Nota alla traduzione di Fausta Garavini
Intere generazioni di critici hanno insistito sulla spontaneità, ovvero sulla noncuranza e incoerenza della scrittura di Montaigne: e ancora nell’introduzione alla recentissima edizione degli Essais nella “Bibliothèque de la Pléiade” (2007) si parla di «style impulsif et primesautier, nonchalant et cavalier». Altri, al contrario, hanno evidenziato nell’opera la parte del progetto, del lavoro di costruzione, a livello dell’armatura della frase, della struttura del capitolo, dell’architettura del libro. L’alternativa, ovviamente, è fittizia, ed è faziosa l’opposizione fra i due tipi di lettura, l’uno e l’altro semplificanti.
Prestare incondizionata fiducia alle ripetute diatribe dell’autore contro la retorica, alle sue affermazioni sulla propria inettitudine al bello scrivere, sulla propria indifferenza ai fatti di stile, è certo un fraintendere il suo gioco: la stessa dichiarata incapacità a produrre la bella pagina, raggelata e perfetta, indica di fatto una stesura lenta, meditata, faticosa, la continua insoddisfazione e la necessità quindi di ripercorrere perennemente i propri passi; e sottolinea, degli Essais, il carattere di libro in continuo fieri, sempre aperto e tanto più laborioso. I margini dell’Esemplare di Bordeaux, fitti di aggiunte, modificazioni, pazienti correzioni offrono la patetica testimonianza del difficile e coscienzioso lavoro dello scrittore che lima e pulisce, curando ogni particolare, diversificando, ad uso dei tipografi, i segni di richiamo, annotando a più riprese la punteggiatura da seguire, con un ordine e una minuzia che rasentano la mania.
Qualsiasi lettore anche inesperto non può non notare la rete di simmetrie, antitesi, chiasmi, giochi di parole che costellano la pagina di Montaigne. Ma il motivo di tanta attenzione al linguaggio, oltre al gusto del bel detto, è la ricerca d’una formula efficace, significante, in cui coagulare il flusso del proprio pensiero, d’un suggello che lo fissi in un’espressione di epigrafica, lapidaria incidenza. Cospicue sequenze di effetti del genere, dove la costruzione della frase raccosta gli elementi contrapposti calamitati dal richiamo fonico, fioriscono sulla base della figura retorica di cui lo scrittore soprattutto si compiace, appunto come quella che meglio si presta al risalto di simmetrie antitetiche: l’annominatio (secondo la terminologia del libro ad Erennio), o la paronomasia, ossia l’accumulo di differenti flessioni della stessa parola e dei suoi derivati, o di derivazioni dalla stessa radice, sottilmente rimandando all’etimologia, o ancora di omonimi o semplicemente di parole a consonanza vicina.
