che altro è se non una confessione della sua impotenza, e un rinvio non solo all’ignoranza, per esservi al riparo, ma alla stupidità stessa, al non sentire e al non essere?
Democritum postquam matura vetustas
Admonuit memorem motus languescere mentis:
Sponte sua leto caput obvius obtulit ipse.V 160
È quello che diceva Antistene, che bisognava far provvista o di senno per intendere o di corda per impiccarsi; e quello che Crisippo citava a questo proposito del poeta Tirteo,161
De la vertu, ou de mort approcher.VI 162
[C] E Cratete diceva che l’amore si guariva con la fame se non col tempo, e a chi non piacessero questi due mezzi, col capestro.163 [B] Quel Sestio del quale Seneca e Plutarco parlano con tanta stima,164 abbandonata ogni altra cosa e gettatosi nello studio della filosofia, decise di buttarsi in mare, vedendo i suoi studi procedere troppo tardi e lenti. Correva alla morte, in mancanza della scienza. Ecco le parole della legge165 a questo proposito: «Se per caso accade qualche gran danno al quale non si possa rimediare, il porto è vicino; e ci si può salvare a nuoto fuori del corpo come fuori di uno scafo che fa acqua: poiché è la paura di morire, non il desiderio di vivere, che tiene il pazzo attaccato al corpo».
[A] Come la vita si rende più piacevole con la semplicità, così si rende anche più innocente e migliore, come mi accingevo ora a dire. «I semplici» dice san Paolo166 «e gli ignoranti si innalzano e conquistano il cielo: e noi, con tutto il nostro sapere, sprofondiamo negli abissi infernali». Non mi fermo né a Valentiano,167 nemico dichiarato della scienza e delle lettere, né a Licinio, ambedue imperatori romani, che le chiamavano veleno e peste di ogni ordinamento politico, né a Maometto che, come ho sentito dire, proibì la scienza alla sua gente; ma l’esempio di quel grande Licurgo e la sua autorità deve aver certo molto peso, e così il rispetto per quella divina costituzione spartana, così grande, così mirabile e così a lungo fiorente in virtù e in prosperità, senza alcuna istruzione né pratica di lettere. Quelli che tornano da quel nuovo mondo che è stato scoperto dagli Spagnoli al tempo dei nostri padri, possono testimoniare come quei popoli, senza magistrato e senza legge, vivano con maggior ordine e regola dei nostri, fra i quali ci sono più ufficiali e leggi che altri uomini e azioni,
Di cittatorie piene e di libelli,
D’esamine e di carte, di procure,
Hanno le mani e il seno, e gran fastelli
Di chiose, di consigli e di letture:
Per cui le facultà de’ poverelli
Non sono mai ne le città sicure;
Hanno dietro e dinanzi, e d’ambi i lati,
Notai, procuratori et advocati.168
Era quello che diceva un senatore romano degli ultimi secoli, che i loro predecessori avevano l’alito che puzzava d’aglio e lo stomaco profumato di buona coscienza; e che al contrario, quelli del tempo suo erano tutti profumati all’esterno, e puzzavano all’interno per ogni sorta di vizi: cioè, come credo, avevano molta scienza e competenza, e una gran mancanza di onestà. L’inciviltà, l’ignoranza, la semplicità, la rozzezza si accompagnano facilmente all’innocenza; la curiosità, l’acutezza, il sapere si trascinano dietro la malizia; l’umiltà, il timore, l’obbedienza, la bonarietà (che sono le cose principali per la conservazione della società umana) richiedono un’anima sgombra, docile e che presuma poco di sé. I cristiani hanno una particolare nozione di quanto la curiosità sia un male naturale e originario nell’uomo. Il desiderio di accrescere il proprio sapere e la propria saggezza fu la prima rovina del genere umano: è la via per la quale si è precipitato nella dannazione eterna. L’orgoglio è la sua disgrazia e la sua corruzione: è l’orgoglio che trascina l’uomo fuori delle strade comuni, che gli fa abbracciare le novità, e preferire di essere a capo di