CAPITOLO XXVII

È follia giudicare il vero e il falso in base alla nostra competenza

[A] Non è forse senza ragione che attribuiamo a ingenuità e ignoranza la facilità a credere e a lasciarsi persuadere: mi sembra infatti d’aver appreso una volta che il credere era come un’impressione che si produceva sulla nostra anima; e quanto più essa era malleabile e meno resistente, tanto più facile era imprimervi qualcosa. [C] Ut necesse est lancem in libra ponderibus impositis deprimi, sic animum perspicuis cedere.I 1 Quanto più l’anima è vuota e senza contrappeso, tanto più facilmente si piega sotto il peso della prima persuasione. [A] Ecco perché i fanciulli, il volgo, le donne e i malati sono più soggetti ad esser menati per il naso. Ma, d’altra parte, è anche sciocca presunzione andar disprezzando e condannando come falso quello che non ci sembra verosimile. Ed è questo un vizio abituale di coloro che pensano di aver qualche competenza al di sopra del comune. Una volta anch’io facevo così, e se sentivo parlare o degli spiriti che tornano o della profezia di cose future, degli incantesimi, delle stregonerie, o raccontare qualche altra cosa che non potevo comprendere,

Somnia, terrores magicos, miracula, sagas,

Nocturnos lemures portentaque Thessala,I 2

ero preso da compassione per il povero popolo ingannato con tali follie. E ora trovo che ero per lo meno altrettanto da compatire io stesso: non che l’esperienza mi abbia in seguito fatto veder nulla al di là delle mie prime opinioni (e tuttavia questo non è dipeso dalla mia curiosità); ma la ragione mi ha insegnato che condannare con tanta sicurezza una cosa come falsa e impossibile, è presumere d’avere in testa i limiti e i confini della volontà di Dio e della potenza di nostra madre natura. E che non c’è al mondo follia più grande che giudicarli in proporzione alla nostra capacità e competenza. Se chiamiamo prodigi o miracoli le cose a cui la nostra ragione non può arrivare, quanti se ne presentano continuamente al nostro sguardo? Consideriamo attraverso quali nebbie e quasi a tastoni siamo condotti alla conoscenza della maggior parte delle cose che abbiamo a portata di mano; certo troveremo che è piuttosto l’abitudine che la scienza a non farcene vedere la stranezza,

[B]iam nemo, fessus satiate videndi,

Suspicere in cæli dignatur lucida templa,II 3

[A] e che se quelle stesse cose ci venissero presentate per la prima volta, le troveremmo altrettanto o più incredibili di qualsiasi altra,

si nunc primum mortalibus adsint

Ex improviso, ceu sint obiecta repente,

Nil magis his rebus poterat mirabile dici,

Aut minus ante quod auderent fore credere gentes.III 4

Quello che non aveva mai visto un fiume, al primo che vide pensò che fosse l’Oceano. E le cose più grandi che conosciamo, le giudichiamo le più grandi che la natura crei in quel genere,

[B]Scilicet et fluvius, qui non maximus, ei est

Qui non ante aliquem maiorem vidit, et ingens

Arbor homoque videtur; [A] et omnia de genere omni

Maxima quæ vidit quisque, hæc ingentia fingit.I 5

[C] Consuetudine oculorum assuescunt animi, neque admirantur, neque requirunt rationes earum rerum quas semper vident.II 6 La novità delle cose ci spinge più della loro grandezza a ricercarne le cause. [A] Bisogna giudicare con maggior rispetto questa infinita potenza della natura, e con maggior consapevolezza della nostra ignoranza e debolezza. Quante cose poco verosimili vi sono, testimoniate da gente degna di fede, che, se non possiamo esserne convinti, bisogna almeno lasciare in dubbio; perché condannarle come impossibili è farsi forti, per temeraria presunzione, di sapere fin dove arriva la possibilità. [C] Se si capisse bene la differenza che c’è fra l’impossibile e l’inusitato, e fra ciò che è contro l’ordine del corso naturale e ciò che è contro la comune opinione degli uomini, senza credere temerariamente, e neppure facilmente negare, si osserverebbe la regola del «niente di troppo», prescritta da Chilone.7

