CAPITOLO XXXIV

La fortuna si trova spesso sulla via della ragione

[A] L’incostanza del vario moto della fortuna fa sì che essa debba presentarci ogni sorta di aspetti. C’è forse azione di giustizia più precisa di questa? Il duca Valentino, avendo deciso di avvelenare Adriano, cardinale di Corneto, presso il quale papa Alessandro VI, suo padre, e lui stesso andavano a cena in Vaticano, mandò avanti una bottiglia di vino avvelenato e ordinò al cantiniere di custodirla con molta cura. Essendo il papa arrivato prima del figlio e avendo chiesto da bere, quel cantiniere, il quale pensava che quel vino non gli fosse stato raccomandato che per la sua bontà, ne servì al papa; e il duca medesimo, arrivando proprio al momento di quello spuntino, e confidando che la sua bottiglia non fosse stata toccata, ne bevve a sua volta: sicché il padre morì subito, e il figlio, dopo essere stato a lungo tormentato da malattia, fu riserbato a un’altra sorte peggiore.1 A volte sembra proprio che essa si burli di noi. Tra il signor d’Estrée, allora alfiere del signor de Vendôme, e il signor de Licques, luogotenente della compagnia del duca d’Ascot, tutti e due innamorati della sorella del signor de Foungueselles sebbene di partiti diversi (come accade a quelli che sono vicini alla frontiera), il signor de Licques prevalse; ma il giorno stesso delle nozze e, quel che è peggio, prima di coricarsi, il marito, desiderando spezzare una lancia in onore della sua novella sposa, uscì per una scaramuccia presso Saint-Omer, dove il signor d’Estrée ebbe la meglio e lo fece prigioniero;2 e per affermare appieno la sua superiorità bisognò pure che la damigella,

Coniugis ante coacta novi dimittere collum,

Quam veniens una atque altera rursus hyems

Noctibus in longis avidum saturasset amorem,I 3

gli chiedesse ella stessa di renderle per cortesia il prigioniero, cosa che egli fece, perché la nobiltà francese non rifiuta mai nulla alle dame. [C] Non sembra forse che si tratti di una sorte che agisce ad arte? Costantino, figlio di Elena, fondò l’impero di Costantinopoli; e tanti secoli dopo, Costantino, figlio di Elena, gli pose fine. [A] A volte le piace gareggiare coi nostri miracoli: sappiamo che quando il re Clodoveo assediava Angoulême, le mura caddero da sole per grazia divina; e Bouchet narra,4 riprendendolo da altri autori, che quando il re Roberto assediava una città, essendosi allontanato dall’assedio per andare a Orléans a celebrare la festa di sant’Agnano, mentre era in preghiera, a un certo punto della messa, le mura della città assediata rovinarono senza che ci fosse stato alcun assalto. Nelle nostre guerre di Milano, invece, essa fece tutto al rovescio: infatti il capitano Rense, che assediava per nostro conto la città di Arona, avendo fatto minare un grande tratto di muro, il muro, pur divelto bruscamente da terra, ricadde tuttavia intatto e così diritto sulle proprie fondamenta che gli assediati non ne ebbero alcun danno.5 A volte fa opera di medico. Giasone Fereo,6 quando ormai era stato abbandonato dai medici per un’apostema che aveva al petto, volendo liberarsene almeno con la morte, in una battaglia si gettò alla disperata in mezzo ai nemici, dove fu ferito al costato e proprio al punto giusto, sicché l’apostema scoppiò e guarì. Essa non superò forse il pittore Protogene nella maestria della sua arte? Questi, terminata la figura di un cane stanco e spossato, che giudicava soddisfacente in ogni altra parte, non riuscendo tuttavia a dipingere come voleva la schiuma e la bava, irritato contro l’opera sua, prese la spugna e, imbevuta com’era di diversi colori, la gettò contro il quadro per cancellare tutto; la fortuna diresse il colpo proprio sulla bocca del cane e completò ciò a cui l’arte non era potuta arrivare.7 A volte non rettifica forse i nostri progetti e li corregge? Isabella, regina d’Inghilterra, dovendo tornare dalla Zelanda nel proprio regno con un esercito in aiuto del figlio e contro il marito, sarebbe stata perduta se fosse arrivata al porto che aveva scelto, poiché vi era attesa dai suoi nemici; la fortuna la gettò invece, contro il suo volere, in un altro punto, dove prese terra in piena sicurezza.8 E quell’antico9 che, lanciando una pietra a un cane, colpì ed uccise la matrigna, non ebbe forse ragione di recitare quel verso,

Τατόµατον µν καλλίω βουλεύεται,I 10

«la fortuna è più accorta di noi»?

[C] Icete aveva subornato due soldati perché uccidessero Timoleone mentre si trovava ad Adrano, in Sicilia.11 Costoro si accordarono per agire nel momento in cui egli stesse facendo qualche sacrificio; e mescolandosi alla folla, mentre si ammiccavano l’un l’altro che l’occasione era favorevole alla loro faccenda, ecco un terzo che assesta un gran colpo di spada sulla testa di uno dei due, lo stende a terra morto, e fugge via. Il compagno, ritenendosi scoperto e perduto, corse all’altare chiedendo grazia e promettendo di dire tutta la verità. Mentre faceva il resoconto della congiura, ecco il terzo che era stato acchiappato e che il popolo spinge e malmena, come assassino, attraverso la calca, verso Timoleone e i più eminenti dell’assemblea. Là egli grida mercé e dice di aver giustamente ucciso l’assassino di suo padre, provando seduta stante, con alcuni testimoni che la sua buona sorte gli fornì assai a proposito, che nella città dei Leontini suo padre era stato ucciso effettivamente da colui sul quale egli si era vendicato. Gli furono date dieci mine attiche per aver avuto questa ventura, di salvare da morte il padre comune dei Siciliani facendo vendetta della morte del proprio. Questa fortuna supera in precisione le norme dell’umana saggezza.

[B] Per finire. Nel seguente fatto non si manifesta forse una ben precisa applicazione del suo favore, di bontà e di pietà straordinarie? Due Ignazi, padre e figlio, proscritti dai triumviri a Roma, si risolsero al generoso servigio di togliersi l’un l’altro la vita, frustrando così la crudeltà dei tiranni; si lanciarono l’uno sull’altro, con la spada in pugno; la fortuna ne diresse le punte e rese i due colpi ugualmente mortali, e concesse, in onore di una così bella amicizia, che essi avessero ancora giusto la forza di ritirare dalle ferite il loro braccio sanguinante e armato, per abbracciarsi a vicenda, in quelle condizioni: con una stretta così forte che i carnefici tagliarono insieme le loro due teste, lasciando i corpi sempre allacciati in quel nobile nodo, e le ferite congiunte, che sorbivano amorosamente il sangue e i resti della vita l’una dall’altra.12

 

I Costretta a strapparsi dalle braccia del novello sposo prima che le lunghe notti d’uno o d’un altro inverno succedente al primo avessero saziato l’avido amore

I [Montaigne traduce questo verso alla riga seguente]

Saggi
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