una truppa errante e sviata sul sentiero della perdizione, preferire di esser rettore e maestro di errore e di menzogna, che essere discepolo nella scuola della verità, lasciandosi guidare e condurre per mano da altri sulla strada battuta e dritta. È forse quel che dice questo antico motto greco,169 che la superstizione segue l’orgoglio e gli obbedisce come al proprio padre: ἡ δεισιδαιµονία κατάπερ πατρὶ τῷ τυϕῷ πείθεται.I [C] O presunzione! Quanto ci sei d’impaccio! Quando Socrate seppe170 che il dio della saggezza gli aveva attribuito il soprannome di saggio, ne fu stupito: ed esaminandosi e frugandosi dappertutto, non trovava alcun fondamento a questa sentenza divina. Ne conosceva altri giusti, temperanti, valenti, dotti come lui, e più eloquenti e più belli e più utili al paese. Infine concluse che era diverso dagli altri ed era saggio solo perché non si riteneva tale. E che il suo dio reputava singolare stoltezza nell’uomo il credersi sapiente e saggio: e che la sua migliore dottrina era la dottrina dell’ignoranza, e la sua migliore saggezza, la semplicità. [A] La Sacra Scrittura chiama miserabili quelli di noi che si stimano. «Fango e cenere», dice loro «che hai da gloriarti?»171 E altrove: «Dio ha fatto l’uomo simile all’ombra, e chi giudicherà di essa quando, allontanatasi la luce, sarà svanita?» In verità noi siamo nulla. Le nostre forze son così lontane dal concepire l’altezza divina, che fra le opere del nostro creatore, quelle che più chiaramente portano impresso il suo segno e sono più sue, noi le comprendiamo meno. Per i cristiani è un motivo di credere il reputare una cosa incredibile. Essa è tanto più secondo ragione, quanto più è contro l’umana ragione. [B] Se fosse secondo ragione, non sarebbe più miracolo; e se fosse secondo qualche esempio, non sarebbe più una cosa singolare. [C] Melius scitur deus nesciendo,I dice sant’Agostino.172 E Tacito, Sanctius est ac reverentius de actis deorum credere quam scire.II 173 E Platone ritiene che vi sia un certo peccato d’empietà nell’indagare con troppa curiosità e intorno a Dio e intorno al mondo e intorno alle cause prime delle cose.174 Atque illum quidem parentem huius universitatis invenire difficile: et, quum iam inveneris, indicare in vulgus, nefas,III dice Cicerone.175 [A] Noi diciamo, sì, potenza, verità, giustizia: sono parole che significano qualcosa di grande; ma questa cosa non la vediamo in alcun modo, né la concepiamo. [B] Diciamo che Dio teme, che Dio si adira, che Dio ama,
immortalia mortali sermone notantes:IV 176
sono tutte agitazioni ed emozioni che non possono trovarsi in Dio secondo la nostra forma: né noi possiamo immaginarlo secondo la sua. [A] A Dio solo spetta conoscersi e interpretare le proprie opere. [C] E lo fa nella nostra lingua, impropriamente, per abbassarsi e discendere fino a noi, che giacciamo a terra. Come può convenirgli la saggezza, che è la scelta fra il bene e il male, dato che nessun male lo tocca? Come, la ragione e l’intelligenza, delle quali ci serviamo per giungere dalle cose oscure a quelle evidenti, dato che non c’è niente di oscuro per Dio? La giustizia, che distribuisce a ciascuno ciò che gli appartiene, nata per la società e la comunità degli uomini, come può essere in Dio? Come, la temperanza? che è la moderazione delle voluttà corporali, che non trovano posto nella divinità. La fermezza nel sopportare il dolore, la fatica, i pericoli, gli si addicono altrettanto poco, non avendo queste tre cose alcun accesso presso di lui. Per questo Aristotele lo ritiene ugualmente esente da virtù e da vizio:177 Neque gratia neque ira teneri potest, quod quæ talia essent, imbecilla essent omnia.V 178 [A] La parte che abbiamo alla conoscenza della verità, qualunque essa sia, non è con le nostre proprie forze che l’abbiamo acquistata. Dio ce lo ha insegnato