultima è sempre quella certa e infallibile. Per essa bisogna abbandonare i beni, l’onore, la vita e la salute e tutto,
posterior res illa reperta,
Perdit, et immutat sensus ad pristina quæque.I 434
[B] Qualsiasi cosa ci si predichi, qualsiasi cosa impariamo, dovremmo sempre ricordarci che è l’uomo che dà e l’uomo che riceve: è una mano mortale che ce la presenta, è una mano mortale che l’accetta. Solo le cose che ci vengono dal cielo hanno diritto e autorità di persuasione, esse sole hanno un marchio di verità; e nemmeno questa la vediamo con i nostri occhi, né la riceviamo con i nostri mezzi: questa santa e grande immagine non potrebbe stare in un alloggio tanto misero, se Dio a questo scopo non lo prepara, se Dio non lo riforma e fortifica con la sua grazia e il suo favore particolare e soprannaturale. [A] La nostra condizione difettosa dovrebbe almeno farci condurre con maggior moderazione e ritegno nei nostri cambiamenti. Dovremmo ricordarci, qualsiasi cosa accogliamo nella nostra mente, che vi accogliamo spesso cose false, e con quegli stessi strumenti che spesso si smentiscono e s’ingannano.
Ora, non c’è da meravigliarsi se si smentiscono, essendo così facili a piegarsi e a distorcersi per lievissime occasioni. È certo che la nostra apprensione, il nostro giudizio e le facoltà della nostra anima in generale soffrono secondo i movimenti e le alterazioni del corpo: alterazioni che sono continue. Non abbiamo forse lo spirito più sveglio, la memoria più pronta, il ragionamento più vivace quando siamo sani che quando siamo malati? La gioia e l’allegria non ci fanno accogliere gli oggetti che si presentano alla nostra anima con tutt’altro volto che il dolore e la malinconia? Pensate che i versi di Catullo o di Saffo sorridano a un vecchio avaro e arcigno come a un giovane vigoroso e ardente? [B] Quando Cleomene, figlio di Anassandride, era malato, i suoi amici gli rimproveravano di avere delle idee e delle fantasie nuove e insolite: «Lo credo bene». fece. «Infatti non sono quello che sono da sano: essendo diverso, sono diverse anche le mie opinioni e fantasie».435 [A] Nel gergo delle nostre corti di giustizia è in uso questo motto, che si dice a proposito dei criminali che trovano giudici ben disposti, clementi e bonari, gaudeat de bona fortuna, goda di questa fortuna: perché è certo che i giudizi si trovano talvolta più proclivi alla condanna, più spinosi e severi, ora invece più miti, propensi e inclini alla scusa. Se uno si porta dietro da casa sua il dolore della gotta, la gelosia, o il furto del servo, avendo l’anima tutta impregnata e imbevuta di collera, non c’è dubbio che il suo giudizio sull’imputato ne sarà alterato. [B] Quel venerabile senato dell’Areopago giudicava di notte, per paura che la vista delle parti in causa corrompesse la sua giustizia. [A] Perfino l’aria e la serenità del cielo causano in noi dei cambiamenti, come dice questo verso greco in Cicerone,
Tales sunt hominum mentes, quali pater ipse
Iuppiter auctifera lustravit lampade terras.I 436
Non sono soltanto le febbri, i beveraggi e i gravi accidenti che sconvolgono il nostro giudizio: le minime cose lo fanno girare. E non c’è dubbio, ancorché non ce ne accorgiamo, che se la febbre continua può abbattere la nostra anima, la febbre terzana vi apporta qualche alterazione, secondo il suo grado e la sua forza. Se l’apoplessia estingue e spegne del tutto la luce della nostra intelligenza, non c’è dubbio che il raffreddore la offusca. E quindi si può cogliere appena un’ora sola nella vita in cui il nostro giudizio si trovi nel suo debito assetto, essendo il nostro corpo soggetto a tanti continui mutamenti e corredato di tante molle che, a sentire i medici, è davvero difficile che non ce ne sia sempre qualcuna che tiri di traverso.
Del resto, questa malattia non si scopre tanto facilmente, se non è proprio gravissima e irrimediabile: poiché la ragione va sempre storta e zoppicante e sciancata, e con la menzogna e con la verità. Così è difficile scoprire il suo errore e traviamento. Chiamo sempre ragione quell’apparenza di raziocinio che ognuno fabbrica in sé; questa ragione, della cui specie ce ne possono essere cento contrarie riguardo a uno stesso oggetto, è uno strumento di piombo e di cera, allungabile, pieghevole e adattabile per ogni verso e ad ogni misura: non resta che l’abilità di saperlo modellare. Per quante buone intenzioni abbia un giudice, se non si esamina per bene, della qual cosa pochi si danno pensiero, l’inclinazione all’amicizia, alla parentela, alla bellezza e alla vendetta, e non solo cose di tanto peso, ma quell’istinto fortuito che ci fa preferire una cosa piuttosto che un’altra e che ci induce, senza il permesso della ragione, alla scelta fra due oggetti uguali, o qualche ombra di eguale vanità possono insinuare insensibilmente nel suo giudizio il favore o l’avversione per una causa, e far pendere la bilancia. Io che mi spio più da vicino, che ho gli occhi incessantemente fissi su me stesso, come chi non ha molto da fare altrove,
quis sub Arcto
Rex gelidæ metuatur oræ,
Quod Tyridatem terreat, unice
a malapena oserei dire quanta vanità e debolezza trovo in me. Ho il piede così instabile e malsicuro, lo trovo così facile a cedere e così pronto a vacillare, e la mia vista così sregolata, che a digiuno mi sento tutt’altro che dopo il pasto; se la salute mi ride e la serenità di una bella giornata, eccomi amabile; se ho un callo che mi fa dolere l’alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile. [B] Una stessa andatura del cavallo mi sembra ora rude, ora dolce, e la stessa strada in questo momento più breve, un’altra volta più lunga; e una stessa forma ora più, ora meno gradevole. [A] Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso. [A2] Mille emozioni disordinate e casuali si producono in me. O mi prende l’umore melanconico, o quello collerico, e ora predomina in me lo scontento con la sua privata autorità, ora l’allegria. [A] Quando prendo dei libri, se avrò scorto nel tal passo delle grazie rare e che avranno colpito la mia anima, che questo mi cada sott’occhio un’altra volta, ho un bel girarlo e rigirarlo, ho un bel piegarlo e maneggiarlo, è per me una massa sconosciuta e informe. [B] Nei miei stessi scritti non sempre ritrovo il tono della mia prima idea: non so che cosa ho voluto dire, e mi nuoccio spesso correggendo e mettendoci un nuovo senso, perché ho perso il primo che era migliore. Non faccio che andare e venire: il mio giudizio non va sempre avanti, ondeggia, vaga qua e là,
velut minuta magno
Deprensa navis in mari vesaniente vento.I 438
Molte volte (come facilmente mi accade di fare), avendo cominciato per esercizio e per divertimento a sostenere un’opinione contraria alla mia, il mio spirito, applicandosi e volgendosi da quella parte, mi ci attacca così bene che non trovo più la ragione della mia prima opinione, e me ne allontano. Mi lascio quasi trascinare dove pendo, comunque sia, e mi lascio portare dal mio peso. Ognuno direbbe pressappoco lo stesso di sé, se si guardasse come me. I predicatori sanno che l’emozione che li prende parlando li incita a credere, e che se siamo in collera ci diamo con maggior slancio alla difesa del nostro assunto, lo imprimiamo in noi e lo abbracciamo con più veemenza e convinzione di quando siamo in uno stato d’animo calmo e riposato. Se esponete semplicemente una causa all’avvocato, quello vi risponde esitante e dubbioso: sentite che gli è indifferente prendere la difesa dell’una o dell’altra parte. L’avete pagato bene perché aderisca alla vostra causa e se la prenda a cuore, comincia a interessarsene, la sua volontà se n’è infiammata? La sua ragione e la sua dottrina se ne infiammano pure: ecco una verità evidente e indiscutibile che gli si presenta alla mente; egli vi scopre una luce tutta nuova, e lo crede in coscienza e così se ne persuade. Invero non so se il fervore che nasce dal dispetto e dall’ostinazione contro la pressione e la violenza del magistrato, e il pericolo, o l’interesse della reputazione, non abbiano spinto qualcuno a sostenere fino al rogo l’opinione per la quale, fra amici e libero, non avrebbe voluto scottarsi la punta d’un dito.
[A] Le spinte e le scosse che la nostra anima riceve dalle passioni del corpo possono molto su di lei, ma ancora di più possono le sue proprie: di cui è preda al punto che, forse, si può sostenere che non abbia altro impulso e altro moto che dal soffio dei suoi venti, e che senza il loro impeto rimarrebbe inerte, come una nave in alto mare abbandonata dal soccorso dei venti. E chi sostenesse questo seguendo l’opinione dei peripatetici non ci farebbe gran torto, poiché è noto che la maggior parte delle più belle azioni dell’anima procedono da quest’impulso delle passioni e ne hanno bisogno. Il valore, dicono, non può esser completo senza l’aiuto della collera:
[C]Sempre Aiax fortis, fortissimus tamen in furore.I 439
Né si dà addosso ai malvagi e ai nemici con sufficiente vigore, se non si è adirati. E si vuole che l’avvocato ispiri l’ira ai giudici per ottenerne giustizia. Brame sfrenate mossero Temistocle, mossero Demostene,440 e hanno spinto i filosofi alle fatiche, alle veglie e alle peregrinazioni; ci conducono all’onore, alla dottrina, alla salute, mete utili. E quella fiacchezza d’animo a soffrire la noia e il fastidio serve ad alimentare nella coscienza la penitenza e il pentimento, e a farci sentire come nostro castigo i flagelli di Dio e i flagelli della punizione politica. [B] La compassione serve di pungolo alla clemenza, e la prudenza nel conservarci e governarci è stimolata dalla nostra paura; e quante belle azioni dall’ambizione, quante dalla presunzione? [A] Insomma, non vi è virtù nobile e gagliarda senza qualche emozione sregolata. Non sarebbe forse una delle ragioni che avrebbe spinto gli epicurei a scaricare Dio da ogni cura e sollecitudine dei nostri affari, in quanto gli effetti stessi della sua bontà per noi non potevano esplicarsi senza turbare il suo riposo per mezzo delle passioni, che sono come punture e sollecitazioni che inducono l’anima alle azioni virtuose? [C] Oppure hanno pensato altrimenti e le hanno intese come tempeste che sviano vergognosamente l’anima dalla sua tranquillità. Ut maris tranquillitas intelligitur, nulla ne minima quidem aura fluctus commovente: sic animi quietus et placatus status cernitur, quum perturbatio nulla est qua moveri queat.I 441 [A] Quali differenze di sentimento e di ragione, quale contraddizione d’immaginazioni ci presenta la diversità delle nostre passioni! Che sicurezza possiamo dunque avere di una cosa così instabile e mobile, soggetta per la sua condizione al dominio del disordine, non procedente mai se non con passo forzato e innaturale? Se il nostro giudizio è preda della malattia stessa e del turbamento, se è dalla follia e dalla temerità che deve ricevere l’impressione delle cose, che sicurezza possiamo averne? [C] Non è ardimento da parte della filosofia pensare che gli uomini compiano le loro più grandi azioni, che più li accostano alla divinità, quando sono fuori di sé, furiosi e insensati? Noi diventiamo migliori quando siamo privi della ragione ed essa è assopita. Le due vie naturali per entrare nel segreto degli dèi e qui prevedere il corso del destino sono il furore e il sonno. È divertente a pensarci. Per il turbamento che le passioni apportano alla nostra ragione, diventiamo virtuosi. Per la sua estirpazione, prodotta dal furore o dall’immagine della morte, diventiamo profeti e indovini. Non le ho mai prestato fede più di buon grado. È un puro entusiasmo che la santa verità ha ispirato allo spirito filosofico, che lo costringe a dichiarare, contro il suo proposito, che lo stato di tranquillità della nostra anima, lo stato calmo, lo stato più sano che la filosofia possa procurarle, non è il suo stato migliore. La nostra veglia è più assonnata del sonno e la nostra saggezza meno saggia della follia. I nostri sogni valgono più dei nostri ragionamenti. Il posto peggiore che possiamo occupare è in noi. Ma essa non pensa che noi abbiamo l’accortezza di osservare442 che la voce che dà forma allo spirito – quando è staccato dall’uomo, così chiaroveggente, così grande, così perfetto, e invece così terrestre, ignorante e pieno di tenebra quando è nell’uomo – è una voce proveniente dallo spirito che è parte dell’uomo terrestre, ignorante e pieno di tenebra: e per questa ragione una voce infida e alla quale non si può credere? [A] Non ho grande esperienza di queste violente emozioni (essendo d’indole fiacca e ponderata), la maggior parte delle quali sorprendono all’improvviso la nostra anima senza darle tempo di aver coscienza di sé. Ma quella passione che si dice esser prodotta dall’ozio nel cuore dei giovani,443 sebbene proceda adagio e con passo misurato, mostra molto chiaramente, in coloro che hanno tentato di opporsi al suo attacco, la forza del mutamento e dell’alterazione che soffre il nostro giudizio. Una volta mi sono proposto di stare all’erta per resisterle e combatterla, poiché, lungi dall’esser di quelli che corrono dietro ai vizi, non li seguo nemmeno, se non mi trascinano. La sentivo nascere, crescere e aumentare a dispetto della mia resistenza; e infine, sveglio e in piena coscienza, afferrarmi e possedermi in maniera che, come in un’ebbrezza, l’immagine delle cose cominciava ad apparirmi diversa dal solito: vedevo chiaramente crescere e aumentare i pregi dell’oggetto che desideravo, e ingrandirsi e gonfiarsi col vento della mia immaginazione; le difficoltà dell’impresa sciogliersi e appianarsi, il mio ragionamento e la mia coscienza tirarsi indietro; ma, svaporato questo fuoco, tutt’a un tratto, come al bagliore d’un lampo, la mia anima riacquistare un altro modo di vedere, un altro stato e un altro giudizio: le difficoltà della ritirata sembrarmi grandi e invincibili, e le stesse cose di gusto e di aspetto ben diverso da come il calore del desiderio me le aveva presentate. Quale più giusto, Pirrone non lo sa. Non siamo mai esenti da malattia. Le febbri sono e calde e fredde: dagli effetti di una passione ardente ricadiamo negli effetti d’una passione fredda. [B] Di quanto mi ero gettato avanti, di tanto mi ributto indietro:
Qualis ubi alterno procurrens gurgite pontus
Nunc ruit ad terras, scopulisque superiacit undam,
Spumeus, extremamque sinu perfundit arenam;
Nunc rapidus retro atque æstu revoluta resorbens
Saxa fugit, littusque vado labente relinquit.I 444
[A] Ora, dalla conoscenza di questa mia volubilità ho per caso formato in me una certa costanza d’opinioni, e non ho troppo alterato le mie primitive e naturali. Di fatto, qualsiasi apparenza di verità vi sia nella novità, non cambio facilmente, per la paura che ho di perdere nel cambio. E poiché non sono capace di scegliere, mi appiglio alla scelta altrui e sto al posto in cui Dio mi ha messo. Altrimenti non saprei impedirmi di girare senza posa. [A2] Così, per grazia di Dio, mi sono conservato fermo, senza agitazione e turbamento di coscienza, nelle antiche credenze della nostra religione, attraverso tante sette e divisioni che il nostro secolo ha prodotto. [A] Gli scritti degli antichi, dico i buoni scritti, ricchi e solidi, mi tentano e mi trasportano quasi dove vogliono: quello che ascolto mi sembra sempre il più forte; trovo che hanno ragione ciascuno a sua volta, sebbene si contraddicano. Questa facilità che hanno i buoni ingegni di rendere verosimile ciò che vogliono, sicché non vi è cosa tanto strana a cui non riescano a dare un colore sufficiente a ingannare un ingenuo come me, mostra evidentemente la debolezza della loro dimostrazione. Il cielo e le stelle hanno ruotato per tremila anni, tutti avevano creduto così, finché Cleante di Samo o, secondo Teofrasto,445 Niceta di Siracusa, pensò di sostenere che era la terra che si muoveva nel cerchio obliquo dello zodiaco, girando intorno al suo asse. E al tempo nostro Copernico ha così ben stabilito questa dottrina che se ne avvale con perfetta esattezza per tutte le deduzioni astronomiche. Che cosa concluderemo da questo, se non che non deve importarci quale delle due opinioni sia vera? E chi sa che una terza opinione, di qui a mille anni, non rovesci le due precedenti?
