CAPITOLO XX
Filosofare è imparare a morire
[A] Cicerone dice1 che filosofare non è altro che prepararsi alla morte. Questo avviene perché lo studio e la contemplazione traggono in certa misura la nostra anima fuori di noi, e la occupano separatamente dal corpo, e questo è come un’esperienza e una sembianza di morte. Oppure, perché tutta la saggezza e i ragionamenti del mondo si riducono infine a questo, di insegnarci a non temere di morire. Invero, o la ragione si fa beffe di noi, o non deve mirare che alla nostra soddisfazione, e tutto il suo sforzo deve tendere in conclusione a farci vivere bene e a nostro agio, come dice la Sacra Scrittura.2 Tutte le opinioni del mondo concordano in questo, [C] che il piacere è il nostro scopo, [A] anche se scelgono mezzi diversi, altrimenti le si caccerebbero sul nascere: giacché chi ascolterebbe colui che si ponesse per fine la nostra pena e la nostra angustia?
[C] I dissensi delle sette filosofiche, in questo caso, sono verbali. Transcurramus solertissimas nugas.I 3 C’è più ostinatezza e puntiglio di quanto si convenga a una così santa professione. Ma qualsiasi personaggio l’uomo rappresenti, sempre rappresenta insieme il suo. Checché se ne dica, anche nella virtù lo scopo ultimo della nostra mira è la voluttà. Mi piace romper loro i timpani con questa parola che va loro così poco a genio. E se vuole esprimere l’idea di un piacere supremo e di una soddisfazione eccessiva, questo si addice alla virtù più che a qualsiasi altra cosa. Questa voluttà, per il fatto di esser più gagliarda, nervosa, robusta, virile, non è che più profondamente voluttuosa. E dovremmo darle il nome del piacere, più favorevole, dolce e naturale: non quello del vigore, col quale l’abbiamo chiamata. L’altra voluttà più bassa, se meritasse un sì bel nome, dovrebbe meritarlo in concorrenza, non per privilegio. La trovo meno scevra di fastidi e di ostacoli che non la virtù. Oltre che il suo sapore è più momentaneo, fuggevole e caduco, essa ha le sue veglie, i suoi digiuni e i suoi affanni, e sudore e sangue. E inoltre, soprattutto, passioni laceranti di tante specie, ed insieme una sazietà tanto pesante da equivalere a penitenza. Abbiamo gran torto di credere che questi fastidi le servano di stimolo e di condimento alla sua dolcezza, come in natura il contrario viene intensificato dal suo contrario, e di dire, quando veniamo a parlare della virtù, che simili conseguenze e difficoltà l’appesantiscono, la rendono austera e inaccessibile. Laddove, molto più propriamente che nella voluttà, nobilitano, acuiscono ed elevano il piacere divino e perfetto che essa ci procura. Certo è assai indegno di praticarla colui che ne contrappone il costo al frutto, e non ne conosce né le grazie né l’uso. Chi ci va insegnando che la sua conquista è scabrosa e laboriosa, e il suo godimento piacevole, che altro ci dice con questo se non che è sempre spiacevole? Infatti quale mezzo umano arrivò mai al suo godimento? I più perfetti si sono pure accontentati di aspirarvi e di avvicinarvisi senza possederla. Ma s’ingannano: visto che di tutti i piaceri che conosciamo, già il tentativo di conseguirli è piacevole. L’impresa risente della qualità della cosa a cui mira, poiché questa è una buona porzione dell’effetto e consustanziale ad esso. La felicità e la beatitudine che risplendono nella virtù si estendono a tutto ciò che la riguarda e alle vie che vi conducono, fino al primo ingresso e ultima barriera.4 Ora, fra i principali benefici della virtù c’è il disprezzo della morte, mezzo che fornisce alla nostra vita una placida tranquillità, ce ne rende il gusto puro e amabile, senza il quale ogni altra voluttà è spenta. [A] Ecco perché tutte le regole s’incontrano e convengono su questo punto. E benché ci portino tutte di comune accordo a disprezzare il dolore, la povertà e altri accidenti a cui la vita umana è soggetta, non lo fanno con altrettanta cura: sia perché questi accidenti non sono altrettanto obbligati (la maggior parte degli uomini trascorre la vita senza assaggiare la povertà, e altri anche senza provare dolore e malattie, come il musico Senofilo,5 che visse centosei anni in perfetta salute); sia perché, alla peggio, la morte può metter fine, quando ci piacerà, e tagliar corto a tutti gli altri inconvenienti. La morte, invece, è inevitabile,
[B]Omnes eodem cogimur, omnium
Versatur urna, serius ocius
Sors exitura et nos in æter-
Num exitium impositura cymbæ.I 6
[A] E di conseguenza, se ci fa paura, è causa continua di tormento e tale che non si può alleviare in alcun modo. [C] Non c’è luogo da cui non venga; possiamo volger di continuo la testa qua e là come in un paese infido: quæ quasi saxum Tantalo semper impendet.I 7 [A] I nostri tribunali mandano spesso a giustiziare i criminali nel luogo dove è stato commesso il delitto: durante il tragitto, fateli alloggiare in belle case, fateli mangiare lautamente quanto vorrete,
[B]non Siculæ dapes
Dulcem elaborabunt saporem,
Non avium cytharæque cantus
[A] pensate che possano rallegrarsene, e che lo scopo ultimo del loro viaggio, stando loro costantemente davanti agli occhi, non abbia alterato e reso insipido per loro il gusto di tutti questi piaceri?