È qui che il traduttore si appassiona alla lotta contro ostacoli duri da vincere. Qualche riscontro, fra i più semplici. È facile, addirittura meccanico, rendere: «Ces exemples étrangers ne sont pas étranges» (Questi esempi stranieri non sono strani); oppure (a proposito del dolore): «Si tu ne la portes, elle t’emportera» (Se non lo sopporti, ti porterà via); o magari: «il faut épandre le grain, non pas le répandre» (bisogna spargere il grano, non sparpagliarlo); «c’est bien le bout, non pas le but de la vie» (la fine, non già il fine della vita). Meno ovvio risolvere: «les opinions et règles de vivre […], impolies ou impollues» (non corrette ovvero incorrotte) o «les choses qui nous oignent au prix de celles qui nous poignent» (le cose che ci ungono in confronto a quelle che ci pungono). Occorre però rassegnarsi di fronte a opposizioni quali: «L’insuffisance et la sottise est louable en une action meslouable» (a meno di non ricorrere a un illodevole non familiare a un orecchio italiano, si accetterà: L’incapacità e la stoltezza sono lodevoli in un’azione biasimevole), e arrendersi a: «C’est par manière de devis que je parle de tout et de rien par manière d’avis» (Io parlo di tutto per conversare e di nulla per giudicare). Si cerca un’equivalenza sbilenca al concentrato di allitterazioni in: «Quelle sottise de nous peiner sur le point du passage à l’exemption de toute peine!» (Che sciocchezza darci pena proprio sul punto di passare alla liberazione da ogni pena!). Ci si accontenta, senza troppa soddisfazione, nel caso di: «ce n’était qu’aux lutins de lutter les morts» (stava alle larve lottare contro i morti); o ancora di: «Il fait laid se battre en s’ébattant» (È brutto guerreggiare gareggiando). Si arriva magari a compiacersi per: «Les propres condamnations sont toujours accrues, les louages mescrues. Il en peut être aucuns de ma complexion, qui m’instruis mieux par contrariété que par exemple, et par fuite que par suite» (Le accuse che si fanno a se stessi trovano sempre credito, le lodi non sono credute. Vi può essere qualcuno della mia indole, che m’istruisco meglio per contrasto che per esempio, e più per dissenso che per assenso). Ma si getta a malincuore la spugna quando si arriva al passo argutamente autoironico: «Tel se conduit bien, qui ne conduit pas bien les autres, et fait des essais qui ne saurait faire des effets» (Qualcuno governa bene se stesso e non governa bene gli altri, e fa dei saggi senza saper fare dei fatti).
Figure di questo tipo, già presenti nelle precedenti stesure, costituiscono in buona parte l’apporto delle aggiunte e correzioni manoscritte in margine all’Esemplare di Bordeaux, che è così non solo specchio del lavoro di Montaigne nei suoi ultimi anni, ma lente d’ingrandimento che evidenzia il senso unico dell’intera operazione e permette di metterne a fuoco le fasi anteriori, non documentate da testimonianze autografe. La frase: «Combien ai-je vu de condamnations plus crimineuses que le crime?» (a proposito delle incertezze della giustizia e dell’innocenza punita) è un’aggiunta manoscritta, ma si salda a quella che già si leggeva sulla stampa del 1588: «Mais il avait affaire à un accident réparable: les miens furent pendus irréparablement» (Ma si trovava di fronte a un fatto riparabile; i miei furono impiccati irreparabilmente. Quante condanne ho visto più criminali del crimine?). Ed è sulla base di: «Ils laissent là les choses, et s’amusent à traiter les causes» che s’innesta: «Plaisants causeurs! La connaissance des causes appartient seulement à celui qui a la conduite des choses, non à nous qui n’en avons que la souffrance» (Lasciano da parte le cose, e si occupano di trattare le cause. Ameni causidici! La conoscenza delle cause appartiene solo a colui che governa le cose, non a noi che le subiamo soltanto). Così, sull’Esemplare di Bordeaux, fra cancellature e varianti, si può seguire il percorso dello scrittore che, attraverso ripetuti tentativi, arriva infine all’espressione più efficace: la trovata straordinaria «Je prêterais aussi volontiers mon sang que mon soin» (altra sconfitta del traduttore: Darei più volentieri il mio sangue della mia sollecitudine) concentra in un’unica, energica formula tre frasi precedenti (Il n’est rien si cher pour moi [Niente è altrettanto caro per me]. On a meilleur marché de ma bourse [Do più facilmente il mio denaro]. Je ne trouve rien si cherement achêté que ce qui me coûte du soin [Non trovo nulla acquistato a più caro prezzo di ciò che mi costa sollecitudine]), successivamente biffate, ma è difficile dire in che ordine.