Sic volvenda ætas commutat tempora rerum:
Quod fuit in pretio, fit nullo denique honore;
Porro aliud succedit, et e contemptibus exit,
Inque dies magis appetitur, floretque repertum
Laudibus, et miro est mortales inter honore.I 446
Quindi, quando ci si presenta qualche nuova dottrina, abbiamo buoni motivi di diffidarne, e di considerare che prima che fosse formulata, la sua contraria era in voga; e come quella è stata rovesciata da questa, potrà nascere in avvenire una terza invenzione che allo stesso modo andrà contro alla seconda. Prima che i principi che Aristotele ha introdotto trovassero credito, altri principi soddisfacevano la ragione umana, come questi ci soddisfano ora. Quali credenziali hanno questi, quale privilegio particolare, perché il corso della nostra invenzione si fermi ad essi, ed essi mantengano per tutto il tempo a venire il dominio delle nostre opinioni? Non sono meno suscettibili d’esser rovesciati di quanto lo fossero quelli anteriori. Quando mi si mette con le spalle al muro con un nuovo argomento, sta a me giudicare che quello a cui io non posso rispondere, un altro vi risponderà: perché credere a tutte le apparenze di verità delle quali non sappiamo disfarci è una grande ingenuità. Accadrebbe così che tutta la gente comune, e noi siamo tutti gente comune, avrebbe un’opinione girevole come una banderuola: perché la loro anima, molle e priva di resistenza, sarebbe costretta a ricevere senza posa sempre diverse impressioni, l’ultima cancellando sempre la traccia della precedente. Chi si sente debole deve rispondere, secondo l’uso,447 che ne parlerà al suo consigliere, o rinviare ai più saggi, dai quali ha ricevuto la sua istruzione. Quanto tempo è che la medicina è al mondo? Si dice che un nuovo venuto, che chiamano Paracelso, cambi e rovesci tutto l’ordine delle regole antiche, e sostenga che fino a questo momento essa ha servito solo a far morire gli uomini. Io credo che lo dimostrerà facilmente; ma mettere la mia vita alla prova della sua nuova esperienza, trovo che non sarebbe molto saggio. [A2]Non bisogna credere a chiunque, dice il precetto, perché chiunque può dire ogni cosa. [A] Un uomo guadagnato al partito delle novità e riforme fisiche mi diceva, non molto tempo fa, che tutti gli antichi si erano evidentemente ingannati sulla natura e il movimento dei venti, e che me lo avrebbe fatto toccar con mano con molta evidenza se volevo ascoltarlo. Dopo che per un po’ ero stato a sentire con pazienza i suoi argomenti, che erano molto verosimili: «Come dunque», gli feci «quelli che navigavano secondo le leggi di Teofrasto andavano a occidente mentre si dirigevano a levante? Andavano di sbieco o a ritroso?» «È il caso», mi rispose «comunque si ingannavano». Gli replicai allora che preferivo seguire i fatti piuttosto che la ragione. Ora, sono cose che cozzano spesso; e mi hanno detto che nella geometria (che ritiene di aver raggiunto il massimo punto di certezza fra le scienze) si trovano delle dimostrazioni incontrovertibili che sovvertono la verità dell’esperienza: Jacques Peletier,448 per esempio, mi diceva a casa mia di aver trovato due linee dirette l’una verso l’altra per congiungersi, e che egli dimostrava tuttavia non poter mai, fino all’infinito, arrivare a toccarsi; e i pirroniani si servono dei loro argomenti e della loro ragione solo per distruggere l’evidenza dell’esperienza; ed è straordinario fino a qual punto la duttilità della nostra ragione li ha secondati in questo proposito di combattere l’evidenza dei fatti: poiché dimostrano che non ci muoviamo, che non parliamo, che non c’è niente di pesante o di caldo, con una forza di argomentazioni pari a quella con cui noi dimostriamo le cose più verosimili. Tolomeo, che è stato un grand’uomo, aveva fissato i confini del nostro mondo; tutti i filosofi antichi hanno creduto di conoscerne la misura, a parte qualche isola remota che poteva sfuggire alla loro conoscenza: sarebbe stato un pirronizzare, mille anni fa, il mettere in dubbio la scienza della cosmografia e le opinioni che a questo proposito erano accettate da tutti; era un’eresia sostenere l’esistenza degli antipodi;449 ecco che nel nostro secolo è stata appena scoperta un’infinita estensione di terraferma, non un’isola o una regione particolare, ma una parte pressappoco uguale in grandezza a quella che conosciamo. I geografi di questo tempo non mancano di assicurare che ormai si è scoperto tutto e si è veduto tutto,
Nam quod adest præsto, placet, et pollere videtur.I 450
Resta da sapere, poiché Tolomeo si è ingannato un tempo sui fondamenti della sua ragione, se non sarebbe stoltezza fidarmi ora di ciò che questi ne dicono [C], e se non è più verosimile che questo gran corpo che chiamiamo mondo sia cosa ben diversa da quel che pensiamo. Platone ritiene451 che esso muti aspetto in ogni senso: che il cielo, le stelle e il sole invertano talvolta il movimento che vi costatiamo, cambiando l’oriente in occidente. I sacerdoti egizi dissero a Erodoto452 che dopo il loro primo re, dal cui regno erano passati undicimila anni (e di tutti i loro re gli fecero vedere le effigi in statue fatte dal vero), il sole aveva cambiato quattro volte cammino. Che il mare e la terra si mutano alternativamente l’uno nell’altra. Che la nascita del mondo è indeterminata. Aristotele, Cicerone dicono lo stesso. E qualcuno dei nostri453 dice che, per tutta l’eternità, esso muore e rinasce con varia vicenda, chiamando a testimoni Salomone e Isaia, per evitare quelle contraddizioni che Dio sia stato qualche volta creatore senza creatura, che sia stato in ozio, che abbia contraddetto il suo ozio mettendo mano a quest’opera, e che sia quindi soggetto a mutamento. Nella più famosa delle scuole greche454 il mondo è ritenuto un dio fatto da un altro dio più grande: ed è composto d’un corpo e d’un’anima che alloggia nel suo centro, per diffondersi secondo numeri armonici fino alla sua circonferenza, divino, beato, grandissimo, sapientissimo, eterno. In lui sono altri dèi, la terra, il mare, gli astri che vivono in un armonico e perpetuo movimento e danza divina, ora incontrandosi, ora allontanandosi, nascondendosi, mostrandosi, cambiando posizione, ora avanti e ora indietro. Eraclito sosteneva455 che il mondo era composto di fuoco e che per disposizione del fato dovesse un giorno incendiarsi e risolversi in fuoco, e un giorno di nuovo rinascere. E degli uomini Apuleio dice: Sigillatim mortales, cunctim perpetui.I 456 Alessandro scrisse a sua madre il racconto di un sacerdote egizio,457 tratto dai loro monumenti, che testimoniava l’infinita antichità di questo popolo e trattava secondo verità la nascita e lo sviluppo degli altri paesi. Cicerone e Diodoro dicono al tempo loro che i Caldei tenevano registro di quattrocentomila anni. Aristotele, Plinio ed altri, che Zoroastro viveva seimila anni prima del tempo di Platone. Platone dice che quelli della città di Sais hanno memorie scritte da ottomila anni, e che la città di Atene fu costruita mille anni prima della suddetta città di Sais. [B] Epicuro,458 che mentre le cose sono qui come noi le vediamo, sono del pari, e identicamente, in parecchi altri mondi.
Cosa che avrebbe detto con maggior sicurezza se avesse visto le somiglianze e conformità di quel nuovo mondo delle Indie occidentali con il nostro, presente e passato, in così strani esempi.459 [C] In verità, considerando quello che è venuto a nostra conoscenza dell’andamento di questa società terrestre, mi sono spesso meravigliato di vedere, a una grandissima distanza di luoghi e di tempo, le coincidenze di un gran numero di opinioni popolari bizzarre e le usanze e credenze selvagge e tali che non sembrano confarsi per alcun verso alla nostra ragione naturale. È un grande operatore di miracoli, lo spirito umano, ma questa corrispondenza ha non so che altro di più eteroclito: si riscontra anche nei nomi, negli accidenti e in mille altre cose. [B] Di fatto vi si trovarono popoli che, a quanto ne sappiamo, non avevano avuto notizia di noi, fra i quali era osservata la circoncisione; dove vi erano Stati e grandi governi tenuti da donne, senza uomini; dove si osservavano i nostri digiuni e la nostra quaresima, aggiungendoci l’astinenza dalle donne; dove le nostre croci erano onorate in diverse guise, qui se ne fregiavano le sepolture, là le si usavano, specie quella di sant’Andrea, per difendersi dalle visioni notturne e per metterle sui pannolini dei bambini contro gli incantesimi; altrove ne trovarono una di legno, di grande altezza, adorata come dio della pioggia, ed era molto addentro nella terraferma; vi si trovò una fedelissima immagine dei nostri penitenzieri; l’uso delle mitre, il celibato dei preti, l’arte di pronosticare dalle viscere degli animali sacrificati; [C] l’astinenza da ogni specie di carne e di pesce nel mangiare; [B] l’uso dei preti di servirsi officiando di una lingua particolare e non volgare; e questa fantasticheria, che il primo dio fu cacciato da un secondo, suo fratello minore; che gli uomini furono creati con tutti i privilegi, i quali furono loro tolti in seguito a causa del loro peccato, e che fu cambiata la loro sede e peggiorata la loro condizione naturale; che un tempo furono sommersi dall’inondazione delle acque celesti, che se ne salvarono solo poche famiglie che si gettarono nelle alte grotte delle montagne, grotte che ostruirono sicché l’acqua non vi entrò, dopo avervi rinchiuso dentro varie specie di animali; che quando sentirono la pioggia cessare, mandarono fuori dei cani, ed essendo questi ritornati puliti e bagnati, giudicarono che l’acqua non si fosse ancora ritirata; e poi, avendone mandati fuori altri e vedendoli tornare infangati, uscirono a ripopolare il mondo, che trovarono pieno soltanto di serpenti. Si riscontrò in alcuni luoghi la convinzione del giorno del giudizio, tanto che essi si adiravano straordinariamente contro gli Spagnoli che sparpagliavano le ossa dei defunti scavando in cerca di ricchezze nelle sepolture, dicendo che quelle ossa separate non avrebbero potuto facilmente ricongiungersi; il commercio per baratto e non altri, fiere e mercati a questo scopo; nani e persone deformi per l’ornamento delle tavole dei principi; l’uso della falconeria secondo la natura dei loro uccelli; esazioni tiranniche; eleganze di giardinaggio; danze, salti di giocolieri; musica di strumenti; insegne gentilizie; giochi di palla, giochi di dadi e d’azzardo, nel quale si riscaldano spesso fino a giocare se stessi e la loro libertà; non altra medicina che di incantesimi; il modo di scrivere per mezzo di figure; la credenza in un solo primo uomo, padre di tutti i popoli; l’adorazione di un dio che visse un tempo da uomo in perfetta verginità, digiuno e penitenza, predicando la legge di natura e le cerimonie della religione, e che disparve dal mondo senza morte naturale; la leggenda dei giganti; l’uso di ubriacarsi delle loro bevande e di gareggiare nel bere; ornamenti religiosi dipinti con ossa e teste di morti, cotte, acqua benedetta, aspersori; donne e servi che si offrono a gara per essere bruciati e seppelliti col marito o col padrone defunto; la legge che i primogeniti ereditino tutti i beni, mentre al secondogenito non è riservata alcuna parte, se non l’obbedienza; l’usanza, nella promozione a un certo ufficio di grande autorità, che colui che è promosso prenda un nuovo nome e lasci il suo; di versare un po’ di calce sul ginocchio del bambino appena nato, dicendogli: «Sei venuto dalla polvere e tornerai in polvere»; l’arte degli àuguri. Questi vani adombramenti della nostra religione che si vedono in alcuni di tali esempi, ne attestano la dignità e la divinità. Non solo essa si è in certo modo insinuata fra tutti i popoli infedeli di qua con qualche imitazione, ma anche fra questi barbari, come per una comune e soprannaturale ispirazione. Infatti vi si trovò anche la credenza nel purgatorio, ma in una forma nuova: ciò che noi diamo al fuoco, essi lo danno al freddo, e immaginano le anime purgate e punite dal rigore di un freddo estremo. E quest’esempio mi fa notare un’altra singolare differenza: di fatto, come si trovarono popoli che amavano spogliare la punta del loro membro e ne tagliavano la pelle secondo l’uso maomettano ed ebraico, se ne trovarono altri che si facevano tale scrupolo di spogliarlo che con dei cordoncini vi tenevano la pelle accuratamente tirata e attaccata sopra, per paura che questa punta vedesse la luce. E anche quest’altra differenza, che come noi onoriamo i re e le feste adornandoci dei vestiti più decorosi che abbiamo, in alcune regioni, per mostrare tutta la loro ineguaglianza e sottomissione al re, i sudditi gli si presentavano nel loro abbigliamento più modesto, ed entrando nel palazzo mettono qualche vecchio vestito strappato sul loro buono, affinché tutto il lustro e l’ornamento sia per il sovrano. Ma continuiamo. [A] Se la natura racchiude nei limiti del suo normale procedere, come ogni altra cosa, anche le credenze, i giudizi e le opinioni degli uomini; se queste hanno le loro rivoluzioni, la loro stagione, la loro nascita, la loro morte, come i cavoli; se il cielo le muove e le volge a suo piacimento, quale autorità assoluta e permanente andiamo loro attribuendo? [B] Se per esperienza tocchiamo con mano che la forma del nostro essere dipende dall’aria, dal clima e dal paese nel quale nasciamo: non solo il colore, la statura, la complessione e il modo di comportarci, ma anche le facoltà dell’anima [C]: et plaga cæli non solum ad robur corporum, sed etiam animorum facit,I dice Vegezio;460 e che la dea fondatrice della città d’Atene scelse per situarla un paese dal clima che facesse gli uomini saggi,461 come i sacerdoti d’Egitto insegnarono a Solone, Athenis tenue cælum, ex quo etiam acutiores putantur Attici; crassum Thebis itaque pingues Thebani et valentesI 462 [B]; sicché, come i frutti e gli animali nascono diversi, anche gli uomini nascono più o meno bellicosi, giusti, temperanti e docili: qui dediti al vino, altrove al ladrocinio o alla lussuria; qui inclini alla superstizione, altrove alla miscredenza; [C] qui alla libertà, qui alla servitù; [B] atti a una scienza o a un’arte, rozzi o ingegnosi, obbedienti o ribelli, buoni o cattivi, secondo che vuole l’inclinazione del luogo nel quale stanno, e assumono una nuova complessione se sono cambiati di posto, come gli alberi: che fu la ragione per cui Ciro non volle accordare ai Persiani di abbandonare il loro paese aspro e scosceso per trasferirsi in un altro dolce e piano [C], dicendo che le terre grasse e molli fanno gli uomini molli, e quelle feconde gli ingegni infecondi.463 [B] Se vediamo fiorire ora un’arte o un’opinione, ora un’altra, per qualche influenza celeste; il tal secolo produrre tali nature e dare al genere umano questa o quella piega; le menti degli uomini ora gagliarde, ora sterili, come i nostri campi: a che cosa si riducono tutte quelle belle prerogative di cui ci andiamo vantando? Poiché un uomo saggio può ingannarsi, e cento uomini, e parecchi popoli, anzi la natura umana secondo noi s’inganna per più secoli su questo o su quello, che sicurezza abbiamo che a volte cessi d’ingannarsi [C] e che in questo secolo non sia in errore?
[A] Mi sembra che fra le altre prove della nostra debolezza non debba essere dimenticata questa, che nemmeno col desiderio l’uomo sa trovare ciò che gli occorre; che non solo nel godimento, ma neppure nell’immaginazione e nell’aspirazione non possiamo essere d’accordo su ciò di cui abbiamo bisogno per essere contenti. Lasciamo che il nostro pensiero tagli e cucia a suo piacere, non potrà neppure desiderare ciò che gli si confà ed esserne soddisfatto:
[B]quid enim ratione timemus
Aut cupimus? quid tam dextro pede concipis, ut te
Conatus non pæniteat votique peracti?II 464
[A] Ecco perché [C] Socrate chiedeva agli dèi soltanto di dargli ciò che sapevano essergli giovevole.465 E la preghiera degli Spartani, pubblica e privata, domandava semplicemente che fossero loro concesse le cose buone e belle.466 Rimettendone alla discrezione divina la selezione e la scelta:
[B]Coniugium petimus partumque uxoris; at illi
Notum qui pueri qualisque futura sit uxor.I 467
[A] E il cristiano supplica Iddio che sia fatta la sua volontà, per non cadere nell’inconveniente che i poeti immaginano riguardo al re Mida. Questi chiese agli dèi che tutto quello che avrebbe toccato si convertisse in oro. La sua preghiera fu esaudita, il suo vino fu oro, e oro il suo pane e la piuma del suo letto, e oro la sua camicia e la sua veste: sicché egli si trovò soffocato dal godimento del suo desiderio e gratificato di un privilegio insopportabile. Gli fu giocoforza spregare le sue preghiere,
Attonitus novitate mali, divesque miserque,
Effugere optat opes, et quæ modo voverat, odit.II 468
[B] Parliamo di me stesso. Da giovane chiedevo alla fortuna innanzi tutto l’Ordine di San Michele:469 poiché era allora il supremo segno d’onore della nobiltà francese, ed assai raro. Me l’ha accordato celiando. Invece di farmi salire e innalzarmi dal mio posto per arrivarvi, mi ha trattato molto più graziosamente: lo ha calato e abbassato fino alle mie spalle, e al di sotto. [C] Cleobi e Bitone, Trofonio e Agamede, avendo richiesto, quelli alla loro dea, questi al loro dio, una ricompensa degna della loro pietà, ebbero in dono la morte,470 tanto sono diverse dalle nostre le opinioni celesti su ciò che ci occorre. [A] Dio potrebbe concederci le ricchezze, gli onori, la vita e la salute stessa talvolta con nostro danno: poiché tutto ciò che ci è gradito non sempre ci è giovevole. Se invece della guarigione ci manda la morte oppure un peggioramento dei nostri mali, [B] Virga tua et baculus tuus ipsa me consolata sunt,III 471 [A] lo fa per le ragioni della sua provvidenza, che vede molto più chiaramente quello che ci è dovuto di quanto possiamo fare noi; e dobbiamo accettarlo di buon grado, come da una mano oltremodo saggia e amica:
[B]si consilium vis,
Permittes ipsis expendere numinibus, quid
Conveniat nobis, rebusque sit utile nostris:
Charior est illis homo quam sibi.I 472
Poiché chieder loro degli onori, delle cariche, è chiedere che vi gettino in una battaglia, o nel gioco dei dadi, o in qualche altra cosa il cui esito vi è sconosciuto e il frutto incerto.