[B]Audit iter, numeratque dies, spacioque viarum
Metitur vitam, torquetur peste futura.III 9
[A] Il fine della nostra corsa è la morte, è l’oggetto necessario della nostra mira: se ci spaventa, come è possibile fare un passo avanti senza agitazione? Il rimedio del volgo è di non pensarci. Ma da quale bestiale stupidità gli può venire un così grossolano accecamento? Deve imbrigliare l’asino per la coda,
Qui capite ipse suo instituit vestigia retro.IV 10
Non c’è da meravigliarsi se così spesso è preso in trappola. Ai nostri servi si mette paura solo nominando la morte, e i più si fanno il segno della croce come al nome del diavolo. E poiché la si menziona nei testamenti, non vi aspettate che vi mettano mano, se prima il medico non ha dato loro l’ultima sentenza; e Dio sa allora, fra il dolore e lo spavento, con qual bel discernimento ve lo impasticciano. [B] Poiché questa sillaba11 colpiva troppo duramente i loro orecchi, e questo suono sembrava loro di cattivo augurio, i Romani avevano imparato ad addolcirlo o a distenderlo in perifrasi. Invece di dire: è morto, dicono: ha cessato di vivere, ha vissuto. Purché si tratti di vita, anche se è passata, si consolano. Noi abbiamo preso da loro il nostro: fu Tizio. [A] È forse che, come si dice, la dilazione è remissione. Nacqui fra le undici e mezzogiorno, l’ultimo giorno di febbraio millecinquecentotrentatré, come contiamo adesso, iniziando l’anno in gennaio.12 Sono appena quindici giorni che ho compiuto trentanove anni, me ne mancano per lo meno altrettanti: preoccuparsi nel frattempo di pensare a una cosa tanto lontana sarebbe follia. Ma via! giovani e vecchi [C] lasciano la vita allo stesso modo. Nessuno ne esce altrimenti che se vi fosse appena entrato. Si aggiunga che [A] non c’è uomo, per quanto decrepito, che finché non abbia raggiunto l’età di Matusalemme, non pensi di aver ancora vent’anni in corpo. Inoltre, povero pazzo che sei, chi ti ha fissato i termini della vita? Ti basi sulle parole dei medici. Guarda piuttosto i fatti e l’esperienza. Secondo il comune andamento delle cose, vivi già da un pezzo per favore straordinario. Hai oltrepassato i comuni limiti del vivere. E per convincerti che sia così, conta fra i tuoi conoscenti quanti di più ne siano morti prima di avere la tua età, rispetto a quelli che l’hanno raggiunta; e di quelli stessi che hanno nobilitato la loro vita con la fama, fa’ una lista, e scommetto che ne troverò più che sono morti prima che non dopo i trentacinque anni. È oltremodo ragionevole e pio prendere esempio dall’umanità stessa di Gesù Cristo: ora, egli terminò la sua vita a trentatré anni. Il più grande uomo, semplicemente uomo, Alessandro, morì anch’egli a questa età. Quanti modi di sorprenderci ha la morte?