Tali “finezze verbali” di cui Montaigne “non si cura” sono dunque il risultato di un’accurata (mi si perdoni la paronomasia) ricerca di precisione e densità: l’espressione intagliata al bulino – talvolta sviscerando l’etimo della parola e riconducendola alla primitiva pregnanza di significato – è condizione della forza di penetrazione di un’idea. Questa prosa, è ovvio, dichiara la propria filiazione dalla tradizione latina. Étienne Pasquier lo aveva ben compreso, scrivendo che Montaigne, il “Seneca francese”, aveva fatto del suo libro «un vero seminario di belle e notevoli sentenze». Siamo ricondotti a un’esatta misura di stile: quell’esigenza, appunto, di concisione che fin dai tempi dell’antica retorica era intesa come una delle virtutes narrationis, distinte dalle virtutes dicendi – non ivi estranea una certa fierezza, nel senso della ricerca della brevità come qualità superiore – e che Montaigne assume facendo proprio il motto oraziano: brevis esse laboro, obscurus fio. L’autore la rivendica, non perché migliore a suo giudizio, ma perché più consona al suo umore e alla sua indole, come sua “forma naturale”: «Quand’anche volessi mettermi a seguire quell’altro stile uniforme, unito e ordinato, non saprei arrivarci. E benché le cesure e le cadenze di Sallustio convengano di più al mio gusto, tuttavia trovo Cesare e più grande e meno facile a imitare. E se la mia indole mi porta piuttosto all’imitazione del parlare di Seneca, nondimeno apprezzo di più quello di Plutarco. Come nel fare, così nel dire seguo semplicemente la mia forma naturale» (II, XVII). È la perentorietà della frase senechiana, che già aveva attratto Erasmo e Lipsio, a sedurre Montaigne, che si cimenta a trasporla in francese, gareggiando col modello. Valga, ad illustrare il puntiglio d’equivalenza all’originale, un esempio fra tanti, antico (1580) ed evidente: «Qui a appris à mourir, il a désappris à servir» (Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire), ricalcato direttamente su Seneca (Qui mori didicit, servire dedidicit). Ma spesso l’incastro è complesso e la tendenza a esperire tutte le possibilità di variazione giunge ad un punto di saturazione quale:
si la douleur est violente, elle est courte,
si elle est longue, elle est légère, si
gravis brevis si longus levis. Tu ne la sentiras guère
longtemps si tu la sens trop. Elle mettra fin à soi ou à toi: L’un et l’autre revient à un. Si
tu ne la portes, elle t’emportera
(se il dolore è violento, è breve, se dura a lungo, è leggero,
si gravis brevis si longus levis. Non lo
sentirai a lungo, se lo senti troppo. Metterà fine a se stesso o a te. La cosa è tale e quale. Se non
lo sopporti, ti porterà via)
risultante da un coagulo (già presente nella prima stampa) di due citazioni tradotte, l’una da Cicerone (e vi si salda poi, inserita a margine sull’Esemplare di Bordeaux, la citazione diretta), l’altra da Seneca (felicemente sciogliendo in «à soi ou à toi » lo scambio reso possibile in latino dalla coniugazione passiva: «aut extinguetur aut extinguet»), cui l’ultima aggiunta manoscritta (portes/emportera, citata sopra fra i casi di facile traduzione) assicura icastica compiutezza.
Concludendo: Montaigne, che aveva parlato il latino prima del francese, è, per dirla con Auerbach, l’esempio estremo di quegli uomini del Rinascimento che apprendevano il latino come materiale fondamentale per l’autoformazione o la cultura nel senso di un’imitazione dell’antichità, ed esprimevano questa sostanza di cultura nella lingua madre.