[A] Non c’è fra i filosofi lotta così violenta né così aspra come quella che si accende sulla questione del sommo bene per l’uomo [C], dalla quale, secondo i calcoli di Varrone, nacquero duecentottantotto sette.473 Qui autem de summo bono dissentit, de tota philosophiæ ratione dissentit.II 474
[A]Tres mihi convivæ prope dissentire videntur,
Poscentes vario multum diversa palato:
Quid dem? quid non dem? renuis tu quod iubet alter;
Quod petis, id sane est invisum acidumque duobus.III 475
La natura dovrebbe rispondere così alle loro contestazioni e alle loro discussioni. Gli uni dicono che il nostro bene consiste nella virtù; altri nel piacere; altri nel secondare la natura; chi nella scienza; chi nell’esser esenti da dolore; chi nel non lasciarsi trascinare dalle apparenze; e a quest’idea sembra avvicinarsi quest’altra, dell’antico Pitagora,
Nil admirari prope res est una, Numaci,
Solaque quæ possit facere et servare beatum,IV 476
che è il fine della setta pirroniana. [C] Aristotele attribuisce a magnanimità il non meravigliarsi di nulla.477 [A] E Arcesilao diceva che la sospensione e l’assetto dritto e inflessibile del giudizio sono i beni, ma i consensi e le adesioni sono i vizi e i mali.478 È vero che per il fatto di stabilirlo come assioma certo si allontanava dal pirronismo. I pirroniani, quando dicono che il sommo bene è l’atarassia, cioè l’immobilità del giudizio, non intendono dirlo in modo affermativo; ma lo stesso impulso della loro anima che fa loro fuggire i precipizi e ripararsi dall’umidità della sera presenta loro quest’idea e gliene fa rifiutare un’altra. [B] Quanto desidero che finché sono in vita, o qualcun altro, o Giusto Lipsio,479 l’uomo più dotto che ci resti, di spirito finissimo e giudizioso, veramente germano del mio Turnebus,480 abbia e la volontà, e la salute, e abbastanza tranquillità per riunire in un catalogo, secondo le loro divisioni e classificazioni, con sincerità e diligenza, per quanto possiamo saperne, le opinioni dell’antica filosofia a proposito del nostro essere e dei nostri costumi, le loro controversie, il credito e il seguito delle scuole, la corrispondenza della vita degli autori e dei seguaci ai propri precetti nei casi memorabili ed esemplari. Che opera bella e utile sarebbe!
[A] Del resto, se deriviamo da noi stessi la norma dei nostri costumi, in che confusione ci gettiamo! Di fatto quello che la nostra ragione ci consiglia a tal proposito di più verosimile, è che in genere ciascuno obbedisca alle leggi del proprio paese, come ammonisce Socrate, ispirato, dice, da un consiglio divino. E che vuol essa dire con questo, se non che il nostro dovere non ha altra regola che fortuita? La verità deve avere un volto uniforme e universale. L’equità e la giustizia, se l’uomo ne conoscesse che avesse corpo ed essenza verace, non la porrebbe in relazione con lo stato dei costumi di questa o quella contrada; non sarebbe dalla fantasia dei Persiani o degli Indiani che la virtù riceverebbe la sua forma. Non c’è cosa soggetta a più continuo rivolgimento delle leggi. Da quando sono nato, ho visto cambiare tre o quattro volte quelle degli Inglesi, nostri vicini, non solo in materia politica, che è quella che si vuol dispensare dalla costanza, ma nella materia più importante che ci possa essere, cioè nella religione.481 Del che ho vergogna e dispetto, tanto più che è un popolo col quale quelli delle mie parti hanno avuto tempo fa così stretta dimestichezza che restano ancora nella mia casa alcune tracce della nostra antica familiarità. [C] E qui da noi ho visto una cosa che comportava la pena capitale diventare legittima; e noi, che ne riteniamo legittime altre, siamo a rischio, per l’incertezza della fortuna in guerra, di essere un giorno rei di lesa maestà umana e divina: la nostra giustizia cade alla mercé dell’ingiustizia; e nello spazio di pochi anni di possesso prende un’essenza contraria. Come poteva quel dio antico482 accusare più chiaramente nella conoscenza umana l’ignoranza dell’essere divino, e insegnare agli uomini che la religione non era che un prodotto di loro invenzione, adatto a tener unita la loro società, se non dichiarando, come fece, a coloro che chiedevano di esserne istruiti dal suo tripode, che il vero culto era per ciascuno quello che vedeva comunemente osservato nel luogo dove si trovava? O Dio, che obbligo non abbiamo alla benignità del nostro supremo creatore per aver ripulito la nostra credenza da quelle devozioni vagabonde e arbitrarie e averla collocata sulla base eterna della sua santa parola!
[A] Che cosa ci dirà dunque in questo frangente la filosofia? Di seguire le leggi del nostro paese? Cioè questo mare fluttuante delle opinioni di un popolo o d’un principe, che mi dipingeranno la giustizia di tanti colori e l’acconceranno in tante fogge quanti mutamenti di passioni vi saranno in essi. Il mio giudizio non può essere così flessibile. Che bontà è mai quella che ieri vedevo in onore [C] e domani non più, e che, varcato un fiume, diventa crimine? Che verità è quella che è limitata da queste montagne, e che è menzogna per la gente che sta dall’altra parte? [A] Sono poi veramente curiosi quando, per dare qualche certezza alle leggi, sostengono che ve ne sono alcune stabili, perpetue e immutabili, che chiamano naturali e che sono impresse nel genere umano dalla condizione della loro propria essenza. E di queste, chi ne conta tre, chi quattro, chi più, chi meno: segno che è una prova incerta come il resto. Ora sono così sfortunati (infatti come posso chiamare se non sfortuna il fatto che fra un numero così infinito di leggi non se ne trovi almeno una a cui la fortuna e la temerità della sorte abbia permesso di essere universalmente accettata per consenso di tutti i popoli?), sono, dico, così disgraziati, che di queste tre o quattro leggi scelte non ce n’è una sola che non sia contraddetta e smentita, non da un solo popolo, ma da molti. Ora, l’universalità dell’approvazione è il solo indizio verosimile dal quale essi possano dedurre alcune leggi naturali. Di fatto, quello che la natura ci avesse davvero ordinato, lo seguiremmo senz’altro con comune consenso. E non solo ogni popolo, ma ogni individuo sentirebbe la forza e la violenza che gli farebbe chi volesse spingerlo contro questa legge. Che me ne mostrino, per prova, una di questo tipo. Protagora e Aristone non davano alla giustizia delle leggi altra essenza che l’autorità e l’opinione del legislatore;483 e omesso questo, il buono e l’onesto perdevano la loro qualità e rimanevano nomi vani di cose indifferenti. Trasimaco, in Platone, ritiene che non vi sia altro diritto che l’utile del più forte.484 Non vi è cosa in cui il mondo sia così diverso come in fatto di costumi e di leggi. Una cosa qui è abominevole e altrove conferisce stima: come a Sparta l’abilità nel rubare. I matrimoni fra parenti sono proibiti fra noi sotto pena di morte, e altrove sono in onore,
gentes esse feruntur
In quibus et nato genitrix, et nata parenti
Iungitur, et pietas geminato crescit amore.I 485
L’infanticidio, il parricidio, la comunione delle donne, il traffico degli oggetti rubati, la licenza in ogni sorta di voluttà, insomma non vi è nulla di tanto eccessivo che non sia ammesso nell’uso di qualche popolo. [B] È credibile che vi siano delle leggi naturali, come si vede nelle altre creature; ma in noi sono perdute, poiché questa bella ragione umana s’impiccia di spadroneggiare e comandare dappertutto, offuscando e confondendo l’aspetto delle cose secondo la sua vanità e incostanza. [C] Nihil itaque amplius nostrum est: quod nostrum dico, artis est.II 486 [A] Gli oggetti hanno diversi aspetti e diversa considerazione: è di qui che nasce soprattutto la diversità di opinioni. Un popolo guarda un oggetto da un certo lato, e si ferma a quello; l’altro, da un altro. Non c’è niente di tanto orribile a immaginare quanto mangiare il proprio padre. I popoli che anticamente avevano quest’usanza, l’intendevano tuttavia come testimonianza di pietà e di grande affetto, cercando così di dare ai loro progenitori la sepoltura più degna e onorevole: albergando in se stessi e per così dire nel loro midollo i corpi dei loro padri e i loro resti, vivificandoli in qualche modo e rigenerandoli col tramutarli nella loro viva carne per mezzo della digestione e del nutrimento. È facile considerare quale crudeltà e abominazione sarebbe stata per uomini abbeverati e imbevuti di questa superstizione, gettare la spoglia dei genitori alla corruzione della terra e in pasto alle bestie e ai vermi. Licurgo considerò nel furto la prontezza, la diligenza, l’arditezza e destrezza che c’è nel sottrarre qualcosa al proprio vicino, e l’utilità che ne deriva al pubblico, perché ognuno pone maggiore attenzione nel conservare ciò che è suo; e ritenne che da questo doppio insegnamento, di assalire e di difendere, se ne traesse per la disciplina militare (che era la scienza e la virtù principale a cui voleva condurre quel popolo) un frutto di maggiore importanza che non fosse il disordine e l’ingiustizia d’impadronirsi delle cose altrui.487
Il tiranno Dionigi offrì a Platone una veste di foggia persiana, lunga, damascata e profumata: Platone la rifiutò dicendo che, essendo nato uomo, non indosserebbe volentieri una veste da donna; ma Aristippo l’accettò, con questa risposta, che nessuna acconciatura poteva corrompere un cuore puro.488 [C] I suoi amici rimproveravano la sua viltà, perché prendeva così alla leggera che Dionigi gli avesse sputato in faccia. «I pescatori» disse «sopportano pure di essere bagnati dalle onde del mare dalla testa ai piedi per acchiappare un ghiozzo». Diogene lavava i suoi cavoli e vedendolo passare: «Se tu sapessi vivere di cavoli non faresti la corte a un tiranno». Al che Aristippo: «Se tu sapessi vivere fra gli uomini, non laveresti dei cavoli». [A] Ecco come la ragione presta apparenza di verità a fatti diversi. [B] È un vaso a due manici, che si può prendere a sinistra e a destra:
bellum, o terra hospita, portas;
Bello armantur equi, bellum hæc armenta minantur.
Sed tamen iidem olim curru succedere sueti
Quadrupedes, et frena iugo concordia ferre;
[C] Si raccomandava a Solone di non versare per la morte di suo figlio lacrime impotenti e inutili: «Ed è per questo» egli disse «che con più ragione le verso, perché sono inutili e impotenti». La moglie di Socrate raddoppiava il pianto per simile circostanza: «Quanto ingiustamente ti fanno morire questi giudici iniqui!» «Preferiresti dunque che fosse giustamente?» egli le replicò.490 [A] Noi portiamo le orecchie forate,491 i Greci lo ritenevano un marchio di schiavitù. Noi ci nascondiamo per godere le nostre donne, gli Indiani lo fanno in pubblico. Gli Sciti immolavano gli stranieri nei loro templi, altrove i templi servono d’asilo.
[B]Inde furor vulgi, quod numina vicinorum
Odit quisque locus, cum solos credat habendos
Esse Deos quos ipse colit.II 492
[A] Ho sentito parlare di un giudice che quando s’imbatteva in un aspro conflitto fra Bartolo e Baldo,493 e in qualche argomento molto controverso, segnava in margine al suo libro: questione per l’amico; volendo dire che la verità era così imbrogliata e dibattuta che in una causa simile avrebbe potuto favorire quella delle parti che gli sarebbe parso meglio. Dipendeva solo da mancanza d’ingegno e di dottrina che non potesse mettere dappertutto: questione per l’amico. Gli avvocati e i giudici del nostro tempo trovano in ogni causa cavilli sufficienti per volgerla come loro par meglio. In una scienza così sterminata, che dipende dall’autorità di tante opinioni e su materia così arbitraria, non può non nascere una confusione estrema di giudizi. Così non v’è processo tanto chiaro in cui i pareri non siano diversi. Ciò che un’assemblea ha giudicato, un’altra lo giudica in modo opposto, e questa stessa lo giudica in modo opposto un’altra volta. Del che vediamo continui esempi, per quella licenza che macchia in modo singolare la cerimoniosa autorità e il lustro della nostra giustizia, di non fermarsi ai verdetti e correre da un giudice all’altro per decidere di una stessa causa. Quanto alla libertà delle opinioni filosofiche riguardo al vizio e alla virtù, è cosa su cui non è necessario dilungarsi, e su cui si trovano parecchi pareri che è meglio tacere che render noti agli spiriti deboli. [B] Arcesilao diceva che nella lussuria non aveva importanza da che lato e in che senso lo si fosse:494 [C] Et obscœnas voluptates, si natura requirit, non genere, aut loco, aut ordine, sed forma, ætate, figura metiendas Epicurus putat.495 Ne amores quidem sanctos a sapiente alienos esse arbitrantur.496 Quæramus ad quam usque ætatem iuvenes amandi sint.I 497 Questi due ultimi passi stoici, e a questo proposito il rimprovero di Dicearco a Platone stesso,498 dimostrano come la più sana filosofia soffra di licenze lontane dall’uso comune ed eccessive.
[A] Le leggi derivano la loro autorità dal possesso e dall’uso; è pericoloso ricondurle alla loro origine; si rafforzano e si nobilitano scorrendo, come i nostri fiumi: risalitele fino alla sorgente, non si tratta che d’una piccola vena d’acqua appena riconoscibile, che s’inorgoglisce così e si rinvigorisce invecchiando. Guardate le antiche considerazioni che hanno impresso il primo movimento a questo torrente famoso, pieno di dignità, d’orrore e di reverenza: le troverete così lievi ed esili che non c’è da meravigliarsi se questi uomini che pesano tutto e lo riportano alla ragione, e non ammettono nulla per autorità e a credito, abbiano giudizi spesso lontanissimi dai giudizi dei più. Non c’è da meravigliarsi se uomini che prendono a modello l’immagine primitiva della natura, nella maggior parte delle loro opinioni deviano dalla strada comune. Così, per esempio: pochi di loro avrebbero approvato le rigide condizioni dei nostri matrimoni [C] e la maggior parte hanno voluto le donne comuni e senza obbligo. [A] Essi rifiutavano le nostre cerimonie. Crisippo diceva che un filosofo farà una dozzina di capriole in pubblico, magari senza brache, per una dozzina d’olive.499 [C] A malapena avrebbe consigliato a Clistene di rifiutare la bella Agarista, sua figlia, a Ippoclide, per averlo visto fare querciola500 su una tavola. Metrocle lasciò andare un po’ ineducatamente un peto mentre discuteva alla presenza della sua scuola, e rimaneva nascosto in casa per la vergogna finché Cratete andò a fargli visita, e aggiungendo alle sue consolazioni e alle sue ragioni l’esempio della propria libertà, mettendosi a far peti a gara con lui, gli tolse quello scrupolo; e in più lo trasse alla sua setta stoica, più libera, dalla setta peripatetica, più civile, che egli aveva seguito fino allora.501 Quello che chiamiamo decenza, cioè di non osar fare in pubblico quello che consideriamo decente fare in privato, essi lo chiamavano stoltezza; e fingere tacendo e sconfessando ciò che la natura, l’uso e il nostro desiderio professano pubblicamente e proclamano delle nostre azioni, lo ritenevano vizio. E sembrava loro che fosse profanare i misteri di Venere, tirarli fuori dal sacrario privato del suo tempio per esporli alla vista del popolo, e che alzare il sipario sui suoi giuochi fosse avvilirli. La vergogna è una sorta di peso. L’occultamento, il riserbo, la limitazione, parti della stima. Che molto accortamente la voluttà, sotto la maschera della virtù, chiedesse di non essere prostituita sui crocicchi, messa sotto i piedi e sotto gli occhi di tutti, rimpiangendo il decoro e l’agio dei suoi gabinetti consueti. Per questo [A] alcuni dicono che abolire i bordelli pubblici vuol dire non soltanto diffondere dovunque la lussuria che era riservata a quel luogo, ma anche incitare gli uomini a quel vizio a causa della difficoltà:502
Mœchus es Aufidiæ, qui vir, Corvine, fuisti;
Rivalis fuerat qui tuus, ille vir est.