Quid quisque vitet, nunquam homini satis
Tralascio le febbri e le pleuriti. Chi avrebbe mai pensato che un duca di Bretagna14 dovesse esser soffocato dalla folla, come accadde a quello in occasione dell’ingresso di papa Clemente, mio compaesano,15 a Lione? Non hai visto uccidere uno dei nostri re mentre si divertiva?16 E uno dei suoi antenati non morì forse urtato da un maiale?17 Eschilo, minacciato dal crollo di una casa, ha un bello stare all’erta: eccolo accoppato dal guscio di una tartaruga sfuggita dagli artigli di un’aquila in volo. Un altro morì per un acino d’uva; un imperatore per lo sgraffio d’un pettine, mentre si pettinava; Emilio Lepido per aver inciampato nella soglia dell’uscio di casa sua, e Aufidio per aver sbattuto, entrando, contro la porta della sala del consiglio. E fra le cosce delle donne, il pretore Cornelio Gallo, Tigellino capitano della guardia a Roma, Ludovico figlio di Guido Gonzaga marchese di Mantova. E, esempio ancora peggiore, Speusippo, filosofo platonico, e uno dei nostri papi.18 Il povero Bebio, giudice, mentre concede ad una delle parti una proroga di otto giorni, eccolo preso, poiché il termine della sua vita è scaduto. E Caio Giulio, medico, mentre unge gli occhi d’un paziente, ecco che la morte gli chiude i suoi. E se devo metterci anche la mia esperienza, un mio fratello, il capitano de Saint-Martin, di ventitré anni, che aveva già dato assai buona prova del suo valore, giocando alla pallacorda ricevette un colpo di palla che lo colse un po’ sopra l’orecchio destro, senza che si vedesse né contusione né ferita. Egli non si mise a sedere per questo né fece sosta, ma cinque o sei ore dopo morì di un’apoplessia causatagli da quel colpo. Quando ci passano davanti agli occhi questi esempi tanto frequenti e tanto consueti, com’è possibile che ci si possa liberare dal pensiero della morte e che ad ogni istante non ci sembri che essa ci tenga per il collo? Che cosa importa, mi direte, come avvenga, purché non ce ne affliggiamo? Sono di questo parere, e in qualsiasi modo ci si possa mettere al riparo dai colpi, fosse anche sotto la pelle d’un vitello,19 non sono uomo da rinunciarvi. Infatti mi basta vivere a mio agio; e il miglior diletto ch’io possa procurarmi, me lo prendo, fosse pure, sotto altri aspetti, poco glorioso e poco esemplare quanto vorrete:
prætulerim delirus inersque videri,
Dum mea delectent mala me, vel denique fallant,
Ma è follia pensare di arrivarvi per questa strada. Essi vanno, vengono, trottano, danzano, della morte nessuna notizia. Tutto questo è bello. Ma quando poi essa arriva, o per loro o per le loro mogli, figli e amici, e li sorprende all’improvviso e alla sprovvista, che tormenti, che grida, che dolore e che disperazione li abbatte! Vedeste mai nulla di così avvilito, di così mutato, di così sconvolto? Bisogna provvedervi più a tempo: e quella bestiale noncuranza, quand’anche potesse trovar posto nella testa d’un uomo di giudizio, cosa che ritengo assolutamente impossibile, ci vende troppo cara la sua merce. Se fosse un nemico che si potesse evitare, consiglierei di prendere a prestito le armi della codardia. Ma siccome non si può, [B] poiché vi afferra tanto se siete fuggiasco e poltrone quanto se siete uomo dabbene,
[A]Nempe et fugacem persequitur virum,
Nec parcit imbellis iuventæ
Poplitibus, timidoque tergo,I 21
[B] e nessun acciaio di corazza vi protegge,
Ille licet ferro cautus se condat ære,
Mors tamen inclusum protrahet inde caput,II 22
[A] impariamo a sostenerlo a piè fermo e a combatterlo. E per cominciare a togliergli il suo maggior vantaggio su di noi, mettiamoci su di una strada assolutamente contraria a quella comune. Togliamogli il suo aspetto di fatto straordinario, pratichiamolo, rendiamolo consueto, cerchiamo di non aver niente così spesso in testa come la morte. Ad ogni istante rappresentiamola alla nostra immaginazione, e in tutti i suoi aspetti. All’inciampar d’un cavallo, al cader d’una tegola, alla minima puntura di spilla, mettiamoci immediatamente a rimuginare: «Ebbene, quand’anche fosse la morte medesima?»; e a questo pensiero teniamoci saldi e facciamoci forza. In mezzo alle feste e alla gioia, abbiamo sempre in mente questo ritornello del ricordo della nostra condizione, e non lasciamoci trascinare al piacere con tanta violenza che ogni tanto non ci torni alla memoria in quanti modi quella nostra allegria è sotto il tiro della morte, e di quanti attacchi essa la minaccia. Così facevano gli Egizi, che nel bel mezzo dei loro festini e delle loro gozzoviglie, facevano portare lo scheletro d’un morto, perché servisse di ammonimento ai convitati.23
Omnem crede diem tibi diluxisse supremum.