a sufficienza scegliendo dal volgo i suoi testimoni, semplici e ignoranti, per istruirci nei suoi mirabili segreti: la nostra fede non è nostro acquisto, è puro dono della liberalità altrui. Non è per ragionamento o per mezzo del nostro intelletto che abbiamo ricevuto la nostra religione, è per autorità e per comandamento estraneo. La debolezza del nostro giudizio ci aiuta in questo più della forza, e la nostra cecità più della nostra chiaroveggenza. È per mezzo della nostra ignoranza più che della nostra scienza che siamo sapienti di questo divino sapere. Non c’è da meravigliarsi se i nostri mezzi naturali e terreni non possono concepire quella conoscenza soprannaturale e celeste: mettiamoci, del nostro, solo l’obbedienza e la sottomissione. Poiché, come sta scritto: «Io distruggerò la sapienza dei saggi, e abbasserò la prudenza dei prudenti. Dov’è il saggio? Dov’è lo scriba? Dov’è il polemista di questo secolo? Dio non ha reso stolta la sapienza di questo mondo? Infatti, poiché il mondo non ha conosciuto Dio con la sapienza, a lui piacque, con l’inanità della predicazione, salvare i credenti».179
Tuttavia mi occorre infine vedere se è in potere dell’uomo trovare ciò che cerca; e se questa ricerca che ha perseguito da tanti secoli l’ha arricchito di qualche nuova forza e di qualche verità solida. Io credo che mi confesserà, se parla in coscienza, che tutto il frutto che ha tratto da una così lunga indagine è di aver imparato a riconoscere la propria debolezza. L’ignoranza che era naturalmente in noi, l’abbiamo con lungo studio confermata e costatata. È accaduto agli uomini veramente sapienti ciò che accade alle spighe di grano: si elevano e si innalzano, la testa dritta e fiera, finché sono vuote; ma quando sono colme e pregne di grano nella loro maturità, cominciano a diventar umili e ad abbassare il capo. Così gli uomini, dopo aver tutto saggiato e tutto sondato, non avendo trovato in quell’ammasso di scienza e in quella provvista di tante cose diverse niente di solido e sicuro, e nient’altro che vanità, hanno rinunciato alla loro presunzione e riconosciuto la loro condizione naturale. [C] È quello che Velleio rimprovera a Cotta e a Cicerone, che hanno imparato da Filone di non aver imparato nulla.180 Ferecide, uno dei sette saggi, scrivendo a Talete, in punto di morte: «Ho ordinato ai miei» dice «di portarti i miei scritti dopo che mi avranno seppellito: se soddisfano te e gli altri saggi, pubblicali, altrimenti distruggili. Non contengono alcuna certezza che soddisfi neppure me. Perciò non faccio professione di conoscere la verità e di arrivarci. Apro le cose più che non le scopra».181 [A] L’uomo più saggio che mai sia stato,182 quando gli fu domandato che cosa sapeva, rispose che sapeva di non saper nulla. Egli convalidava ciò che si dice, che la maggior parte di quello che sappiamo è la minima parte di quello che ignoriamo: cioè che anche quello che pensiamo di sapere è una parte, e assai piccola, della nostra ignoranza. [C] Noi sappiamo le cose in sogno, dice Platone, e le ignoriamo in realtà.183 Omnes pene veteres nihil cognosci, nihil percipi, nihil sciri posse dixerunt; angustos sensus, imbecillos animos, brevia curricula vitæ.I 184 [A] Di Cicerone stesso, che doveva al sapere tutto il suo valore, Valerio dice che verso la vecchiaia cominciò a disistimare le lettere.185 [C] E quando le coltivava, non aderiva a nessun partito, seguendo quello che gli sembrava probabile, ora in una setta, ora nell’altra; mantenendosi sempre nel dubbio degli accademici: Dicendum est, sed ita ut nihil affirmem, quæram omnia, dubitans plerumque et mihi diffidens.II 186
[A] Avrei troppo buon gioco se volessi considerare l’uomo nel suo abito comune e all’ingrosso, e potrei farlo tuttavia con la sua stessa misura, che giudica la verità non dal peso delle voci, ma dal numero. Tralasciamo il popolo,