Cur aliena placet tibi, quæ tua non placet uxor?
Nunquid securus non potes arrigere?I 503
Questa esperienza si diversifica in mille esempi:
Nullus in urbe fuit tota qui tangere vellet
Uxorem gratis, Cæciliane, tuam,
Dum licuit; sed nunc, positis custodibus, ingens
Turba fututorum est. Ingeniosus homo es.II 504
Fu domandato a un filosofo, che venne sorpreso nell’atto, che cosa facesse. Rispose con molta freddezza: «Pianto un uomo», senza arrossire per esser stato trovato a far questo più che se lo si fosse trovato a piantar agli. [C] Mi sembra un’opinione troppo delicata e rispettosa quella di un autore grande e religioso505 che giudica quest’azione così necessariamente obbligata alla riservatezza e al pudore, da non poter persuadersi che nella licenza degli amplessi cinici l’atto giungesse a fine: ritenendo anzi che si limitasse soltanto a simulare movimenti lascivi, per mantenere l’impudenza della professione della loro scuola. E che per eiaculare ciò che la vergogna aveva frenato e trattenuto, dovessero anche dopo cercare l’ombra. Non aveva veduto abbastanza a fondo nella loro dissolutezza. Di fatto Diogene, dandosi in pubblico alla masturbazione, si augurava in presenza degli astanti di poter soddisfare altrettanto il proprio ventre sfregandolo.506 A quelli che gli domandavano perché non cercasse per mangiare un luogo più comodo che in mezzo alla strada: «Il fatto è» rispondeva «che ho fame in mezzo alla strada». Le donne filosofe che si univano alla loro setta si univano anche alla loro persona, in qualsiasi luogo senza discrezione: e Ipparchia non fu ammessa nella compagnia di Cratete se non a condizione di seguire in tutto e per tutto gli usi e costumi della sua regola.507 Questi filosofi apprezzavano moltissimo la virtù e rifiutavano ogni altra disciplina all’infuori della morale; sicché in ogni azione attribuivano alla decisione del loro saggio un’autorità suprema e superiore alle leggi: e non imponevano ai piaceri altro freno [A] che la moderazione e il rispetto della libertà altrui.
Eraclito e Protagora, dal fatto che il vino sembra amaro al malato e gradevole al sano, il remo storto nell’acqua e dritto a quelli che lo vedono fuori, e da simili apparenze contrarie che si trovano negli oggetti, argomentarono che tutti gli oggetti avevano in sé le cause di queste apparenze; e che c’era nel vino qualche amarezza che corrispondeva al gusto del malato, nel remo una certa inclinazione alla curvatura corrispondente a chi lo guarda nell’acqua.508 E così per tutto il resto. Il che equivale a dire che tutto è in tutte le cose, e di conseguenza niente in nessuna; perché non c’è niente dove c’è tutto. Quest’opinione mi ricordava l’esperienza che abbiamo, che non vi è sensazione né apparenza, o dritta, o amara, o dolce, o curva, che lo spirito umano non trovi negli scritti che si mette a esaminare. Nella parola più limpida, pura e perfetta che mai possa essere,509 quanta falsità e menzogna si è fatta nascere? Quale eresia non vi ha trovato sufficienti fondamenti e testimonianze per prendere avvio e mantenersi? È per questo che gli autori di tali errori non vogliono mai rinunciare a questa prova, della testimonianza dell’interpretazione delle parole. Un importante personaggio, volendo allegarmi un’autorità per quella ricerca della pietra filosofale nella quale è totalmente sprofondato, mi citò ultimamente cinque o sei passi della Bibbia, sui quali diceva di essersi soprattutto fondato a scarico della propria coscienza (è infatti un ecclesiastico); e in verità l’idea era non solo curiosa, ma anche assai propriamente adattata alla difesa di quella bella scienza. Per questa via ottengono credito le favole divinatorie. Non vi è pronosticatore, se ha tale autorità che ci si degni di sfogliarlo e di ricercare accuratamente tutte le pieghe e gli aspetti delle sue parole, al quale non si faccia dire tutto quel che si vuole, come alle sibille: ci sono infatti tanti mezzi d’interpretazione che è difficile che, per un verso o per l’altro, uno spirito ingegnoso non trovi in ogni argomento qualche tratto che faccia al caso suo. [C] Per questo uno stile nebuloso e ambiguo è d’uso tanto frequente e antico. Purché l’autore possa ottenere di attirare e conciliare a sé la posterità (cosa che non soltanto il valore può ottenere, ma altrettanto o più il favore fortuito della materia), se per il resto si presenta, per stoltezza o per astuzia, con qualche oscurità e discordanza, non se ne dia pensiero. Molti ingegni, stacciandolo e agitandolo, ne spremeranno una quantità di idee o conformi o prossime o contrarie alla sua, che tutte gli faranno onore. Si vedrà arricchito dei doni dei discepoli, come i professori alla fiera del Lendit.510 [A] È questo che ha messo in valore molte cose da nulla, che ha dato credito a parecchi scritti e li ha riempiti di quanta materia si è voluto: una medesima cosa accogliendo mille e mille immagini e considerazioni diverse, e più a nostro piacimento. [C] È possibile che Omero abbia voluto dire tutto ciò che gli si fa dire? E che si sia prestato a tante e così diverse immagini che i teologi, i legislatori, i condottieri, i filosofi, ogni sorta di gente che si occupa di scienza, per quanto in modi diversi e contrari, si appoggi a lui, si riferisca a lui: maestro generale per ogni ufficio, opera e artefice; consigliere generale di ogni impresa. [A] Chiunque ha avuto bisogno di oracoli e di predizioni, vi ha trovato il fatto suo. Ed è straordinario vedere quali riferimenti e quanto mirabili ne abbia tratti un dotto personaggio, mio amico, in favore della nostra religione; e non può facilmente rinunciare a quest’opinione, che tale non fosse il proposito di Omero (e quest’autore gli è familiare più che a qualunque uomo del nostro tempo). [C] E ciò che vi trova in favore della nostra religione, molti in antico ve l’avevano trovato in favore delle loro. Guardate come viene rimestato e agitato Platone. Ognuno, onorandosi di applicarlo a sé, lo volge dalla parte che vuole. Lo si rigira e lo si inserisce in tutte le nuove opinioni che il mondo accoglie; e lo si fa diverso da sé medesimo secondo il diverso corso delle cose. Gli si fanno sconfessare gli usi leciti al tempo suo, perché sono illeciti al nostro. Tutto questo con vivacità e con forza, quanto più forte e vivace è lo spirito dell’interprete. [A] Dallo stesso fondamento che aveva Eraclito511 e da quel suo principio, che tutte le cose avevano in sé gli aspetti che uno ci trovava, Democrito traeva una conclusione assolutamente contraria, cioè che gli oggetti non avevano assolutamente nulla di quello che noi ci trovavamo. E dal fatto che il miele era dolce per l’uno e amaro per l’altro, deduceva che non era né dolce né amaro. I pirroniani direbbero che non sanno se sia dolce o amaro, o né l’uno né l’altro, o le due cose a un tempo: infatti essi arrivano sempre all’estremo del dubbio. [C] I cirenaici512 ritenevano che nulla fosse percepibile dall’esterno, e che fosse percepibile solo quello che ci toccava all’interno, come il dolore o il piacere: non riconoscendo né tono né colore, ma solo certe impressioni che ce ne derivavano. E che l’uomo non avesse altra sede per il suo giudizio. Protagora pensava che fosse vero per ciascuno ciò che sembra a ciascuno. Gli epicurei collocano ogni giudizio nei sensi e nella cognizione delle cose e nel piacere. Platone ha voluto che il giudizio della verità e la verità stessa, sottratta alle opinioni e ai sensi, appartenesse allo spirito e al pensiero.
[A] Questo discorso mi ha condotto a considerare i sensi, nei quali risiede il fondamento e la prova maggiore della nostra ignoranza. Tutto ciò che si conosce, si conosce senz’altro per mezzo della facoltà di chi conosce: di fatto, poiché il giudizio viene dall’operazione di colui che giudica, è giusto che quest’operazione egli la porti a compimento con i suoi mezzi e per sua volontà, non per costrizione altrui, come avverrebbe se conoscessimo le cose per la forza e secondo la legge della loro essenza. Ora, ogni conoscenza penetra in noi attraverso i sensi: essi sono i nostri padroni,
[B]via qua munita fidei
Proxima fert humanum in pectus templaque mentis.I 513
[A] La scienza comincia da essi e si risolve in essi. Dopo tutto, non ne sapremmo più d’una pietra, se non sapessimo che esistono suono, odore, luce, sapore, misura, peso, morbidezza, durezza, asprezza, colore, levigatezza, larghezza, profondità. Ecco la base e i principi di tutto l’edificio della nostra scienza. [C] E secondo alcuni, scienza non è altro che sensazione. [A] Chiunque può spingermi a contraddire i sensi, mi tiene per la gola, non potrebbe farmi arretrare di più. I sensi sono il principio e la fine della conoscenza umana:
Invenies primis ab sensibus esse creatam
Notitiam veri, neque sensus posse refelli.
Quid maiore fide porro quam sensus haberi
Si attribuisca loro il meno che si può, bisognerà sempre conceder loro questo, che per loro mezzo e interposizione prende avvio ogni nostra cognizione. Cicerone dice che Crisippo,515 avendo tentato di reprimere la forza dei sensi e il loro potere, si prospettò argomenti contrari e obiezioni così violente che non poté rispondervi. Per cui Carneade, che sosteneva l’opinione contraria, si vantava di servirsi delle armi stesse e delle parole di Crisippo per combatterlo, e perciò gridava contro di lui: «Disgraziato, la tua forza ti ha perduto!» Non c’è secondo noi assurdità più grande che sostenere che il fuoco non riscalda, che la luce non illumina, che il ferro non ha peso né solidità, che sono nozioni che ci offrono i sensi: né vi è nell’uomo credenza o conoscenza che possa paragonarsi a questa in certezza.
La prima considerazione che faccio a proposito dei sensi, è di mettere in dubbio che l’uomo sia provvisto di tutti i sensi naturali. Vedo parecchi animali che vivono una vita completa e perfetta, alcuni senza la vista, altri senza l’udito: chi sa che anche in noi non manchino uno, due, tre e parecchi altri sensi? Di fatto, se ce ne manca qualcuno, la nostra ragione non può scoprirne la deficienza. È privilegio dei sensi essere l’estremo limite della nostra percezione: non c’è niente al di là di essi che possa servirci a scoprirli, e nemmeno un senso può scoprire l’altro,
[B]An poterunt oculos aures reprehendere, an aures
Tactus, an hunc porro tactum sapor arguet oris,
An confutabunt nares, oculive revincent?I 516
[A] Essi formano tutti insieme la linea estrema delle nostre facoltà:
seorsum cuique potestas
Divisa est, sua vis cuique est.II 517
È impossibile far capire a un uomo cieco dalla nascita che egli non vede, impossibile fargli desiderare la vista e rimpiangerne la mancanza. Per questo non dobbiamo trarre alcuna sicurezza dal fatto che la nostra anima è contenta e soddisfatta di quelli che abbiamo: visto che non ha modo di sentire in ciò la sua malattia e la sua imperfezione, se c’è. È impossibile dire a questo cieco, con ragionamento, argomento o paragone, qualcosa che metta nella sua immaginazione qualche idea della luce, del colore e della vista. Non c’è niente di più interiore che possa spingere il senso in evidenza. I ciechi nati, che vediamo desiderosi di vedere, non comprendono quello che chiedono: hanno imparato da noi che manca loro qualcosa, che hanno qualcosa da desiderare, che noi abbiamo; e lo chiamano bene, con i suoi effetti e le sue conseguenze, ma tuttavia non sanno che cos’è, e non lo concepiscono neppure lontanamente. Ho visto un gentiluomo di buona famiglia, cieco nato, o almeno cieco da età tale da non sapere che cosa sia la vista: capisce così poco ciò che gli manca, che impiega e adopera come noi parole proprie al vedere, e le applica in un modo tutto suo e particolare. Gli si presentava un bambino del quale era padrino; presolo fra le braccia: «Mio Dio», disse «che bel bambino, che gioia vederlo, che viso allegro ha!» Dirà come uno di noi: «Questa sala ha una bella vista», «è sereno», «c’è un bel sole». E c’è di più: infatti, poiché la caccia, la palla, il tiro al bersaglio sono i nostri esercizi e ne ha sentito parlare, vi si interessa e se ne occupa, e crede di prendervi la stessa parte di noi: vi si appassiona e vi si compiace, e tuttavia ne partecipa solo con gli orecchi. Gli si grida: ecco una lepre, quando si è in qualche bella pianura dove possa dar di sproni; e poi gli si dice ancora che si è presa una lepre: eccolo fiero della preda come sente dire agli altri che lo sono. La palla, la prende con la mano sinistra e la lancia con la racchetta; con l’archibugio tira a caso, e si accontenta di ciò che i suoi compagni gli dicono, che è andato alto o di fianco. Chi sa se il genere umano non fa qualche sciocchezza simile, per mancanza di qualche senso, e se per questa mancanza non ci sia nascosta la maggior parte dell’aspetto delle cose? Chi sa se le difficoltà che troviamo in parecchie opere della natura non derivano da questo? E se parecchie cose fatte dagli animali e che superano la nostra capacità non sono prodotte dalla facoltà di qualche senso che ci manca? E se alcuni di essi non hanno in tal modo una vita più piena e completa della nostra? Noi cogliamo la mela quasi con tutti i nostri sensi: ci troviamo color rosso, levigatezza, profumo e dolcezza; oltre a questo, essa può avere altre virtù, come seccarsi o restringersi, per le quali non abbiamo sensi che vi si possano riferire. Quelle proprietà che chiamiamo occulte in parecchie cose, come nella calamita di attirare il ferro, non è forse verosimile che vi siano in natura facoltà sensoriali proprie a giudicarle e percepirle, e che la mancanza di tali facoltà ci faccia ignoranti della vera essenza di tali cose? È forse qualche senso particolare che rivela ai galli l’ora del mattino e di mezzanotte, e li spinge a cantare; [C] che insegna alle galline, prima di ogni pratica ed esperienza, a temere uno sparviero e non un’oca né un pavone, animali più grossi; che avverte i pulcini dell’ostilità del gatto verso di loro, e insegna loro a non diffidare del cane; a mettersi in guardia contro il miagolio, voce in qualche modo lusingatrice, non contro il latrato, voce aspra e litigiosa; ai calabroni, alle formiche e ai topi, a scegliere sempre il formaggio migliore e la pera migliore prima di averli assaggiati; [A] e che guida il cervo, l’elefante, il serpente a riconoscere una certa erba adatta a guarirli. Non c’è senso che non abbia un grande dominio, e non arrechi per suo mezzo un numero infinito di cognizioni. Se ci mancasse l’intelligenza dei suoni, dell’armonia e della voce, questo porterebbe una confusione inimmaginabile in tutto il resto della nostra conoscenza. Di fatto, oltre a ciò che è legato all’azione propria di ciascun senso, quanti argomenti, conseguenze e conclusioni traiamo per le altre cose dal confronto di un senso con l’altro? Che un uomo intelligente immagini la natura umana creata in origine senza la vista, e consideri quanta ignoranza e confusione gli porterebbe un tale difetto, quante tenebre e cecità nella nostra anima: si vedrà così quale importanza abbia per noi, per la conoscenza della verità, la privazione di un altro senso come questo, o di due, o di tre, se è in noi. Abbiamo foggiato una verità con il consiglio e il concorso dei nostri cinque sensi: ma forse era necessario l’accordo di otto o dieci sensi, e il loro contributo, per percepirla con certezza e nella sua essenza.