Grata superveniet, quæ non sperabitur hora.III 24
È incerto dove la morte ci attenda, attendiamola dovunque. La meditazione della morte è meditazione della libertà. Chi ha imparato a morire, ha disimparato a servire.25 Il saper morire ci affranca da ogni soggezione e costrizione. [C] Non c’è nulla di male nella vita per chi ha ben compreso che la privazione della vita non è male. [A] Paolo Emilio rispose a colui che quel misero re di Macedonia, suo prigioniero, gli inviava per pregarlo che non lo trascinasse dietro il suo trionfo: «Che ne faccia domanda a se stesso».26
In verità, in tutte le cose, se la natura non presta un po’ d’aiuto, è difficile che l’arte e l’abilità facciano passi avanti. Io sono di mio non melanconico, ma meditabondo. Non c’è nulla su cui mi sia sempre intrattenuto di più che sui pensieri della morte. Anche nella stagione più dissoluta della mia vita,
[B]Iucundum cum ætas florida ver ageret,I 27
[A] fra le donne e i giochi, qualcuno mi immaginava intento a digerire fra me e me qualche gelosia o l’incertezza di qualche speranza, mentre stavo pensando a non so chi, colto giorni prima da una febbre violenta, e alla sua morte, mentre usciva da una festa come quella, con la testa piena di frivolezze, d’amore e di divertimenti, come me, e che a me poteva accadere lo stesso:
[B]Iam fuerit, nec post unquam revocare licebit.II 28
[A] Non corrugavo la fronte per quel pensiero più che per un altro. È impossibile che lì per lì non sentiamo qualche fitta a tali idee. Ma rimuginandole e ripassandole, a lungo andare le addomestichiamo senz’altro. Altrimenti per parte mia vivrei in uno spavento e in un’agitazione continui: poiché mai uomo diffidò tanto della propria vita, mai uomo fece minor assegnamento sulla propria durata. Né la salute, che ho goduto finora molto robusta e raramente interrotta, me ne allunga la speranza, né le malattie me l’accorciano. Ad ogni istante mi sembra di scamparla. [C] E mi ripeto continuamente: tutto quello che può esser fatto domani, può esserlo oggi. [A] In verità, i rischi e i pericoli ci avvicinano poco o nulla alla nostra fine; e se pensiamo quanti altri milioni ce ne incombono sulla testa, oltre a quell’accidente che sembra più minacciarci, ci renderemo conto che, sani e febbricitanti, in mare e nelle nostre case, in guerra e in pace, essa ci è ugualmente vicina. Nemo altero fragilior est: nemo in crastinum sui certior.III 29 Per terminare quel che ho da fare prima di morire, ogni lasso di tempo mi sembra corto, non fosse che di un’ora. Qualcuno, sfogliando l’altro giorno il mio taccuino, trovò un’annotazione di qualcosa che volevo fosse fatta dopo la mia morte. Gli dissi, come era vero, che pur essendo soltanto a una lega da casa mia, e sano e forte, mi ero affrettato a scriverla là, non essendo sicuro d’arrivare fino a casa. [C] Covando continuamente i miei pensieri e deponendoli in me, sono sempre preparato pressappoco per quanto lo posso essere. E il sopraggiungere della morte non mi dirà nulla di nuovo. [A] Bisogna esser sempre con le scarpe ai piedi e pronti a partire, per quanto sta in noi. E soprattutto badare che allora non si abbia da pensare che a se stessi:
[B]Quid brevi fortes iaculamur ævo
Infatti avremo già abbastanza da fare per noi, senza bisogno d’altro. Qualcuno si duole, più che della morte, del fatto che essa gli interrompa il corso d’una bella vittoria; un altro, che gli tocchi sloggiare prima di aver maritato sua figlia o messa a punto l’educazione dei figli; l’uno rimpiange la compagnia della moglie, l’altro del figlio, come principali piaceri della sua esistenza. [C] Per il momento io sono, grazie a Dio, in tale condizione che posso andarmene quando a lui piacerà, senza rimpianto di cosa alcuna se non della vita, se mi peserà la sua perdita. Mi vado staccando da tutto; ho preso congedo per metà da ognuno, eccetto che da me stesso. Mai uomo si preparò a lasciare il mondo più nettamente e completamente, e se ne distaccò più universalmente di quel che io mi accingo a fare.
[B]miser o miser, aiunt, omnia ademit
Una dies infesta mihi tot præmia vitæ.II 31
[A] E il costruttore:
manent (dice) opera interrupta, minæque
Non bisogna far progetti di così lunga durata, o almeno con tale intensità da affliggersi se non se ne vede la fine. Siamo nati per agire:
Cum moriar, medium solvar et inter opus,IV 33
Io voglio che si agisca e si prolunghino le faccende della vita finché si può, e che la morte mi trovi mentre pianto i miei cavoli, ma incurante di essa, e ancor più del mio giardino non terminato. Ho visto morire un tale che, agli estremi, si lamentava senza posa del fatto che il suo destino spezzava il filo della storia che aveva per le mani, sul quindicesimo o sedicesimo dei nostri re.