Di fatto, nella propria lingua madre lo scrittore confessa di trovare «abbastanza stoffa, ma una certa mancanza di forma». Il francese è ai suoi occhi sufficientemente abbondante, ma non abbastanza vigoroso: «Se il vostro discorso è teso, sentite spesso che [il francese] languisce sotto di voi e vien meno, e che in suo difetto si presenta in soccorso il latino» (di qui anche lo svecchiare le parole consunte risalendo all’etimo, III, V); o, all’occasione, si offre in soccorso una parola del dialetto della Guascogna. La celebre frase: «E che ci arrivi il guascone se non ci può arrivare il francese» (I, XXVI), passata in luogo comune e spesso fraintesa, serve qui, unitamente a quanto sopra, ad abbozzare una necessaria triangolazione della posizione linguistica di Montaigne, fra il latino, il francese e il guascone. Se da piccolo ha parlato latino per via dell’educazione ricevuta al castello, tuttavia, dal momento in cui entra al Collège de Guyenne, l’adolescente è integrato al mondo della cultura francese, attraverso la lettura di autori del passato (Joinville, Froissart, Commynes) e contemporanei, attraverso le amicizie e più tardi i frequenti viaggi a Parigi. Ma con la lingua del popolo della capitale – quella che si parla al mercato, di cui vorrebbe servirsi – Montaigne non vivrà mai a contatto, e l’uso del guascone a fini espressivi, a colorire il francese inespressivo delle persone colte, si presenta spontaneo. Operazione tanto più lecita (malgrado le critiche di Pasquier) in questo momento in cui il divorzio fra la lingua di Parigi e la lingua altra da quella non si è ancora prodotto: Malherbe non è ancora arrivato a “deguasconizzare” la corte del guascone Enrico IV, e il dilemma del ricorso al francese oppure al guascone si presenta come alternativa fra due mezzi equipollenti, facilmente risolvibile nel bilinguismo, per esempio a Salluste Du Bartas.
Per inciso: si parla di guascone in Montaigne dove si dovrebbe piuttosto parlare di occitanico: buona parte dei suoi cosiddetti guasconismi sono comuni alla maggior parte dei dialetti d’oc. Resta il fatto che è il guascone che Montaigne ammira, non il perigordino, suo dialetto naturale, che giudica «molle, strascicato, fiacco»; e non tutto il guascone, ma quello localizzato «verso le montagne», «straordinariamente bello, secco, breve, espressivo, e veramente lingua maschia e militare più di ogni altra ch’io senta. Tanto nervoso, forte e preciso quanto il francese è grazioso, delicato e abbondante» (II, XVII). È dunque probabilmente dell’armagnacais che Montaigne intende parlare, il dialetto di Du Bartas e soprattutto del suo amico Monluc: con i Commentaires di quest’ultimo acquista diritto di cittadinanza nelle lettere francesi lo “stile guascone”, ovvero uno stile soldatesco, inframezzato di guasconismi che lo stesso Pasquier trovava in Monluc non disdicevoli, essendo il guascone naturalmente soldato. Non a caso si legge nei Saggi, di seguito a quella proverbiale frase sul guascone: «Il linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta quale sulle labbra. Un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto delicato e leccato quanto veemente e brusco […] Piuttosto difficile che noioso. Lontano dall’affettazione. Sregolato, scucito e ardito. Ogni pezzo faccia corpo a sé. Non pedantesco, non fratesco, non avvocatesco, ma piuttosto soldatesco, come Svetonio chiama quello di Giulio Cesare» (I, XXVI). Non è insomma a un dialetto locale privo di credenziali che Montaigne si rivolge, quanto a un idioma letterariamente illustre (alla corte di Navarra, accanto ai poeti francesi, si afferma l’autoctono Pey de Garros, rivaleggiando con Marot nei suoi Psaumes de David viratz en rhythme gascon, apparsi a Tolosa nel 1565) ed esaltato con pittoresco sciovinismo dai suoi utenti (in un componimento di benvenuto trilingue scritto in occasione dell’ingresso a Nérac di Enrico di Navarra, nel 1578, Du Bartas proclama arditamente il primato del guascone sul latino e sul francese); e, soprattutto, a una certa forma di stile, qui esemplificata nel nome di Monluc, attraverso la quale, in questo preciso momento, tutta una linfa meridionale penetra nella lingua francese.