Le sette che negano la scienza dell’uomo, la negano principalmente a causa dell’incertezza e debolezza dei nostri sensi; di fatto, poiché ogni conoscenza ci viene per loro mediazione e per mezzo loro, se falliscono nel darcene notizia, se corrompono o alterano quello che ci portano dall’esterno, se la luce che attraverso di essi penetra nella nostra anima si offusca nel passaggio, non abbiamo più dove aggrapparci. Da questa enorme difficoltà sono nate tutte quelle fantasie: che ogni oggetto ha in sé tutto ciò che noi vi troviamo; che non c’è niente di ciò che pensiamo di trovarvi; e quella degli epicurei, che il sole non è più grande di quanto lo giudichi la nostra vista,
[B]Quicquid id est, nihilo fertur maiore figura
Quam nostris oculis quam cernimus, esse videtur;I 518
[A] che le apparenze che fanno vedere un corpo grande a chi ne è vicino, e più piccolo a chi ne è lontano, sono ambedue vere,
[B]Nec tamen hic oculis falli concedimus hilum
Proinde animi vitium hoc oculis adfingere noli,II 519
[A] e che assolutamente non c’è alcun inganno nei sensi; che bisogna stare alla loro mercé, e cercare altrove le ragioni per giustificare la differenza e la contraddizione che vi riscontriamo. Cioè inventare qualsiasi altra menzogna e fantasticheria (arrivano fino a questo) piuttosto che accusare i sensi. [C] Timagora giurava che aveva un bello stringere e storcere gli occhi, non aveva mai visto doppia la luce della candela.520 E che quest’apparenza veniva dal vizio dell’opinione, non dello strumento. [A] Di tutte le assurdità, la più assurda per gli epicurei è sconfessare la forza e l’azione dei sensi.
Proinde quod in quoque est his visum tempore, verum est.
Et, si non potuit ratio dissolvere causam,
Cur ea quæ fuerint iuxtim quadrata, procul sint
Visa rotunda, tamen, præstat rationis egentem
Reddere mendose causas utriusque figuræ,
Quam manibus manifesta suis emittere quoquam,
Et violare fidem primam, et convellere tota
Fundamenta quibus nixatur vita salusque.
Non modo enim ratio ruat omnis, vita quoque ipsa
Concidat extemplo, nisi credere sensibus ausis,
Præcipitesque locos vitare, et cætera quaæ sint
[C] Questo consiglio disperato e così poco filosofico non significa altro se non che la scienza umana non si può sostenere che con una ragione irragionevole, folle e forsennata; ma che è sempre meglio che l’uomo, per farsi valere, se ne serva, come di ogni altro rimedio, per fantastico che sia, piuttosto che confessare la sua inevitabile stoltezza: verità invero svantaggiosa. Egli non può evitare che i sensi siano i sovrani padroni della sua conoscenza; ma sono incerti e falsabili in ogni circostanza. È qui che bisogna battersi a oltranza, e se le forze giuste ci vengono meno, come accade, ricorrere all’ostinatezza, alla temerità, all’impudenza.
[B] Nel caso che ciò che dicono gli epicurei sia vero, cioè che non abbiamo scienza se sono false le apparenze dei sensi; e se è vero anche quello che dicono gli stoici, che le apparenze dei sensi sono tanto false che non possono procurarci alcuna scienza, concluderemo, a spese di queste due grandi sette dogmatiche, che non c’è alcuna scienza.
[A] Quanto all’errore e all’incertezza dell’operazione dei sensi, ognuno può procurarsene quanti esempi vuole: tanto consueti sono gli errori e gli inganni che ci arrecano. Per l’eco di una valle, il suono di una tromba sembra venirci incontro, mentre viene da una lega indietro:
[B]Extantesque procul medio de gurgite montes
Iidem apparent longe diversi licet
Et fugere ad puppim colles campique videntur
Quos agimus propter navim
ubi in medio nobis equus acer obhæsit
Flumine, equi corpus transversum ferre videtur
Vis, et in adversum flumen contrudere raptim.I 522
[A] A tastare una palla d’archibugio sotto il secondo dito, mentre quello di mezzo è accavallato sopra, bisogna farsi violenza per riconoscere che ce n’è una sola, a tal punto il senso ce ne fa sentire due. In verità, che i sensi siano spesso padroni della ragione e la costringano a ricevere impressioni che essa sa e giudica false, lo si vede in ogni momento. Tralascio quello del tatto, i cui effetti sono più vicini, più vivi e sostanziali, che rovescia tante volte, per il dolore che porta al corpo, tutte quelle belle risoluzioni stoiche, e costringe a gridare disperatamente colui che con piena fermezza ha stabilito nella sua anima questo dogma, che la colica, come ogni altra malattia e dolore, è una cosa indifferente, che non ha la forza di diminuire minimamente il supremo benessere e la felicità in cui il saggio si trova per la propria virtù. Non c’è cuore così fiacco che il suono dei nostri tamburi e delle nostre trombe non lo ecciti, né così duro che la dolcezza della musica non lo risvegli e non lo lusinghi; né anima così indurita che non si senta toccata da qualche reverenza nel considerare la cupa vastità delle nostre chiese, la varietà degli ornamenti e l’ordine delle nostre cerimonie, e nell’udire il suono devoto dei nostri organi e l’armonia così posata e religiosa delle nostre voci. Perfino quelli che vi entrano con disprezzo523 sentono qualche fremito in cuore, e un certo sbigottimento che li fa titubare nella loro opinione. [B] Quanto a me, non mi ritengo abbastanza forte per ascoltare senza emozione dei versi di Orazio e di Catullo, cantati con voce esperta da una bocca giovane e bella. [C] E Zenone aveva ragione524 di dire che la voce era il fiore della bellezza. Mi si è voluto far credere che un uomo, che tutti noi Francesi conosciamo, mi aveva ingannato recitandomi dei versi che aveva composto: che questi versi non erano uguali sulla carta come nell’aria, e che i miei occhi li avrebbero giudicati diversamente dai miei orecchi, tanto la dizione ha potere di dar pregio e forma alle opere che cadono sotto la sua giurisdizione. Per cui non ebbe torto Filosseno525 che, udendo uno che recitava male una sua composizione, si mise a calpestare e rompere delle terrecotte di quel tale, dicendo: «Rompo ciò che è tuo come tu corrompi ciò che è mio». [A] Come mai quegli stessi che si sono dati la morte con ferma risoluzione distoglievano la faccia per non vedere il colpo che si facevano dare? E quelli che per la loro salute desiderano e ordinano di essere incisi e cauterizzati, non possono sopportare la vista dei preparativi, degli strumenti e dell’operazione del cerusico, dal momento che la vista non deve avere alcuna parte a quel dolore? Questi non sono esempi propri a dimostrare l’autorità che i sensi hanno sul ragionamento? Abbiamo un bel sapere che quelle trecce sono prese a prestito da un paggio o da un lacchè, che quel rosso è venuto dalla Spagna, e quel bianco e quel liscio dall’Oceano: bisogna pure che la vista ci spinga a trovare l’oggetto più amabile e più leggiadro per questo, contro ogni ragione. Poiché in questo non c’è nulla di suo,
Auferimur cultu; gemmis auroque teguntur
Crimina: pars minima est ipsa puella sui.
Sæpe ubi sit quod ames inter tam multa requiras:
Decipit hac oculos Ægide, dives amor.I 526
Quanto concedono alla forza dei sensi i poeti che fanno Narciso perduto d’amore per la propria immagine,
Cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse;
Se cupit imprudens; et qui probat, ipse probatur;
Dumque petit, petitur; pariterque accendit et ardet,I 527
e la mente di Pigmalione tanto turbata dalla vista della sua statua d’avorio, da amarla e servirla come fosse viva,
Oscula dat reddique putat, sequiturque tenetque,
Et credit tactis digitos insidere membris;
Et metuit pressos veniat ne livor in artus.II 528
Mettete un filosofo in una gabbia di fili di ferro sottili e radi, sospesa in cima alle torri di Notre-Dame di Parigi, egli vedrà per evidenza di ragione che gli è impossibile cadere, e tuttavia, a meno che non sia abituato al mestiere di conciatetti, non potrà impedire che la vista di quell’altezza enorme lo turbi e lo agghiacci. Infatti ci è molto difficile sentirci sicuri nelle gallerie che sono nei nostri campanili, se sono traforate a giorno, benché siano di pietra. Ci sono alcuni che non possono nemmeno sopportarne l’idea. Si getti una trave fra queste due torri, di grossezza sufficiente per passeggiarci: non c’è saggezza filosofica di tale fermezza che possa darci il coraggio di camminarci sopra come faremmo se fosse a terra. Ho spesso sperimentato in queste nostre montagne (eppure sono di quelli che non si spaventano molto di queste cose) che non potevo sopportare la vista di quell’infinita profondità senza fremere e senza che mi tremassero le gambe e le cosce, benché fossi distante dall’orlo di tutta la mia lunghezza, e non potessi cadere a meno di non espormi al pericolo a bella posta. Osservai anche che qualsiasi fosse l’altezza, purché nel precipizio si affacciasse un albero o una prominenza di roccia per fermarvi un poco lo sguardo e sospenderlo, questo ci solleva e ci dà sicurezza, come se fosse una cosa dalla quale potessimo aver aiuto nella caduta; ma che i precipizi a picco e ininterrotti, non possiamo nemmeno guardarli senza che ci giri la testa: ut despici sine vertigine simul oculorum animique non possit;III 529 il che è un’evidente impostura della vista. Quel bel filosofo530 si cavò gli occhi per liberare l’anima dal disordine che gliene veniva, e poter filosofare in maggior libertà. Ma allora avrebbe dovuto anche farsi turare gli orecchi, [B] che Teofrasto dice531 essere lo strumento più pericoloso che abbiamo per ricevere impressioni violente che ci turbano e ci mutano; [A] e avrebbe dovuto privarsi infine di tutti gli altri sensi: cioè del suo essere e della sua vita. Di fatto essi hanno tutti questo potere di dominare la nostra ragione e la nostra anima. [C] Fit etiam sæpe specie quadam, sæpe vocum gravitate et cantibus, ut pellantur animi vehementius; sæpe etiam cura et timore.I 532 [A] I medici ritengono che vi siano certe complessioni che si agitano fino al furore per alcuni suoni e strumenti. Ne ho visti che non potevano sentir rosicchiare un osso sotto la tavola senza perdere la pazienza; e non c’è uomo che non s’infastidisca a quel rumore aspro e stridente che fanno le lime raschiando il ferro; come nel sentir masticare vicino a noi, o nel sentir parlare qualcuno che abbia il passaggio della gola o del naso impedito, parecchi si eccitano fino alla collera e all’odio. Quel flautista suggeritore533 di Gracco, che addolciva, rafforzava e regolava la voce del suo padrone quando questi arringava a Roma, a che serviva, se la modulazione e la qualità del suono non avessero potere di commuovere e alterare il giudizio degli ascoltatori? Davvero c’è di che menar vanto della fermezza di questo bell’oggetto, che si lascia condurre e mutare dal moto e dagli accidenti d’un vento così lieve!
Questa stessa beffa che i sensi operano sul nostro intelletto, la subiscono a loro volta. La nostra anima a volte se ne vendica allo stesso modo, [C] essi mentono e s’ingannano a gara. [A] Quello che vediamo e udiamo accesi dalla collera, non lo udiamo tale qual è,
Et solem geminum, et duplices se ostendere Thebas.II 534
L’oggetto che amiamo ci sembra più bello di quanto è,
[B]Multimodis igitur pravas turpesque videmus
Esse in deliciis, summoque in honore vigere,III 535
[A] e più brutto quello che non ci va a genio. A un uomo annoiato e afflitto la luce del giorno sembra tetra e tenebrosa. I nostri sensi sono non solo alterati, ma spesso del tutto storditi dalle passioni dell’anima. Quante cose vediamo che non percepiamo se il nostro spirito è occupato altrove?
In rebus quoque apertis noscere possis,
Si non advertas animum, proinde esse, quasi omni
Tempore semotæ fuerint, longeque remotæ.I 536
Sembra che l’anima tragga all’interno e occupi le forze dei sensi. Così l’interno e l’esterno dell’uomo sono pieni di debolezza e di menzogna. [B] Quelli che hanno paragonato la nostra vita a un sogno, hanno avuto ragione, forse più di quanto pensassero. Quando sogniamo, la nostra anima vive, agisce, esercita tutte le sue facoltà, né più né meno di quando è sveglia. Ma se le esercita più debolmente e oscuramente, non è certo di tanto che vi sia differenza come dalla notte a una luce viva. Piuttosto come dalla notte all’ombra. Là dorme, qui sonnecchia. Più e meno. Sono sempre tenebre, e tenebre cimmerie. [C] Noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo. Io non vedo tanto chiaro nel sonno. Ma quanto al vegliare, non lo trovo mai abbastanza netto e senza nubi. Inoltre il sonno nella sua profondità addormenta talvolta i sogni. Ma il nostro vegliare non è mai tanto sveglio da eliminare e dissipare del tutto i vaneggiamenti: che sono i sogni di quelli che sono svegli, e peggio che sogni. Dato che la nostra ragione e la nostra anima accolgono le fantasie e le opinioni che nascono in esse dormendo, e danno autorità alle azioni dei nostri sogni allo stesso modo che a quelle del giorno, perché non dovremmo domandarci se il nostro pensare e il nostro agire non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?
[A] Se i sensi sono i nostri primi giudici,537 non dobbiamo chiamare a consiglio i nostri soltanto, poiché in questa facoltà gli animali hanno altrettanto o maggior diritto di noi. È certo che alcuni hanno l’udito più acuto dell’uomo, altri la vista, altri l’odorato, altri il tatto o il gusto. Democrito diceva che gli dèi e le bestie avevano le facoltà sensitive molto più perfette dell’uomo.538 Ora, c’è una differenza enorme fra gli effetti dei loro sensi e dei nostri. La nostra saliva pulisce e secca le nostre piaghe, uccide il serpente:
Tantaque in his rebus distantia differitasque est,
Ut quod aliis cibus est, aliis fuat acre venenum.
Sæpe etenim serpens, hominis contacta saliva,
Disperit, ac sese mandendo conficit ipsa.I 539
Che qualità attribuiremo alla saliva? In base a noi stessi o in base al serpente? Con quale dei due sensi verificheremo la sua vera essenza che stiamo cercando? Plinio dice540 che ci sono nelle Indie certe lepri marine che per noi sono veleno, e noi per loro: sicché toccandole soltanto le uccidiamo; chi sarà veramente veleno, l’uomo o il pesce? A chi crederemo: al pesce nei riguardi dell’uomo, o all’uomo nei riguardi del pesce? [B] Una certa qualità d’aria è dannosa all’uomo, e non nuoce affatto al bue; un’altra dà noia al bue e non nuoce affatto all’uomo: quale delle due sarà, in verità e in natura, qualità pestilenziale? [A] Quelli che hanno l’itterizia vedono tutte le cose giallastre e più pallide di noi:
[B]Lurida præterea fiunt quæcunque tuentur
[A] Quelli che hanno la malattia che i medici chiamano iposfragma,542 che è una suffusione di sangue sotto la pelle, vedono tutte le cose rosse e sanguigne. Questi umori che cambiano così le operazioni della nostra vista, che ne sappiamo se non predominino nelle bestie e non siano loro abituali? Di fatto ne vediamo alcune che hanno gli occhi gialli come i nostri malati d’itterizia, altre che li hanno rossi di sangue: è verosimile che ad esse il colore degli oggetti appaia diverso che a noi: quale dei due giudizi sarà vero? Poiché non è detto che l’essenza delle cose si riferisca all’uomo soltanto. La durezza, la bianchezza, la profondità e l’asprezza interessano l’utile e la conoscenza degli animali come la nostra: la natura ne ha dato loro l’uso come a noi. Quando stringiamo gli occhi, i corpi che guardiamo li vediamo più lunghi e sottili; parecchie bestie hanno gli occhi così ristretti: questa lunghezza, dunque, è forse la vera forma di quel corpo, non quella che i nostri occhi gli danno nella loro condizione abituale. [B] Se premiamo l’occhio dal di sotto le cose ci sembrano doppie.
Bina lucernarum florentia lumina flammis
Et duplices hominum facies, et corpora bina.III 543
[A] Se abbiamo le orecchie impedite da qualcosa o il canale dell’udito ostruito, riceviamo il suono diversamente dal solito: gli animali che hanno le orecchie pelose, o che hanno soltanto un piccolissimo buco al posto dell’orecchio, non sentono di conseguenza quello che noi sentiamo e ricevono il suono diversamente. Vediamo nelle feste e nei teatri che, mettendo contro la luce delle torce un vetro tinto di qualche colore, tutto ciò che si trova in quel luogo ci appare o verde, o giallo o violetto,
[B]Et vulgo faciunt id lutea russaque vela
Et ferruginea, cum magnis intenta theatris
Per malos volgata trabesque trementia pendent:
Namque ibi consessum caveai subter, et omnem
Scenai speciem, patrum, matrumque, deorumque
Inficiunt, coguntque suo volitare colore,I 544
[A] è verosimile che gli occhi degli animali, che vediamo essere di colore diverso, riproducano loro le apparenze dei corpi conformemente ai loro occhi. Per giudicare l’azione dei sensi bisognerebbe dunque che prima di tutto ci trovassimo d’accordo con le bestie, e poi fra noi stessi. E non lo siamo affatto; e ogni momento ci mettiamo a discutere perché uno ode, vede o gusta qualcosa diversamente da un altro; e discutiamo quanto di ogni altra cosa, della diversità delle immagini che i sensi ci rappresentano. Diversamente ode e vede, secondo la regola consueta della natura, e diversamente gusta un bambino da un uomo di trent’anni; e diversamente costui da un uomo di sessanta.545 I sensi sono in alcuni più ottusi e oscuri, in altri più aperti e acuti. Noi percepiamo le cose in modi diversi, secondo come siamo e come esse ci appaiono. Ora, poiché il modo come ci appaiono è così incerto e controverso, non c’è da meravigliarsi se ci si dice che possiamo riconoscere che la neve ci appare bianca, ma quanto a stabilire se sia tale per sua essenza e in verità, non potremmo risponderne: e, scosso questo principio, tutta la scienza del mondo va necessariamente in malora.