[B]Illud in his rebus non addunt, nec tibi earum
Iam desiderium rerum super insidet una.I 34
[A] Bisogna liberarsi da questi sentimenti volgari e nocivi. Allo stesso modo che si son istallati i nostri cimiteri accanto alle chiese, e nei luoghi più frequentati della città, per abituare, diceva Licurgo,35 il basso popolo, le donne e i fanciulli a non spaventarsi alla vista d’un uomo morto, e perché quel continuo spettacolo di ossami, di tombe e di funerali ci ammonisca della nostra condizione:
[B]Quin etiam exhilarare viris convivia cæde
Mos olim, et miscere epulis spectacula dira
Certantum ferro, sæpe et super ipsa cadentum
Pocula respersis non parco sanguine mensis;II 36
[C] e come gli Egizi, dopo i loro festini, facevano presentare agli astanti una grande immagine della morte da uno che gridava loro: «Bevi e godi, perché, morto, sarai così».37 [A] Allo stesso modo io ho preso l’abitudine di avere la morte continuamente presente non solo nel pensiero, ma anche sulle labbra; e non c’è nulla di cui m’informi tanto volentieri quanto della morte degli uomini: che parole, che aspetto, che contegno hanno avuto allora; né vi è passo delle storie che noti con altrettanta attenzione. [C] Appare evidente dall’interpolazione dei miei esempi; ed ho particolare amore per questo argomento. Se fossi un facitore di libri, farei un registro commentato delle diverse morti. Chi insegnasse agli uomini a morire, insegnerebbe loro a vivere. Dicearco ne fece uno con un titolo simile, ma con un fine diverso e meno utile.38
[A] Mi si dirà che la realtà supera di tanto l’immaginazione che non c’è così bella schermaglia che non diventi inutile quando si arriva a quel punto. Lasciateli dire: il prepararvisi col pensiero dà senz’altro un gran vantaggio. E poi, è forse nulla arrivare almeno fin là senza turbamento e senza affanno? C’è di più: la natura stessa ci porge la mano e ci dà coraggio. Se è una morte rapida e violenta, non abbiamo tempo di temerla; se è diversa, mi accorgo che via via che son preso nella malattia, mi avvio naturalmente a un certo disprezzo della vita. Trovo che mi è molto più difficile digerire questa fermezza di fronte alla morte quando sono in salute che quando ho la febbre. Poiché divento sempre meno attaccato agli agi della vita e, a misura che comincio a perderne l’uso e il piacere, vedo la morte con occhio molto meno spaventato. Questo mi fa sperare che quanto più mi allontanerò da quella e mi avvicinerò a questa, tanto più facilmente mi adatterò allo scambio. Proprio come ho riscontrato in parecchie altre occasioni quello che dice Cesare, che le cose ci appaiono spesso più grandi da lontano che da vicino, ho trovato che da sano avevo avuto le malattie molto più in orrore di quando le ho provate; la floridezza presente, il piacere e la forza mi fanno sembrare l’altro stato così sproporzionato a questo, che con la fantasia ingrandisco della metà quegli acciacchi, e li immagino più gravosi di quanto li trovi quando li ho sulle spalle. Spero che mi accadrà lo stesso per la morte. [B] Dai mutamenti e dal declino che patiamo comunemente, vediamo come la natura ci tolga il senso della nostra perdita e del nostro deperimento. Che cosa resta a un vecchio del vigore della giovinezza e della sua vita passata?
Heu senibus vitæ portio quanta manet.I 39
[C] A un soldato della sua guardia, sfinito e rotto dagli anni, che venne in strada a domandargli licenza di darsi la morte, Cesare, guardando il suo aspetto cadente, rispose scherzando: «Pensi dunque di essere in vita».40 [B] Se vi cadessimo improvvisamente, non credo che saremmo capaci di sopportare un tal cambiamento. Ma, conducendoci per mano come giù per un dolce e quasi insensibile pendio, a poco a poco, gradatamente, essa ci fa scivolare in quello stato miserabile e ci familiarizza con esso. Sicché non sentiamo alcuna scossa quando muore in noi la giovinezza, che è in sostanza e in verità una morte più dura che non sia la morte totale d’una vita languente, e la morte della vecchiaia. Poiché il salto dal mal essere al non essere non è così grave come lo è quello che da un’esistenza dolce e fiorente ci porta a un’esistenza penosa e dolorante. [A] Il corpo, curvo e piegato, ha meno forza per sostenere un fardello; così la nostra anima: bisogna raddrizzarla e rafforzarla contro l’assalto di quell’avversario. Di fatto, poiché è impossibile che si metta in pace finché lo teme, se d’altra parte si rassicura, può vantarsi – ed è cosa quasi al di sopra della condizione umana – dell’impossibilità che l’inquietudine, il tormento, la paura e neppure il minimo dispiacere prenda sede in essa,
[B]Non vultus instantis tyranni
Mente quatit solida, neque Auster
Dux inquieti turbidus Adriæ,
Nec fulminantis magna Iovis manus.I 41
[A] Essa è resa padrona delle sue passioni e concupiscenze, padrona dell’indigenza, della vergogna, della povertà e di ogni altra ingiuria della fortuna. Conquisti questo vantaggio chi lo potrà: questa è la vera e sovrana libertà, che ci dà modo di far le fiche alla forza e all’ingiustizia e prenderci gioco delle prigioni e dei ferri,
in manicis et
Compedibus, sævo te sub custode tenebo.