[A] Quando si legge, in Froissart, che il conte de Foix seppe, nel Béarn, della disfatta del re Giovanni di Castiglia a Juberoth l’indomani del giorno in cui era avvenuta, e le ragioni che ne porta, si può ben riderne;8 e lo stesso quando i nostri annali9 dicono che papa Onorio, il giorno medesimo in cui il re Filippo Augusto morì a Mantes, fece fare funerali pubblici e ordinò che si facessero in tutta Italia. Infatti l’autorità di questi testimoni non ha, forse, abbastanza forza per tenerci a freno. E con questo? Se Plutarco,10 oltre a parecchi esempi che cita dell’antichità, dice di sapere con certezza che al tempo di Domiziano la notizia della battaglia perduta da Antonio in Germania, a parecchie giornate di là, fu divulgata a Roma e diffusa in tutto il mondo il giorno stesso in cui era stata perduta; e se Cesare sostiene11 essere spesso accaduto che la fama abbia preceduto il fatto; diremo forse che quei semplicioni si sono lasciati imbrogliare come il volgo, non essendo di mente acuta come noi? C’è forse qualcosa di più fine, più netto e più vivace del giudizio di Plinio, quando gli piace adoperarlo, qualcosa di più lontano dalla leggerezza? Tralascio l’eccellenza del suo sapere, di cui fo minor conto: in quale di queste due qualità noi lo superiamo? Tuttavia non c’è scolaretto che non lo tacci di menzogna e non voglia fargli la lezione sul procedere delle opere di natura. Quando leggiamo in Bouchet12 i miracoli delle reliquie di sant’Ilario, passi: la sua autorità non è abbastanza grande per toglierci la libertà di contraddirlo. Ma condannare in blocco tutte le storie simili, mi sembra un’impudenza straordinaria. Quel grande sant’Agostino13 testimonia d’aver visto, davanti alle reliquie dei santi Gervasio e Protasio a Milano, un fanciullo cieco riacquistare la vista. Una donna, a Cartagine, guarire da un cancro per il segno di croce fattole da una donna da poco battezzata. Esperio, un suo servo, aver cacciato gli spiriti che infestavano la sua casa con un po’ di terra del Sepolcro di Nostro Signore; e dopo che questa terra fu trasportata in chiesa, esserne stato improvvisamente guarito un paralitico. Una donna che in una processione aveva toccato la cassa di santo Stefano con un mazzo di fiori, e si era poi strofinata gli occhi con questo mazzo, aver riacquistato la vista da lungo tempo perduta; e parecchi altri miracoli, ai quali dice di aver assistito lui stesso. Di che accuseremo lui e i due santi vescovi, Aurelio e Massimino, che chiama a suoi testimoni? Forse d’ignoranza, semplicità, leggerezza, o di malizia e d’impostura? C’è qualcuno, al tempo nostro, tanto impudente da pensar di potersi paragonare a loro, sia in virtù e in pietà, sia in scienza, giudizio e competenza? [C] Qui, ut rationem nullam afferrent, ipsa authoritate me frangerent.I 14

[A] È un ardimento pericoloso e che può avere gravi conseguenze, oltre all’assurda temerità che vi è insita, disprezzare quello che non riusciamo a capire. Di fatto, dopo che secondo il vostro bell’intendimento avete stabilito i limiti della verità e della menzogna, e che vi trovate a dover necessariamente credere a cose ancora più bizzarre di quelle stesse che negate, ecco che vi siete già messi in condizione di doverli abbandonare. Ora, ciò che mi sembra arrecare tanto disordine nelle nostre coscienze,15 nei torbidi in cui siamo coinvolti per quanto riguarda la religione, è questo parziale abbandono della loro fede da parte dei cattolici. Essi credono di mostrarsi moderati e accorti concedendo agli avversari alcuni di quegli articoli che sono oggetto di discussione. Ma, senza contare che non vedono quale vantaggio sia per colui che attacca il cominciare a cedergli e a tirarsi indietro, e come questo lo inciti ad andare avanti; quegli stessi articoli che scelgono come più futili sono a volte importantissimi. O bisogna sottomettersi completamente all’autorità del nostro governo ecclesiastico, o esimersi del tutto dal rispettarla. Non sta a noi stabilire quanta obbedienza gli dobbiamo. C’è di più: posso dirlo per averlo provato, essendomi servito, tempo fa, di questa libertà di scelta e di vaglio personale, mettendo in non cale certi punti dell’osservanza della nostra Chiesa che sembrano avere un aspetto più vano o più bizzarro, e parlandone in seguito con uomini di dottrina, ho trovato che quelle cose hanno un fondamento massiccio e quanto mai solido, e solo la stupidaggine e l’ignoranza ce le fanno considerare con minor reverenza delle altre. Come possiamo dimenticare quante contraddizioni riscontriamo nel nostro stesso giudizio? Quante cose, che ieri tenevamo per articoli di fede, oggi le consideriamo favole? L’ambizione e la curiosità sono i due flagelli della nostra anima. Questa ci spinge a mettere il naso dappertutto, quella ci impedisce di lasciar alcunché irrisolto e indeciso.

 

I Come inevitabilmente il piatto della bilancia è inclinato dal peso che vi si mette, così l’animo deve cedere all’evidenza

I Sogni, magici terrori, miracoli, streghe, lemuri notturni e altri tessalici prodigi

II nessuno ormai, stanco e sazio di vedere, degna più levar gli occhi ai luminosi templi del cielo

III se ora per la prima volta apparissero improvvisamente ai mortali e d’un tratto si presentassero ai loro occhi, niente potrebbe dirsi più mirabile di tali cose, né le genti avrebbero osato immaginare prima nulla di simile

I Così un fiume, anche se non è immenso, è tale per chi non ne ha mai visti di più grandi, ed enorme sembra un albero e un uomo; e in ogni genere tutto ciò che uno ha visto di più grande lo crede enorme

II Gli animi si avvezzano con l’abitudine degli occhi e non si meravigliano e non cercano più le cause di ciò che vedono continuamente

I Anche se non allegassero alcuna ragione, mi vincerebbero con la loro stessa autorità

Saggi
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