E che dire del fatto che i nostri stessi sensi si ostacolano reciprocamente?546 Una pittura sembra in rilievo alla vista, al tatto sembra piatta; diremo che il muschio è gradevole o no, dato che è piacevole al nostro odorato e offende il nostro gusto? Ci sono erbe e unguenti adatti a una parte del corpo, che ne offendono un’altra; il miele è gradevole al gusto, sgradevole alla vista. Quegli anelli che sono intagliati in forma di piume, che in araldica si chiamano penne senza fine, non c’è occhio che sappia discernerne la larghezza, e che potrebbe sottrarsi a quell’illusione che da una parte essi vadano allargandosi, e affilandosi e restringendosi dall’altra, specialmente quando si fanno girare intorno al dito; tuttavia toccandoli vi sembrano uguali in larghezza e identici da ogni parte. [B] Quelle persone che, per secondare la loro voluttà,547 si servivano anticamente di specchi atti a ingrossare e ingrandire l’oggetto che riflettono, affinché le membra di cui dovevano servirsi piacessero loro di più per quest’ingrandimento oculare: a quale dei due sensi davano partita vinta, alla vista che rappresentava loro queste membra grandi e grosse a volontà, o al tatto che le presentava loro piccole e spregevoli? [A] Sono i nostri sensi che prestano all’oggetto queste diverse condizioni, mentre gli oggetti ne hanno una soltanto? Come vediamo del pane che mangiamo; è soltanto pane, ma il nostro uso lo trasforma in ossa, sangue, carne, peli e unghie:
[B]Ut cibus, in membra atque artus cum diditur omnes,
Disperit, atque aliam naturam sufficit ex se.I 548
[A] L’umore che la radice di un albero succhia si fa tronco, foglia e frutto; e l’aria, pur essendo una, si diversifica, soffiata in una tromba, in mille specie di suoni: sono, dico, i nostri sensi che allo stesso modo danno a questi oggetti diverse qualità, oppure essi le hanno in sé? E in questo dubbio, che cosa possiamo concludere sulla loro vera essenza?
Inoltre, poiché le circostanze delle malattie,549 della follia o del sonno ci fanno apparire le cose diverse da come appaiono ai sani, ai saggi e a quelli che sono svegli, non è verosimile che il nostro stato normale e i nostri umori naturali abbiano anche la capacità di dare alle cose un’essenza corrispondente alla loro condizione, e di adattarle a sé, come fanno gli umori sregolati? E che la nostra salute sia capace quanto la malattia di dar loro il suo aspetto? [C] Perché il temperante non avrà qualche forma di oggetti relativa a sé, come l’intemperante, e non imprimerà loro del pari il suo carattere? Lo stomacato attribuisce al vino la scipitezza; il sano, il sapore; l’assetato, la piacevolezza. [A] Ora, dato che il nostro stato adatta le cose a sé e le trasforma secondo sé, non sappiamo più quali esse siano in verità: poiché niente ci perviene se non falsato e alterato dai nostri sensi. Se il compasso, la squadra e la riga sono storti, tutte le proporzioni che se ne traggono, tutti gli edifici che si costruiscono sulla loro misura sono necessariamente altrettanto imperfetti e difettosi. L’incertezza dei nostri sensi rende incerto tutto ciò che essi producono:
Denique ut in fabrica, si prava est regula prima,
Normaque si fallax rectis regionibus exit,
Et libella aliqua si ex parte claudicat hilum,
Omnia mendose fieri atque obstipa necessum est,
Prava, cubantia, prona, supina, atque absona tecta,
Iam ruere ut quædam videantur velle, ruantque
Prodita iudiciis fallacibus omnia primis.
Hic igitur ratio tibi rerum prava necesse est
Falsaque sit, falsis quæcumque a sensibus orta est.I 550
Del resto, chi sarà capace di giudicare queste differenze?551 Come diciamo nelle dispute di religione che ci occorre un giudice non legato all’uno o all’altro partito, esente da parzialità e preferenza, cosa che non è possibile fra i cristiani, anche in questo avviene lo stesso: di fatto, se è vecchio, non può giudicare del sentimento della vecchiaia, essendo lui stesso parte in questa disputa; se è giovane, lo stesso; sano, lo stesso; lo stesso malato, addormentato e sveglio. Ci occorrerebbe qualcuno esente da tutte queste condizioni, affinché, senza prevenzione, giudicasse di queste proposizioni come a lui indifferenti; e in fin dei conti ci occorrerebbe un giudice che non fosse tale. Per giudicare le apparenze che riceviamo dagli oggetti, ci occorrerebbe uno strumento giudicatorio;552 per controllare questo strumento, ci occorre una dimostrazione; per controllare la dimostrazione, uno strumento: eccoci in un circolo vizioso. Poiché i sensi non possono chiudere la nostra disputa, essendo essi stessi pieni d’incertezza, bisogna che lo faccia la ragione; nessuna ragione potrà stabilirsi senza un’altra ragione: ed eccoci riportati indietro all’infinito. La nostra immaginazione non si applica alle cose estranee, ma si fonda sulla mediazione dei sensi,553 e i sensi non abbracciano l’oggetto estraneo, ma soltanto le loro proprie impressioni; e così l’immaginazione e l’apparenza non è dell’oggetto, ma soltanto dell’impressione e del turbamento del senso, e questa impressione e questo oggetto sono cose diverse: quindi chi giudica dalle apparenze giudica in base a una cosa diversa dall’oggetto. E se si dice che le impressioni dei sensi trasmettono all’anima la qualità degli oggetti estranei per rassomiglianza, come possono l’anima e l’intelletto esser certi di questa rassomiglianza, non avendo essi alcun rapporto con gli oggetti estranei? Allo stesso modo chi non conosce Socrate, vedendo il suo ritratto non può dire che è somigliante. Ora, chi volesse giudicare comunque sulla base delle apparenze: di tutte, è impossibile, poiché s’intralciano reciprocamente con le loro contraddizioni e discrepanze, come vediamo per esperienza; o sarà forse che alcune apparenze prescelte regolano le altre? Bisognerà controllare questa scelta con un’altra scelta, la seconda con la terza: e così non se ne verrà mai a capo. Insomma, non c’è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa. Così non si può stabilire nulla di certo dall’uno all’altro, tanto il giudicante quanto il giudicato essendo in continuo mutamento e oscillazione.
Non abbiamo alcuna comunicazione con l’essere,554 poiché ogni natura umana è sempre a metà fra il nascere e il morire, non manifestando di sé che un’oscura apparenza e un’ombra, e un’opinione incerta e fragile. E se per caso vi ficcate in testa di voler carpire il suo essere, sarà né più né meno che se voleste acchiappare l’acqua. Poiché quanto più esso serrerà e stringerà ciò che per sua natura cola via dappertutto, tanto più perderà ciò che voleva tenere e stringere in pugno. Così, essendo tutte le cose soggette a passare da un cambiamento all’altro, la ragione, cercandovi una reale consistenza, si trova delusa, non potendo afferrar nulla di consistente e permanente.555 Poiché tutto o sta per essere e non è ancora del tutto, o comincia a morire prima di esser nato. Platone diceva556 che i corpi non avevano mai esistenza, ma nascita: [C] pensando che Omero avesse fatto l’Oceano padre degli dèi e Teti loro madre per dimostrarci che tutte le cose sono in flusso, mutamento e variazione perpetua. Opinione comune a tutti i filosofi prima dell’età sua, come egli dice, eccettuato il solo Parmenide, che negava il movimento alle cose, della forza del quale egli fa gran caso. [A] Pitagora,557 che ogni materia è sfuggente e labile. Gli stoici, che non c’è tempo presente, e che quello che chiamiamo presente non è che la giuntura e il legame del futuro e del passato. Eraclito, che mai uomo era entrato due volte nello stesso fiume. [B] Epicarmo558 che colui che un tempo ha preso in prestito del denaro non ne è debitore adesso, e che colui che questa notte è stato invitato a venire a desinare stamani, oggi viene non invitato, dato che non sono più gli stessi, ma sono diventati altri; [A] e che non si poteva trovare una sostanza mortale due volte nel medesimo stato, poiché, per rapidità e agilità di cambiamento, ora essa si dissolve, ora si ricompone, viene e poi se ne va. Sicché quello che comincia a nascere non arriva mai fino alla perfezione dell’essere. Poiché questo nascere non termina mai e mai si ferma per essere arrivato a fine, ma dopo la generazione va sempre cambiandosi e mutandosi da uno a un altro. Come dal seme umano si fa prima nel ventre della madre un frutto senza forma, poi un bambino formato, poi, fuori del ventre, un poppante; poi diventa fanciullo; poi in seguito un giovinetto; poi un uomo fatto; poi un uomo maturo; infine un vecchio decrepito. In modo che l’età e la generazione successiva va sempre disfacendo e guastando la precedente:
[B]Mutat enim mundi naturam totius ætas,
Ex alioque alius status excipere omnia debet,
Nec manet ulla sui similis res: omnia migrant,
Omnia commutat natura et vertere cogit.I 559
[A] E poi noi stoltamente temiamo una specie di morte, laddove ne abbiamo già passate e ne passiamo tante altre. Poiché non solo, come diceva Eraclito, la morte del fuoco è nascita dell’aria, e la morte dell’aria nascita dell’acqua. Ma ancor più chiaramente possiamo vederlo in noi stessi. La maturità muore e passa quando sopravviene la vecchiaia, e la giovinezza termina nella maturità d’un uomo fatto, l’adolescenza nella giovinezza, e l’infanzia muore nell’adolescenza, e il giorno di ieri muore in quello di oggi, e il giorno di oggi morirà in quello di domani; e non c’è niente che rimanga, né che sia sempre uno. E che sia così lo prova il fatto560 che se rimanessimo sempre gli stessi ed uni, come potremmo gioire ora d’una cosa e ora d’un’altra? Come può essere che amiamo cose contrarie o le odiamo, che le lodiamo o le biasimiamo?561 Come possiamo avere affetti diversi, non conservando più lo stesso sentimento nello stesso pensiero? Di fatto non è verosimile che senza mutamento riceviamo altre impressioni. E ciò che è soggetto a mutamento non rimane uno stesso, e se non è uno stesso562 dunque neppure è. Ma insieme all’essere sempre uno, cambia anche l’essere semplicemente, diventando sempre altro d’un altro. E quindi i sensi naturali s’ingannano e mentono, prendendo ciò che appare per ciò che è, non sapendo bene che cosa è quello che è.
Ma che cosa dunque è veramente? Ciò che è eterno: cioè che non ha mai avuto nascita né avrà mai fine,563 al quale il tempo non porta mai alcun mutamento. Di fatto il tempo è cosa mobile, e che appare come in ombra, con la materia sempre scorrente e fluente, senza mai rimaner stabile né permanente; al quale pertengono queste parole: prima e dopo, ed è stato o sarà. Le quali a prima vista mostrano chiaramente che non è cosa che sia. Poiché sarebbe una gran sciocchezza e una falsità ben evidente dire che sia ciò che non è ancora in essere, o che ha già cessato di essere. E quanto a queste parole: presente, istante, ora, con le quali sembra che soprattutto diamo sostegno e fondamento alla comprensione del tempo, la ragione scoprendolo lo distrugge immediatamente: poiché lo spezza subito e lo divide564 in futuro e in passato, come se volesse necessariamente vederlo spartito in due. Altrettanto accade sia alla natura, che è misurata, sia al tempo che la misura. Poiché nemmeno in essa c’è qualcosa che rimanga, né che sia consistente, ma tutte le cose sono o nate, o nascenti, o morenti. Per cui sarebbe peccato dire di Dio che è il solo che è, che fu o sarà.565 Poiché questi termini sono declinazioni, passaggi o vicissitudini di ciò che non può durare né rimanere in essere. Quindi bisogna concludere che Dio solo è, non secondo alcuna misura di tempo, ma secondo un’eternità immutabile e immobile, non misurata dal tempo, né soggetta ad alcuna declinazione; davanti al quale nulla è, né sarà dopo, né più nuovo o più recente; anzi un unico ente reale, che con un solo ora riempie il sempre; e non c’è nulla che sia veramente se non lui solo, senza che si possa dire: è stato, o: sarà; senza principio e senza fine.
A questa conclusione così religiosa di un uomo pagano voglio aggiungere soltanto questa sentenza di un testimone di egual condizione,566 a chiusura di questo lungo e noioso discorso che mi fornirebbe materia senza fine: «Che cosa vile» egli dice «e abietta è l’uomo, se non s’innalza al di sopra dell’umanità». [C] Ecco una bella frase, e un utile desiderio, ma ugualmente assurdo. [A] Poiché fare il pugno più grande della mano, la bracciata più lunga del braccio, e sperar di fare il passo più lungo della gamba, è impossibile e contro natura. Come è impossibile che l’uomo s’innalzi al di sopra di sé e dell’umanità: poiché non può vedere che con i suoi occhi, né afferrare che con le sue capacità. Egli s’innalzerà se Dio gli porge eccezionalmente la mano. Si innalzerà, abbandonando i suoi propri mezzi e rinunciandovi, e lasciandosi alzare e sollevare da [C] mezzi puramente celesti. Sta alla nostra fede cristiana, non alla sua virtù stoica, aspirare a questa divina e miracolosa metamorfosi.
I Poiché si calpesta furiosamente ciò che prima si è troppo temuto
I Come una grande roccia respinge i flutti che la percuotono e disperde con la sua mole le onde che da ogni parte le mugghiano intorno
I Se credi, imparerai presto la via della virtù e della felicità
I Allora il morente non si lamenterebbe più per la propria dissoluzione, ma piuttosto sarebbe lieto di partire e di lasciar la propria spoglia come il serpente o come un cervo vecchio perde le corna troppo lunghe
I Dio stesso non nega alla terra la vista del cielo; facendolo girare senza posa, ci svela il suo volto e il suo corpo, e s’inculca egli stesso in noi e a noi si offre perché possiamo conoscerlo bene e per insegnarci a contemplare il suo andare e ad osservare le sue leggi
II Se hai qualcosa di meglio, dillo, altrimenti sottomettiti
I Poiché Dio non vuole che altri s’inorgoglisca al di fuori di lui
II Iddio si oppone ai superbi, e invece fa grazia agli umili
I Per chi dunque diremo che è stato fatto il mondo? Certo per gli esseri animati che hanno uso di ragione. Questi sono gli dèi e gli uomini, dei quali sicuramente non esiste nulla di meglio
II quando leviamo gli occhi agli spazi celesti del vasto universo al di sopra di noi, e alle stelle brillanti nell’etere, e pensiamo ai moti della luna e del sole
III Poiché ha fatto dipendere dagli astri le azioni e la vita degli uomini
IV e riconosce che gli astri, che vediamo tanto lontani da noi, governano gli uomini secondo leggi segrete, che l’universo intero si muove d’un movimento periodico e il corso del destino è regolato da segni determinati
V Quanto grandi sono gli effetti dei più piccoli movimenti, tanto potente è questo regno che comanda i re medesimi
I l’uno, furioso d’amore, attraversa il mare e distrugge Troia; la sorte di un altro è di redigere leggi; ecco dei figli che uccidono il padre, e dei genitori i figli; dei fratelli che si armano e si massacrano a vicenda. Non siamo noi responsabili di questa guerra: essi sono costretti a rovesciar tutto, a infliggersi pene e a lacerarsi con le proprie mani; e che si parli così del destino, anche questo è il destino che lo vuole
II quali furono gli apparecchi, gli strumenti, le leve, le macchine, gli operai che elevarono un così grande edificio?