Ipse Deus simul atque volam, me solvet: opinor,
Hoc sentit, moriar. Mors ultima linea rerum est.II 42
La nostra religione non ha avuto alcun fondamento umano più sicuro del disprezzo della vita.
Non solo l’argomentazione della ragione ci porta a questo: di fatto, perché dovremmo temere di perdere una cosa che, perduta, non può essere rimpianta? E dato che siamo minacciati da tante specie di morte, non è forse maggior male temerle tutte, che sopportarne una? [C] Che cosa importa quando sia, poiché è inevitabile? Socrate, a colui che gli diceva: «I trenta tiranni ti hanno condannato a morte», rispose: «E la natura ha condannato loro».43 Che sciocchezza darci pena proprio sul punto di passare alla liberazione da ogni pena! Come la nostra nascita ci ha portato la nascita di tutte le cose, così la nostra morte produrrà la morte di tutte le cose. Perciò è uguale follia piangere perché di qui a cent’anni non saremo in vita, come piangere perché non vivevamo cent’anni fa. La morte è origine di un’altra vita. Allo stesso modo piangemmo; allo stesso modo ci costò entrare in questa; allo stesso modo ci spogliammo, entrandovi, del nostro antico velo. Non può esser doloroso ciò che è una sola volta. Vi è forse motivo di temere per un tempo così lungo una cosa di così breve durata? Vivere a lungo e vivere poco sono resi tutt’uno dalla morte. Poiché il lungo e il breve non possono riferirsi alle cose che non sono più. Aristotele dice che sul fiume Ipani ci sono animaletti che vivono un solo giorno. Quello che muore alle otto del mattino, muore in gioventù; quello che muore alle cinque di sera, muore in decrepitezza.44 Chi di noi non si burla di veder considerare fortuna o sfortuna questa durata di un istante? Il più e il meno nella nostra, se la confrontiamo con l’eternità, o anche con la durata delle montagne, dei fiumi, delle stelle, degli alberi, e perfino di alcuni animali, non è meno ridicolo.
[A] Ma la natura ci forza in tal senso. «Uscite»45 dice «da questo mondo, come ci siete entrati. Lo stesso passaggio che faceste dalla morte alla vita, senza sofferenza e senza spavento, rifatelo dalla vita alla morte. La vostra morte è una delle componenti dell’ordine dell’universo; è una componente della vita del mondo,
[B]inter se mortales mutua vivunt
Et quasi cursores vitai lampada tradunt.I 46
[A] Cambierò forse per voi questa bella orditura delle cose? La morte è la condizione della vostra creazione, è una parte di voi; voi sfuggite a voi stessi. Questo vostro essere, di cui godete, è ugualmente ripartito fra la morte e la vita. Il primo giorno della vostra nascita vi avvia a morire come a vivere,
Prima, quæ vitam dedit, hora carpsit. 47
Nascentes morimur, finisque ab origine pendet.II 48
[C] Tutto ciò che vivete, lo sottraete alla vita, lo vivete a sue spese. La continua opera della vostra vita è costruire la morte. Siete nella morte mentre siete in vita: poiché siete dopo la morte quando non siete più in vita. O, se vi piace di più così, siete morto dopo la vita, ma durante la vita siete morente, e la morte colpisce ben più duramente il morente del morto, e in modo più vivo ed essenziale. [B] Se avete tratto profitto dalla vita, ne siete sazio, andatevene soddisfatto,
Cur non ut plenus vitæ conviva recedis?III 49
Se non avete saputo usarne, se essa vi era inutile, che vi importa di averla perduta, per che farne la volete ancora?