Non è qui luogo ad esaminare l’apporto di Montaigne a quest’operazione di ibridazione linguistica. I “guasconismi” solitamente sottolineati negli Essais, sia per il lessico (appiler, ammucchiare; bavasser, chiacchierare; bonnettade, sberrettata; desconsoler, affliggere; escarbillat, allegro; harpade, colpo di zanna ecc.), sia per la morfosintassi (genere dei sostantivi, uso del dativo etico, uso transitivo di verbi intransitivi e viceversa ecc.) non sono numerosissimi e in buona parte difficilmente riconoscibili in quanto passati nel francese. Ma sono significativi come esponenti di quel linguaggio “breve e serrato” cui Montaigne mirava, nella ricerca dell’espressione icastica e pertinente.
S’individuano così i due poli della personalità linguistica di Montaigne, eludente il parlare corrente e neutro, il francese mancante di vigore, nella tensione fra il latino da una parte e il guascone dall’altra.1
Quanto precede s’intenda a conforto della presente traduzione e parziale giustificazione, agli occhi del “candido lettore”, dei criteri in essa seguiti: al fine di avvertire quale e quanta parte di un’opera di linguaggio così ricca e laboriosa vada inevitabilmente perduta nella trasposizione; e legittimare, al tempo stesso, il tentativo di ridurre per quanto possibile la percentuale delle perdite, aderendo al massimo al testo, mantenendo anacoluti, ellissi e inversioni, rispettando infine e tentando di restituire i fatti di scrittura cui si è accennato. L’idea pur sempre parziale che il lettore italiano potrà farsi della peculiarità di questo linguaggio, gustandone almeno un poco il sapore, si spera possa ripagarlo della collaborazione che gli si richiede per una lettura non del tutto agevole. Ben più gravemente si sarebbe peccato rendendo piana, scorrevole, “naturale” una scrittura che, come si è visto, non lo è affatto.
La mia traduzione, uscita per la prima volta nel 1966 per i tipi di Adelphi (poi più volte ristampata), fu condotta sulle edizioni allora disponibili, delle quali nessuna poteva dirsi critica. È stata interamente riveduta sul testo veramente critico approntato da André Tournon (1998, ulteriormente verificato per l’edizione bilingue Bompiani del 2012), che corregge vari punti dove le precedenti edizioni erravano per inesatta lettura dell’Esemplare di Bordeaux e inoltre ne rispetta per la prima volta la punteggiatura autografa: Montaigne di fatto modifica l’interpunzione della stampa, spezzettando le frasi così da privarle delle cadenze perentorie dell’eloquenza ed evidenziare le insolite concatenazioni richieste da una filosofia dell’incertezza. Si è pertanto cercato di accomodare di conseguenza anche la punteggiatura della traduzione, al fine di approssimarsi, nei luoghi particolarmente significativi, alla scansione autografa: fermo restando che, da una lingua all’altra, è indispensabile talvolta mutare ritmi e cadenze. La revisione, a distanza di tanti anni, e dopo una vita di studi, ha necessariamente comportato anche una rinnovata, approfondita riflessione, sia per ringiovanire una lingua che già rivelava qualche ruga, sia per risolvere nodi non del tutto chiariti nella precedente versione.
Mi è grato precisare che le non poche migliorie apportate a questo lavoro sono frutto in gran parte di un’armonica, pluriennale collaborazione con André Tournon, nell’impegno comune di restituire a Montaigne quel che è di Montaigne. Nell’aggiornare la veste italiana mi sono avvalsa poi della sensibilità e dell’esperienza di Leonella Prato, a cui va la mia gratitudine.
1 Per una più ampia trattazione di tali argomenti, si veda il mio Itinerari a Montaigne, Firenze, Sansoni, 1983 (trad. fr. Itinéraires à Montaigne. Jeux de texte, Paris, Champion, 1995), contenente i due saggi “La ‘formula’ di Montaigne” (1967) e “Lingua al trivio”.