III Tanto stretti sono i limiti del nostro spirito
I Fra le altre infermità della natura mortale c’è questa, l’offuscamento delle menti, che non solo le costringe ad errare, ma fa loro amare il proprio errore. Il corpo corruttibile appesantisce l’anima, e la dimora terrena opprime la mente agitata da molti pensieri
I E le greggi mute e perfino le razze delle belve emettono abitualmente gridi diversi e vari secondo che li agiti la paura o il dolore o che esultino per la gioia
II Pressappoco allo stesso modo si vedono i fanciulli costretti a ricorrere ai gesti per incapacità a parlare
I Da questi segni e da questi esempi hanno detto che le api hanno una parte dell’intelligenza divina e delle emanazioni dell’etere
I Allora il fanciullo, simile al marinaio che i flutti infuriati hanno gettato sulla riva, giace nudo a terra, incapace di parlare, sprovvisto di tutto ciò che aiuta a vivere, fin dal momento in cui la natura con sforzo lo strappa dal ventre della madre per darlo alla luce; e riempie lo spazio di lamentosi vagiti, come si conviene a chi deve, nella vita, passare attraverso tanti mali. Mentre gli animali d’ogni specie, greggi e bestie selvagge, crescono senza pena, e non hanno bisogno di sonaglini né del balbettio carezzevole d’una tenera nutrice; non hanno bisogno di vesti diverse secondo le stagioni, né infine occorrono loro armi né alte mura per proteggere i loro beni, poiché la terra stessa e la natura ingegnosa provvedono largamente a tutti i loro bisogni
I Poiché ognuno sente la propria forza e ciò che può farne
II E la terra spontaneamente creò dapprima per i mortali le bionde messi e i ricchi vigneti; e lei stessa produsse i dolci frutti e i pascoli abbondanti che ora a stento la nostra fatica fa crescere logorandovi i buoi e le forze dei contadini
I e gli uccelli diversi emettono voci diversissime secondo il tempo, e al variare delle stagioni alcuni variano il rauco suono del canto
I Tutte le cose sono incatenate dai legami del proprio destino
II ogni cosa si sviluppa a suo modo, e tutte conservano le differenze stabilite dall’ordine immutabile della natura
I Bruciami la testa alla fiamma, se vuoi, e trapassami con la spada, e flagellami la schiena a colpi di staffile
I la cicogna nutre i suoi piccoli di serpenti e di lucertole che trova in campi deserti, e i nobili uccelli ministri di Giove cacciano sulle balze la lepre e il cerbiatto
I i loro antenati servirono il cartaginese Annibale e i nostri generali e il re dei Molossi, e portavano sul dorso le coorti partecipando alla guerra e come uno squadrone entrando in battaglia
I hanno un nome, e ognuno viene alla voce del padrone che lo chiama
I Tenete caldi i piedi e la testa, per il resto vivete da bestia
II i più ritengono che le donne concepiscano più facilmente al modo delle bestie, nella posizione dei quadrupedi, poiché così il seme raggiunge la sua meta grazie all’inclinazione del petto e al sollevamento delle reni
I Infatti la donna si vieta e s’impedisce di concepire se, agitando le natiche nell’eccitazione, stimola il desiderio dell’uomo e divincolando il corpo flessuoso provoca il fiotto. Poiché così sposta il vomere dalla linea del solco e fa deviare il getto del seme
I non ha bisogno del sesso della figlia di un gran console
I le giovenche subiscono senza vergogna il proprio padre, e la cavalla si unisce al cavallo da cui è nata; il caprone si congiunge alle capre che ha generato e l’uccello è fecondato dal seme da cui è stato concepito
I quando mai un leone più forte ha strappato la vita a un altro leone? in quale bosco mai un cinghiale è spirato sotto i denti d’un cinghiale più forte?
II spesso fra due api regine nasce una contesa con grande tumulto, e subito si può immaginare in anticipo il furore guerriero che agita gli animi del popolo
III Là il fulgore delle armi si leva fino al cielo e tutta la terra intorno s’illumina del loro riflesso, il suolo risuona sotto i passi robusti degli uomini, e i monti percossi da quel clamore ne rimandano l’eco fino agli astri del firmamento
IV Si narra che per l’amore di Paride la Grecia e il mondo barbaro vennero a terribile conflitto
I Poiché Antonio ha fottuto Glafira, Fulvia mi impone il castigo di fotterla. Che io fotta Fulvia? E se Manio mi pregasse di incularlo, lo farò forse? No di certo, se ho cervello. O mi fotti o litighiamo, dice lei. E come, se la vita mi è meno cara del mio sesso? Suonino le trombe di guerra
II Come i molti flutti che agitano il mare di Libia quando il focoso Orione si tuffa nelle onde d’inverno, o come le spighe gonfie bruciano al nuovo sole, sia nella valle dell’Ermo sia nei campi biondeggianti di Licia, risuonano gli scudi e la terra scossa trema sotto i passi
III La nera schiera s’avanza nella pianura
I Queste collere e queste grandi lotte si calmano, sopite da un piccolo pugno di polvere
I Poi viene Etone, il suo cavallo di guerra, spoglio degli ornamenti, piangendo, e bagna il suo viso di grosse lacrime
I Così vedrai forti cavalli, giacendo addormentati, sudare tuttavia e soffiar di frequente e tendere tutte le forze come se si trattasse di vincere
II Spesso i cani da caccia, pur nella quiete del riposo, agitano d’un tratto le zampe, e d’improvviso abbaiano e annusano l’aria a più riprese, come se avessero scoperto e seguissero le tracce della selvaggina. Spesso si svegliano e inseguono illusorie immagini di cervi, come se li vedessero prender la fuga: finché l’errore si dissipa ed essi tornano in sé
I la tenera razza dei cagnolini che vivono nelle case spesso scuote dagli occhi una leggera e passeggera sonnolenza e si alza di scatto immaginando di vedere volti e figure ignote
II Il colorito d’un belga sarebbe brutto su di un volto romano
I Molti animali ci superano in bellezza
II E mentre gli altri animali, con la faccia in basso, guardano la terra, Dio ha dato all’uomo una fronte rivolta verso l’alto, gli ha comandato di contemplare il cielo e di levare il volto verso gli astri
III Come ci assomiglia la scimmia, il più brutto degli animali!
I Qualcuno, avendo visto scoperte le parti vergognose del corpo amato, in pieno slancio si arrestò il suo amore
II E le nostre amanti non l’ignorano: infatti nascondono tutti i retroscena della vita soprattutto a coloro che vogliono trattenere e incatenare col loro amore
I Come il vino raramente giova ai malati e spessissimo è loro nocivo, sicché è meglio non darne loro affatto piuttosto che correre un rischio evidente nella speranza di un’incerta guarigione: allo stesso modo, non so se non sarebbe stato meglio per il genere umano che questa attività di pensiero, questa penetrazione, questa ingegnosità che chiamiamo ragione non ci fosse data affatto, piuttosto che esserci così generosamente e largamente distribuita, dal momento che è dannosa ai più e salutare solo a pochi
II Forse che il sesso è meno gagliardo in chi non sa di lettere?
III Certo sfuggirai così alle malattie e alla decrepitezza, eviterai dolore e pena, e ti sarà data una vita più lunga e una sorte migliore
I sarete come dèi, conoscendo il bene e il male
I Badate che non vi si inganni per mezzo della filosofia e di vane seduzioni secondo gli elementi del mondo
II Insomma, il saggio è inferiore soltanto a Giove: è ricco, libero, onorato, bello, infine è re dei re; soprattutto sano, purché non lo tormenti il catarro
I Fu un dio, sì, un dio, illustre Memmio, che per primo trovò quella regola di vita che ora è chiamata saggezza e che con la sua arte, strappata la vita a tanto grandi tempeste e a tenebre tanto profonde, l’ha collocata in tanta serenità e in così chiara luce
II A ragione ci gloriamo della nostra virtù, cosa che non accadrebbe se l’avessimo in dono da un dio, non da noi stessi
III Non bisognava far lo spavaldo a parole per soccombere alla prova dei fatti
I Gli uomini sono meno sensibili al piacere che al dolore
II siamo sensibili al minimo colpo che ci sfiora la pelle, mentre non abbiamo coscienza della nostra salute. Ci rallegriamo di non essere pleuritici né gottosi: per il resto, a malapena ci accorgiamo di essere sani e vigorosi
III È aver molto bene, il non aver male
I Questa insensibilità si può ottenere solo pagandola molto cara, con l’abbrutimento dell’anima e il torpore del corpo
II egli [Epicuro] pone il sollievo dalle pene nel distrarsi dai pensieri fastidiosi e nel dedicarsi alla meditazione dei piaceri
I È dolce ricordarsi dei mali passati
II Dipende da noi il seppellire i nostri mali in una sorta di perpetuo oblio, e risvegliare il dolce e lieto ricordo delle nostre felicità
III Ricordo anche ciò che non voglio, e non posso dimenticare ciò che voglio
IV che solo ha osato proclamarsi saggio
V Che si è innalzato col suo genio al di sopra del genere umano e ha eclissato tutti gli uomini, come il sole levandosi nell’etere eclissa le stelle
VI L’ignoranza è un rimedio impotente per i nostri mali
I comincerò a bere e a spargere fiori, e sopporterò perfino di passare per pazzo
II per Polluce, mi avete ucciso, amici miei, egli dice, invece di guarirmi, mi avete tolto la felicità e strappata a forza l’illusione che era la mia gioia
III Non aver coscienza di niente è la vita più felice
I Ti piace? Sottomettiti. Non ti piace? Escine nel modo che vuoi
II Il dolore ti tormenta, ammettiamo anche che ti torturi: se sei senza difesa, porgi la gola; ma se sei rivestito delle armi di Vulcano, cioè di coraggio, resisti
III o beva o se ne vada
IV Se non sai vivere bene, cedi il posto a coloro che sanno. Ti sei divertito abbastanza, abbastanza hai mangiato e bevuto: è tempo per te di ritirarti, perché tu non beva troppo e la gioventù cui si addice folleggiare non rida di te e non ti cacci via
V Democrito, quando la vecchiaia avanzata lo avvertì del declino della sua vivacità mentale, spontaneamente porse il capo alla morte che veniva
VI Alla virtù t’accosta, o alla morte
I [Montaigne traduce questa sentenza prima di citarla]
I Si conosce meglio Dio non conoscendolo
II È più santo e più rispettoso, quanto alle azioni degli dèi, credere che conoscere
III Invero è difficile conoscere l’autore di questo universo; e se si arriva a conoscerlo, rivelarlo al volgo è empietà
IV esprimendo cose immortali in termini mortali
V Non può essere soggetto né alla clemenza né all’ira poiché tali passioni sarebbero solo debolezza
I Quasi tutti gli antichi hanno detto che non si può conoscere nulla, comprendere nulla, sapere nulla; che i nostri sensi sono limitati, i nostri spiriti deboli e il corso della nostra vita breve
II Bisogna parlare, ma sarà senza affermar nulla, indagando tutte le cose, dubitando il più delle volte e diffidando di me stesso
III Che russa da sveglio, e la cui vita è già quasi morta mentre è vivo e vede
I Chi pensa che non si possa saper nulla, non sa nemmeno se si può saper tanto da poter dire di non saper nulla
I si attaccano a qualsiasi dottrina come a una roccia su cui la tempesta li abbia gettati
I Tanto più liberi e indipendenti in quanto hanno piena autonomia di giudizio
II Cosicché, trovando su uno stesso argomento ragioni eguali e pro e contro, sia più facile, da una parte e dall’altra, sospendere il proprio giudizio
I Poiché Dio ha voluto che avessimo non la conoscenza ma soltanto l’uso di queste cose
I Il Signore conosce i pensieri degli uomini e sa che sono vani
I che i dotti immaginano più che conoscerla
II Mi spiegherò come potrò: non come Apollo Pizio, con parole certe e definitive, ma, da povero mortale, cercando di avvicinarmi al probabile attraverso congetture
III Se per caso, discutendo della natura degli dèi e dell’origine del mondo, non possiamo raggiungere lo scopo che ci proponiamo, non ci sarà da meravigliarsi. Bisogna infatti ricordarsi che io che parlo e voi che giudicate siamo solo uomini; per cui, se arriviamo ad affermare cose probabili, non domandate di più
I Coloro che indagano su che cosa pensiamo di ogni argomento spingono troppo lontano la loro curiosità. Questo principio in filosofia, di discutere di tutto senza decidere chiaramente di nulla, stabilito da Socrate, ripreso da Arcesilao, rafforzato da Carneade, è ancora in vigore ai tempi nostri. Noi siamo della scuola che dice che il falso è dovunque mescolato al vero e gli assomiglia al punto che nessun criterio permette di giudicare e decidere con certezza
II il tenebroso
III Illustre per il suo linguaggio oscuro, soprattutto fra le teste vuote. Poiché gli sciocchi ammirano e amano di preferenza tutto quello che vedono nascosto sotto termini ambigui
I Mi piacciono poco le lettere che non hanno servito a rendere virtuosi coloro che ne fanno professione
I Le opere divine, per parecchie vie, ci procurano traversie
II I pensieri dei mortali sono timidi, e malsicuri i nostri divisamenti e le nostre previsioni
I È meglio imparare cose inutili che non imparar nulla
I tutte queste idee ognuno le trae dal proprio cervello, non dall’evidenza scientifica
I Sembra non tanto che fossero convinti di quello che dicevano, quanto che volessero esercitare il proprio ingegno per la difficoltà dell’argomento
II Giove onnipotente, padre e madre del mondo, dei re e degli dèi
I la luce comune, l’occhio del mondo; e se Dio ha occhi, suoi occhi radiosi sono i raggi del sole, che a tutti danno vita, ci conservano e ci proteggono, mirando in questo mondo le azioni degli uomini: questo bello e grande sole che produce per noi le stagioni, secondo che entra o esce dalle dodici costellazioni; che riempie l’universo delle sue virtù ben note e con un batter di ciglio dissipa le nubi: spirito, anima del mondo, che arde e che fiammeggia, nella corsa d’un giorno compiendo il giro del cielo; pieno d’immensa grandezza, rotondo, vagante e fermo, per mira sotto di sé tiene tutto il mondo; in quiete senza quiete; ozioso e senza posa, figlio primigenio di natura e padre del giorno
I Ho sempre pensato che esista una stirpe di dèi, e lo proclamerò sempre, ma ritengo che non si curino di ciò che fa il genere umano
I Tutte queste cose sono tanto lontane dalla divinità, tanto indegne di essere annoverate fra gli dèi
II Si conoscono il loro aspetto, la loro età, le loro vesti, i loro ornamenti: le genealogie, i matrimoni, le parentele, tutto è fatto a somiglianza della debolezza umana; infatti li facciamo soggetti agli stessi turbamenti, e crediamo alle passioni degli dèi, alle loro pene, alle loro collere
III A che giova introdurre i nostri costumi nei templi? O anime curve a terra e vuote di pensieri celesti!
I Colli reconditi li nascondono e una selva di mirti li avvolge; le pene non li abbandonano neppure nella morte
I Era Ettore quando combatteva nella mischia; ma colui che fu trascinato dai cavalli di Achille non era più Ettore
II ciò che muta, si decompone; dunque muore: le parti infatti cambiano posto e ordine
I E anche se, raccogliendo tutta la nostra materia, il tempo, dopo la nostra morte, la rimettesse nell’ordine in cui è ora, e ci fosse di nuovo data la luce della vita, questo tuttavia non ci riguarderebbe, poiché sarebbe stata interrotta la catena dei nostri ricordi
II Svelto dalle radici e staccato dal resto del corpo, l’occhio solo non può distinguere alcun oggetto
III Poiché frattanto la vita ha subito una pausa e i movimenti si sono dispersi qua e là in assenza di ogni sensazione
IV E questo non ci riguarda, noi che esistiamo per l’unione e la congiunzione dell’anima e del corpo in un tutto indissolubile
I Scelse quattro giovani, figli di Sulmona, e altrettanti cresciuti sulle rive dell’Ufente, per immolarli vivi alle ombre degli inferi
II A tali crimini poté indurre la religione
III E ingiustamente vergine proprio in età da nozze, dovesse soccombere, vittima dolorosa immolata dal proprio padre
I Quale grande iniquità degli dèi fu questa, di non indursi alla benevolenza verso il popolo romano se non a prezzo della vita di tali uomini!