Cur amplius addere quæris
Rursum quod pereat male, et ingratum occidat omne?I 50
[C] La vita in sé non è né un bene né un male: è la sede del bene e del male secondo quale voi decidete di accogliere. [A] E se avete vissuto un giorno, avete veduto tutto. Un giorno è uguale a tutti gli altri. Non c’è altra luce né altra notte. Questo sole, questa luna, queste stelle, questa disposizione sono gli stessi di cui hanno goduto i vostri avi, e che diletteranno i vostri pronipoti:
[C]Non alium videre patres: aliumve nepotes
[A] E, alla peggio, la distribuzione e la varietà di tutti gli atti della mia commedia si compie in un anno. Se avete posto mente al corso delle mie quattro stagioni, esse abbracciano l’infanzia, l’adolescenza, la virilità e la vecchiaia del mondo. Questo ha fatto la sua parte. Non conosce altro espediente che ricominciare. E sarà sempre la stessa cosa,
[B]versamur ibidem, atque insumus usque,52
Atque in se sua per vestigia volvitur annus.III 53
[A] Io non sono disposta a fabbricarvi altri nuovi passatempi,
Nam tibi præterea quod machiner, inveniamque
Quod placeat, nihil est, eadem sunt omnia semper.IV 54
Fate posto agli altri, come altri l’hanno fatto a voi. [C] L’egualità è il primo fondamento dell’equità. Chi può lamentarsi di essere incluso in ciò in cui tutti sono inclusi? [A] Così avete un bel vivere, non diminuirete affatto il tempo durante il quale sarete morto; non serve a nulla: rimarrete in quella condizione che temete altrettanto a lungo che se foste morto a balia,
licet, quod vis, vivendo vincere secla,
Mors æterna tamen nihilominus illa manebit.V 55
[B] E io vi porrò in tale stato che non avrete alcun dispiacere,
In vera nescis nullum fore morte alium te,
Qui possit vivus tibi te lugere peremptum,
Né desidererete la vita che tanto rimpiangete,
Nec sibi enim quisquam tum se vitamque requirit,
Nec desiderium nostri nos afficit ullum.II 57
La morte è da temere meno che niente, se ci fosse qualcosa di meno del niente,
multo mortem minus ad nos esse putandum
Si minus esse potest quam quod nihil esse videmus.III 58
[C] Essa non vi riguarda né da morto né da vivo. Vivo, perché siete; morto, perché non siete più. [A] Nessuno muore prima della sua ora. La parte di tempo che lasciate non era vostra più di quella che è passata prima della vostra nascita; [B] e non vi riguarda più di quella,
Respice enim quam nil ad nos ante acta vetustas
In qualsiasi momento la vostra vita finisca, è già tutta intera. [C] L’utilità del vivere non è nella durata, ma nell’uso: qualcuno ha vissuto a lungo, pur avendo vissuto poco; badateci finché ci siete. Dipende dalla vostra volontà, non dal numero degli anni, l’aver vissuto abbastanza. [A] Pensavate di non arrivar mai là dove correvate senza posa? Eppure non c’è strada che non abbia un suo sbocco. E se la compagnia può consolarvi, tutti non fanno forse la stessa strada che fate voi?
[B]omnia te vita perfuncta sequentur.V 60
[A] Forse che tutto non si muove con lo stesso ritmo con cui vi movete voi? C’è cosa che non invecchi insieme con voi? Mille uomini, mille animali e mille altre creature muoiono nello stesso istante in cui morite voi:
[B]Nam nox nulla diem, neque noctem aurora sequuta est,
Quæ non audierit mistos vagitibus ægris
Ploratus, mortis comites et funeris atri.I 61
[C] A che scopo recalcitrate, se non potete tirarvi indietro? Ne avete visti parecchi che si son trovati bene a morire, dato che evitavano in tal modo grandi miserie. Ma qualcuno che se ne sia trovato male, l’avete visto? È dunque una grande ingenuità condannare una cosa che non avete provato né personalmente né attraverso altri. Perché ti lamenti di me e del destino? Ti facciamo forse torto? Spetta forse a te governare noi oppure a noi governare te? Anche se il tuo tempo non è ancora compiuto, la tua vita lo è. Un uomo piccolo è interamente uomo come uno grande. Né gli uomini né le loro vite si misurano con la spanna. Chirone rifiutò l’immortalità quando fu informato delle condizioni di essa dal dio medesimo del tempo e della durata, Saturno, suo padre. Pensate invero come una vita perpetua sarebbe per l’uomo meno sopportabile e più penosa della vita che gli ho dato. Se non aveste la morte, mi maledireste continuamente di avervene privato. Vi ho apposta mescolato un po’ d’amarezza per impedirvi, vedendo la sua comoda utilità, di abbracciarla troppo avidamente e senza discrezione. Per mettervi in questo stato di moderazione che vi chiedo, cioè di non fuggire la vita né sfuggire la morte, ho temperato l’una e l’altra fra la dolcezza e l’asprezza. Insegnai a Talete,62 il primo dei vostri saggi, che il vivere e il morire erano indifferenti; per cui a colui che gli domandò perché dunque non morisse, egli rispose molto saggiamente: “Perché è indifferente”. L’acqua, la terra, l’aria, il fuoco e le altre parti di questa mia costruzione non sono strumenti della tua vita più di quanto siano strumenti della tua morte. Perché temi il tuo ultimo giorno? Esso non contribuisce alla tua morte più di ciascuno degli altri. L’ultimo passo non causa la stanchezza, la fa manifesta. Tutti i giorni vanno verso la morte, l’ultimo ci arriva».
[A] Ecco i buoni ammonimenti di nostra madre natura. Ora, ho pensato spesso da che cosa potesse derivare che nelle guerre il volto della morte, sia che la vediamo in noi sia in altri, ci sembri senza paragone meno spaventoso che nelle nostre case, altrimenti si avrebbe un esercito di medici e di piagnoni; e che, pur essendo sempre la stessa, ci sia tuttavia sempre una maggior forza d’animo nella gente di paese e di bassa condizione che negli altri. Io credo in verità che siano quei gesti e quei preparativi terribili di cui la circondiamo a farci più paura che non lei stessa: un modo tutto nuovo di comportarsi, le grida delle madri, delle mogli e dei figli, la visita di persone sbigottite e accorate, la presenza di una folla di servi pallidi e lagrimosi, una camera senza luce, dei ceri accesi, il nostro capezzale assediato da medici e da predicatori; insomma, solo orrore e spavento intorno a noi. Eccoci già seppelliti e sotterrati. I bambini hanno paura perfino dei loro amici quando li vedono mascherati,63 e così noi. Bisogna togliere la maschera alle cose come alle persone: tolta che sarà, ci troveremo sotto quella stessa morte che un servo o una semplice cameriera sostennero ultimamente senza paura. Felice quella morte che non concede tempo sufficiente per i preparativi di un tale apparato.
I Sorvoliamo su tali vane sottigliezze
I Siamo tutti spinti verso uno stesso luogo, la sorte di tutti è agitata nell’urna, presto o tardi ne uscirà e ci farà salire sulla barca per la morte eterna
I incombe sempre su di noi come il masso sopra Tantalo
II le vivande sicule non avranno per lui un dolce sapore, né il canto degli uccelli né il suono della cetra gli renderanno il sonno
III S’informa del cammino, conta i giorni e misura la vita sulla lunghezza della strada, tormentato dall’idea della sventura che lo attende
IV Poiché si è messo in testa di andare all’indietro
I L’uomo non prevede mai abbastanza ciò che deve evitare a ogni istante
I preferirei passar per pazzo o per imbecille, se le mie disgrazie mi procurano piacere o mi illudono, piuttosto che esser saggio e rodermi
I E invero insegue colui che fugge né risparmia i garretti e le pavide spalle della gioventù imbelle
II Anche se, guardingo contro il ferro, si copre di bronzo, la morte scoprirà tuttavia quella testa protetta
III Pensa che ogni giorno sia l’ultimo che risplende per te. Sopraggiungerà gradita l’ora che non speravi
I Quando l’età in fiore viveva una lieta primavera
II Presto sarà passato né mai più potremo richiamarlo
III Nessuno è più fragile d’un altro né più certo del suo domani
I Perché in così breve tempo, audaci, formiamo mille progetti?
II misero, misero me, dicono, un solo giorno nefasto mi toglie tanti doni della vita
III rimangono interrotti i lavori, e le mura, ingenti minacce
IV Quando morirò, voglio che la morte mi sorprenda mentre lavoro
I Non aggiungono in proposito che il rimpianto di queste cose non sarà più in te
II Ed era pur uso un tempo rallegrare i conviti con l’eccidio e unire ai banchetti lo spettacolo crudele di lottatori armati che spesso cadevano fin sulle coppe, inondando le tavole di sangue copioso
I Ahimè, quale piccola porzione di vita rimane ai vecchi
I Né il volto minaccioso d’un tiranno scuote quest’animo incrollabile, né l’Austro collerico signore dell’Adriatico inquieto, né la grande mano di Giove fulminatore
II ti terrò, piedi e mani incatenati, sotto un crudele carceriere. Un dio in persona, quando lo vorrò, mi libererà. Penso che voglia dire: morirò. La morte è il termine ultimo delle cose
I i mortali vivono di mutui scambi e come corridori si passano la fiaccola della vita
II La prima ora intacca, donandola, la vita. Nascendo moriamo e la fine comincia dall’inizio
III Perché non abbandoni la vita come un convitato sazio?
I Perché vuoi allungare ciò che deve miseramente finire e svanire interamente senza profitto?
II Non altro videro i padri, non altro vedranno i nipoti
III giriamo qui, e qui sempre restiamo, e sui lor propri passi sempre girano gli anni
IV Non posso inventare né immaginare nient’altro per farti piacere, sono sempre le stesse cose
V puoi vincere come vuoi i secoli, vivendo, nondimeno la morte rimarrà eterna
I Tu non sai che nella vera morte non ci sarà un altro te stesso che possa, vivo e in piedi, piangere te, morto e giacente
II Allora nessuno s’inquieta né della vita né di se stesso, né ci rimane alcun rimpianto di noi
III Dobbiamo pensare che la morte è molto meno, se può esser meno di ciò che [scil. il sonno] vediamo esser niente
IV Considera, infatti, come sia nulla per noi l’eternità dei tempi passati
V tutto, terminata la vita, ti seguirà
I Poiché mai la notte ha seguito il giorno, o l’aurora ha seguito la notte senza udire miste ai vagiti le grida di dolore che accompagnano la morte e i neri funerali