II Tale è il furore della loro mente delirante e fuor di sé che per placare gli dèi superano tutte le crudeltà degli uomini
III Per che cosa temono l’ira degli dèi, coloro che credono di propiziarseli in tal modo? Alcuni sono stati castrati per servire alla libidine dei re; ma nessuno si è castrato da solo quando il padrone gli comandava di non esser più uomo
IV spesso, un tempo, la religione produsse azioni empie e scellerate
I La debolezza di Dio è più forte degli uomini e la sua stoltezza è più saggia degli uomini
II tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le somme
I La terra e il sole, la luna, il mare, tutte le cose che sono non sono uniche, ma piuttosto in numero innumerevole
II nella somma delle cose non ce n’è nessuna che sia unica, che nasca unica e cresca unica e sola
III Così, ancora lo ripeto, bisogna riconoscere che vi sono altrove altri aggregati di materia analoghi a questo nostro mondo che l’etere abbraccia con avida stretta
I [Montaigne traduce questi versi prima di citarli]
I che domani Giove riempia il cielo d’una nera nube o d’un chiaro sole, non potrà tuttavia render vano tutto ciò che è dietro di noi, né cambiare o far sì che non sia accaduto quel che l’ora fuggente ha portato con sé
II È straordinario fin dove arriva l’arroganza del cuore umano, quando il minimo successo l’incoraggia
III Gli dèi si occupano delle cose grandi e trascurano le piccole
IV Neppure i re si occupano di tutti i dettagli del governo
I Dio, artefice tanto grande nelle cose grandi, non lo è meno nelle piccole
II Ciò che è beato ed eterno non ha preoccupazione alcuna e non ne causa agli altri
III Si spaventano di ciò che hanno immaginato
IV Come se ci fosse alcunché di più infelice dell’uomo schiavo delle proprie chimere
I Alla quale sola è dato conoscere gli dèi e le potenze celesti o sapere che è impossibile conoscerli
I nemmeno se tu ti gonfiassi fino a scoppiare, dice
II Certo non è Dio, che non possono concepire, ma se stessi che si rappresentano in luogo di lui, e non è lui ma se stessi che paragonano non a lui ma a sé
I Tale è l’attitudine e il pregiudizio della nostra mente che, quando pensa a Dio, subito le si presenta la forma umana
I Tanto indulgente mezzana è la natura e a tal punto lusingatrice di se stessa
II e domati dal braccio di Ercole i figli della terra, per cui tremò di fronte al pericolo la splendente dimora del vecchio Saturno
III Nettuno col grande tridente fa tremare le mura scosse dalle fondamenta e fa crollare la città intera. Là, in prima fila, la crudele Giunone occupa le Porte Scee
IV a tal punto la superstizione introduce gli dèi perfino nelle più piccole cose
I là erano le sue armi, là il suo carro. O santo Apollo, tu che abiti l’esatto ombelico del mondo! I Cecropidi onorano Pallade; la Creta di Minosse, Diana; la terra di Ipsipile, Vulcano; Sparta e Micene Pelopea, Giunone; Pan coronato di pini è il dio delle contrade di Menalo, Marte del Lazio
II E il tempio del nipote è riunito a quello del suo grande avo
III Poiché non li giudichiamo ancora degni dell’onore del cielo, permettiamo loro almeno di abitare le terre che abbiamo loro concesso
IV Creta, culla di Giove
I Poiché cerca la verità per essere libero, si può credere che essere ingannato sia nel suo interesse
I il timone era d’oro, d’oro i cerchi delle ruote, e d’argento i raggi
II Il mondo è un’immensa casa, recinta da cinque zone altisonanti, attraversata da una fascia adorna di dodici segni brillanti di stelle, che taglia obliquamente l’etere, col carro della luna e i suoi due corsieri
III Tutte queste cose sono nascoste, celate e circondate da spesse tenebre, sicché nessun ingegno umano è tanto acuto da poter penetrare il cielo o le profondità della terra
I Nessuno guarda quello che ha ai propri piedi; si scrutano le plaghe celesti
II Che cosa governi il mare, che cosa regoli le stagioni; se le stelle si muovano ed errino per movimento proprio o spinte da una forza estranea; che cosa faccia crescere e decrescere il disco lunare; quale sia il significato e la portata di questa discorde armonia
I Tutte queste cose sono impenetrabili alla ragione e nascoste nella maestà della natura
II Il modo in cui le anime sono unite ai corpi è assolutamente meraviglioso e non può esser compreso dall’uomo: e l’uomo stesso è questa unione
I Si ignora, di fatto, quale sia la natura dell’anima, se sia nata col corpo o vi si introduca alla nascita, e se perisca con noi nella dissoluzione della morte oppure vada a vedere le tenebre dell’Orco e i suoi vasti abissi, o se infine per volontà divina s’insinui in altri animali
II Egli vomita la sua anima di sangue
III Hanno il vigore del fuoco, e origine celeste
I una certa proprietà vitale del corpo, che i Greci chiamano armonia
II Fra tutte queste opinioni, quale sia la vera spetta a un dio giudicarlo
III Come spesso si parla della buona salute del corpo, e tuttavia la salute non è un organo del corpo sano
IV Qui infatti trasaliamo per lo spavento e il timore, in questa parte palpitiamo di gioia
V Quale sembiante abbia l’anima o dove alberghi, non dobbiamo cercar di saperlo
I Non si può dir nulla di tanto assurdo che non sia stato detto da qualche filosofo
I Febo non si allontana mai dal suo cammino in mezzo al cielo; tuttavia illumina tutto con i suoi raggi
II L’altra parte dell’anima, disseminata per tutto il corpo, obbedisce alla volontà dello spirito e si muove sotto l’impulso di questo
III Poiché Dio si diffonde per tutte le terre, nelle distese del mare e nelle profondità del cielo: da lui le greggi, gli armenti, gli uomini, tutte le bestie selvagge derivano, nascendo, i sottili principi della vita; poi naturalmente a lui tutto ritorna e in lui tutto si risolve: non c’è posto per la morte
I La virtù di tuo padre ti è stata trasmessa con la vita: i figli coraggiosi nascono da padri coraggiosi e onesti
II Infine, perché l’aspra violenza è propria alla razza crudele dei leoni, perché l’astuzia è trasmessa per eredità alle volpi, l’istinto della fuga ai cervi, e un timore ereditario eccita le loro membra, se non perché in ogni genere, in ogni specie, risiede un’anima determinata che cresce con tutto il corpo?
III se l’anima s’insinua nel corpo al momento della nascita, perché non possiamo ricordare nulla della nostra vita passata e non conserviamo alcuna traccia delle nostre antiche azioni?
I Poiché se le facoltà dell’anima sono alterate a tal punto che ogni ricordo delle azioni passate sia scomparso, un tale stato, mi sembra, non è molto lontano dalla morte
I costatiamo che l’anima nasce col corpo e cresce con lui e insieme con lui invecchia
II vediamo che l’anima può guarire, come un corpo malato, e ristabilirsi con la medicina
III bisogna che la natura dell’anima sia corporea, poiché soffre per dardi e colpi corporei
IV la facoltà dell’anima è turbata […] e divisa si frantuma, spezzata dallo stesso veleno
I la forza del male diffondendosi per le membra turba l’anima e la sconvolge, come sul salso mare la forza scatenata dai venti fa ribollire le onde spumeggianti
II nelle malattie del corpo spesso lo spirito si smarrisce: sragiona e delira; a volte un pesante letargo lo sprofonda in un sopore greve ed eterno, gli occhi chiusi, la testa abbandonata
I Poiché congiungere il mortale all’eterno e supporre in essi sentimenti comuni e scambievoli servigi è pura follia. Che cosa infatti si può immaginare di più contraddittorio o di più discordante e incompatibile del mortale unito all’immortale e al perenne per sostenere insieme terribili tempeste?
II essa vien meno con lui sotto il peso dell’età
III Crede che l’anima si contragga e quasi venga meno e cada
IV Proprio come un malato può aver male a un piede senza aver tuttavia alcun dolore alla testa
I cosa assai piacevole, che promettono più che dimostrano
II Sogni d’un uomo che formula un desiderio, non che dà un insegnamento
I Sperderò la sapienza dei sapienti e annienterò la prudenza dei prudenti
II L’oscurità in cui è avvolta la conoscenza di ciò che ci è utile è un esercizio per l’umiltà e un freno per l’orgoglio
I Quando discutiamo dell’immortalità dell’anima, è argomento di non poco peso il consenso degli uomini che temono o onorano gli dèi infernali. Traggo partito da questa convinzione generale
II Ci accordano una lunga durata, come alle cornacchie: dicono che le nostre anime vivranno a lungo, ma non sempre
III O padre, bisogna dunque pensare che alcune anime salgono da qui nell’alto dei cieli e di nuovo tornano alla pesantezza dei corpi? Che cosa può ispirare a questi disgraziati un così insensato desiderio della vita?
I Infine è il colmo del ridicolo che le anime siano lì pronte giusto al momento degli accoppiamenti o dei parti delle bestie, e che si affollino innumerevoli, esse che sono immortali, in attesa dei corpi mortali e gareggino in rapidità a chi vi s’introdurrà per prima e da padrona
I come se si potesse stabilire la misura di qualche altra cosa se si ignora la propria
I che sono legati e votati a opinioni certe e determinate, al punto che son costretti a difendere perfino le cose che non approvano
I come la cera dell’Imetto si ammorbidisce al sole e lavorata dal pollice prende mille forme, e diventa più duttile via via che la si maneggia
I Non si può comprendere una cosa più o meno di un’altra, poiché per tutte le cose c’è una sola definizione del comprendere
II Vulcano era contro Troia, per Troia parteggiava Apollo
I Fra le apparenze vere o false non c’è nessuna differenza che determini l’assenso
I una scoperta posteriore scredita le antiche e ci fa cambiare opinione
I I pensieri degli uomini variano con i fecondi raggi con i quali il padre Giove illumina la terra
I del tutto incurante di sapere sotto quale re tremino le orse glaciali o che cosa spaventi Tiridate
I come un fragile scafo sorpreso sul mare largo da un vento furioso
I Aiace fu sempre forte, ma non mai come nella follia
I Come la calma del mare è per noi l’assenza del minimo soffio che potrebbe increspare la superficie dell’acqua, così riconosciamo che l’anima è calma e tranquilla quando nessuna passione può turbarla
I Come il mare, con movimento periodico, ora si precipita verso la costa e copre gli scogli di flutti spumeggianti, e bagna per lungo tratto la riva sabbiosa; ora torna rapido su se stesso e, trascinando nel riflusso i ciottoli che aveva portato, fugge e decrescendo lascia la spiaggia scoperta
I Così il tempo nel suo moto cambia la sorte di tutte le cose: ciò che era apprezzato perde ogni valore; un’altra cosa gli succede ed esce dall’ombra, è richiesta ogni giorno di più, la sua scoperta fiorisce di lodi e gode d’incredibile onore fra i mortali
I Poiché ci si compiace di ciò che si ha in mano e lo si crede di gran valore
I Come individui sono mortali, come specie immortali
I e il clima contribuisce non solo al vigore del corpo ma anche a quello dello spirito
I l’aria di Atene è fine, e per questo gli Ateniesi sono ritenuti più acuti; quella di Tebe è pesante e per questo i Tebani sono ritenuti gente grossolana e piena di vigore
II quando mai i nostri timori o i nostri desideri sono governati dalla ragione? Quale progetto formuli sotto così buoni auspici, che poi tu non ti penta di averlo intrapreso e condotto a buon fine?
I Desideriamo una sposa e dei figli; ma egli sa come saranno questi figli e come sarà questa sposa
II Sbigottito dalla novità del male, ricco e povero a un tempo, desidera fuggire le ricchezze e prende in orrore ciò che aveva desiderato
III La tua verga e il tuo bastone mi hanno confortato
I se vuoi un consiglio, lascia che gli dèi decidano che cosa ci conviene, che cosa giova ai nostri interessi: l’uomo è caro ad essi ancor più che a se stesso
II Chi non è d’accordo sul sommo bene, non è d’accordo su tutta la filosofia
III Mi sembra di vedere tre convitati in disaccordo, che con gusti diversi chiedono diverse vivande. Che cosa bisogna dar loro, e che cosa no? Tu rifiuti ciò che l’altro domanda; e quello che tu richiedi, gli altri due lo trovano disgustoso e acido
IV Non meravigliarsi di nulla, Numacio, è quasi la sola ed unica cosa che possa renderti e conservarti felice
I si dice che vi siano dei popoli fra i quali la madre si unisce al figlio e il padre alla figlia, e l’affetto familiare è raddoppiato dall’amore
II Non rimane nulla che sia davvero nostro: quello che chiamo nostro, è prodotto dall’arte
I o terra ospitale, ci annunci la guerra; per la guerra si armano i cavalli, guerra minacciano queste mandrie. Ma i corsieri furono da tempo addestrati ad attaccarsi al carro e a sostenere fraternamente il giogo imposto; c’è dunque speranza di pace
II La causa di questi furori popolari è che ogni paese odia gli dèi dei vicini, e crede che siano da ritenersi dèi solo quelli che egli onora
I E i piaceri del sesso, se la natura l’esige, Epicuro ritiene che non si debbano misurare secondo la stirpe, il luogo, la condizione, ma secondo la grazia, l’età e la bellezza. Pensano che nemmeno gli amori proibiti siano vietati al saggio. Vediamo fino a quale età si convenga amare i giovani
I Sei l’amante di Aufidia, tu, Corvino, che eri suo marito, ed è suo marito ora colui che era il tuo rivale. Perché ti piace quando è di un altro, se non ti piace quando è tua moglie? Forse che la sicurezza ti rende impotente?
II Non c’era nessuno in tutta la città che volesse toccare tua moglie gratis, Ceciliano, quando lo si poteva fare liberamente; ma ora che l’hai messa sotto custodia, una folla di fottitori la circonda. Sei un furbacchione
I la grande via per cui la persuasione penetra direttamente nel cuore dell’uomo e nel tempio del suo spirito
II Troverai che sono i sensi che per primi ci hanno dato la nozione della verità e che i sensi non si possono confutare. A che cosa dunque si dovrebbe prestar fede più che ai sensi?
I Forse che gli orecchi potranno correggere gli occhi, o il tatto gli orecchi, forse che il gusto dimostrerà l’errore del tatto, o le narici lo confuteranno, o lo smentiranno gli occhi?
II ad ognuno è dato un potere limitato e una facoltà propria
I Comunque sia, nel suo cammino la sua figura non è più grande di quella che appare ai nostri occhi
II Non riconosciamo per questo che gli occhi si ingannino; non attribuire, quindi, agli occhi gli errori dello spirito
I Dunque le loro percezioni in qualsiasi momento sono vere. E se la ragione è incapace di determinare la causa per cui le cose che da vicino sembrano quadrate, da lontano sembrano rotonde, tuttavia è meglio, nell’impotenza della nostra ragione, dare una spiegazione falsa della doppia apparenza, piuttosto che lasciarsi sfuggir dalle mani delle verità manifeste, abiurare la prima fede e scuotere le fondamenta su cui riposano la nostra vita e la nostra salute. Poiché non solo la ragione crollerebbe, ma la nostra vita intera perirebbe se non osassimo prestar fede ai sensi ed evitare i precipizi e tutti i pericoli dello stesso genere che dobbiamo fuggire
I Le montagne che sorgono in mezzo ai flutti ci sembrano da lontano confondersi in un’unica massa benché siano distanti l’una dall’altra. E ci sembra di veder fuggire a poppa le colline e le pianure che la nostra nave costeggia. Se il nostro cavallo focoso si ferma in mezzo a un fiume ci sembra che sia portato via di sbieco da una forza che lo trascina di furia contro corrente
I Siamo sedotti dagli ornamenti; con l’oro e le gemme si nascondono i difetti: la fanciulla è la parte meno importante di se stessa. Spesso fra tanto sfoggio cerchi dove sia ciò che ami: è sotto quest’egida che l’amore ricco inganna i nostri occhi
I E tutto ciò che lo rende ammirevole egli lo ammira; a sua insaputa si desidera; loda ed è lodato, brama ed è bramato, e brucia per il fuoco che egli stesso accende
II La copre di baci e pensa che essa vi risponda, e l’afferra e la stringe e crede di sentir la carne cedere sotto le sue dita e ha paura che un livido affiori sulle membra premute
III tanto che non si può guardare in basso senza che gli occhi e l’animo siano presi da vertigine
I Accade spesso anche che un certo sembiante, un tono grave di voce o un canto turbino profondamente il nostro animo; spesso anche la preoccupazione e il timore
II Si vede un sole doppio e una duplice Tebe
III Così vediamo che donne brutte e ripugnanti sotto ogni aspetto sono adorate e trattate con i più grandi onori
I Ed anche nelle cose più evidenti, puoi osservare che, se non le guardi con animo attento, è come se fossero sempre state remote nel tempo e a grande distanza
I Tanta è la distanza e la differenza in queste cose che quello che è cibo per gli uni diventa per gli altri un potente veleno. Spesso infatti il serpente, toccato dalla saliva dell’uomo, muore divorandosi coi suoi stessi morsi
II Tutto sembra giallo a chi ha l’itterizia
III Le lampade allora fioriscono di doppia luce, gli uomini hanno due volti e doppi sono i corpi
I Così fanno usualmente quei veli gialli, rossi e color ruggine che, tesi nei nostri vasti teatri, fluttuano e ondeggiano lungo le colonne e le travi: e tingono e colorano dei loro riflessi cangianti tutto il pubblico riunito sui gradini, la scena, i senatori, le matrone, le statue degli dèi
I Così il cibo, distribuito per tutte le membra e gli arti, si distrugge e dà origine a un’altra sostanza
I Come nella costruzione di un edificio, se la riga è storta fin dall’inizio, se la squadra è difettosa e devia dalla linea verticale, e la livella da un’altra parte zoppica un tantino, tutto necessariamente va di traverso e s’inclina, è storto, cede, pende in avanti, all’indietro, è disforme, sembra voler cadere in alcuni punti e cade di fatto, tradito dall’errore dei primi calcoli. Così il tuo giudizio sui fatti sarà necessariamente falso e viziato se si basa su dei sensi fallaci
I In effetti il tempo cambia totalmente la natura del mondo; in tutte le cose a uno stato deve succedere un altro stato, e nulla rimane simile a se stesso: tutto si trasforma, la natura modifica tutto e costringe tutto a cambiare