Qui vigilans stertit,
Mortua cui vita est prope iam vivo atque videnti,III 187
che non si osserva, che non si giudica, che lascia oziosa la maggior parte delle sue facoltà naturali. Voglio esaminare l’uomo nella sua condizione più elevata. Consideriamolo in quel piccolo numero di uomini eccellenti e scelti che, dotati di una bella e singolare forza naturale, l’hanno ulteriormente rinvigorita e acuita con cura, con studio e con arte, e l’hanno portata al più alto grado di saggezza a cui possa arrivare. Hanno esercitato la loro anima in tutti i sensi e per tutti i versi, l’hanno appoggiata e puntellata con ogni soccorso esteriore che le fosse adatto, e arricchita e ornata di tutto ciò che hanno potuto, per la sua utilità, prendere dall’interno e dall’esterno del mondo: è in essi che risiede la più sublime altezza della natura umana. Hanno regolato il mondo con costituzioni e leggi; l’hanno istruito con arti e scienze, e istruito altresì con l’esempio dei loro ammirevoli costumi. Non terrò conto che di uomini siffatti, della loro testimonianza e della loro esperienza. Vediamo fin dove sono arrivati e a che cosa si sono attenuti. Le malattie e i difetti che troveremo in questa schiera, il mondo potrà francamente riconoscerli suoi.
Chiunque cerca qualcosa, arriva a questo punto: o dice che l’ha trovata, o che non si può trovare, o che ne è ancora in cerca.188 Tutta la filosofia è divisa in questi tre generi. Il suo proposito è cercare la verità, la scienza e la certezza. I peripatetici, gli epicurei, gli stoici e gli altri hanno creduto di averla trovata. Hanno stabilito le scienze che abbiamo e le hanno trattate come conoscenze sicure. Clitomaco, Carneade e gli accademici hanno disperato della loro ricerca, e giudicato che la verità non potesse essere concepita con i nostri mezzi. La conclusione di costoro è la debolezza e l’ignoranza umana. Questo partito ha avuto il maggior seguito e i seguaci più nobili. Pirrone ed altri scettici o efettici, [C] le cui opinioni parecchi antichi hanno ritenuto tratte da Omero, dai sette saggi, da Archiloco, da Euripide, e vi aggiungono Zenone, Democrito, Senofane, [A] dicono di essere ancora in cerca della verità. Essi ritengono che coloro che pensano di averla trovata s’ingannano infinitamente; e che c’è anche una vanità troppo sfacciata in quella seconda posizione che afferma che le forze umane non sono capaci di raggiungerla. Poiché questo stabilire la misura della nostra forza, questo conoscere e giudicare la difficoltà delle cose, è una scienza grande e sublime della quale dubitano che l’uomo sia capace.
Nil sciri quisquis putat, id quoque nescit
An sciri possit quo se nil scire fatetur.I 189
L’ignoranza che si conosce, che si giudica e che si condanna non è ignoranza totale:190 per esserlo, bisogna che ignori se stessa. Sicché la professione dei pirroniani è ondeggiare, dubitare e cercare, non ritenersi sicuri di nulla, non rispondere di nulla. Delle tre attività dell’anima, l’immaginativa, l’appetitiva e la consenziente,191 essi ammettono le prime due; l’ultima la sospendono e la mantengono in equilibrio, senza la benché minima inclinazione o approvazione in un senso o nell’altro. [C] Zenone descriveva col gesto il suo pensiero su questa divisione delle facoltà dell’anima.192 La mano aperta e distesa era apparenza. La mano a metà chiusa e con le dita un po’ curve: consenso. Il pugno chiuso: comprensione. Quando, con la mano sinistra, chiudeva ancora più strettamente quel pugno: scienza.
[A] Ora, questa posizione del loro giudizio, dritta e inflessibile, che accoglie tutti gli oggetti senza adesione e consenso, li avvia alla loro atarassia, che è una condizione di vita placida, calma, esente dalle emozioni che riceviamo a causa dell’opinione e della conoscenza che pensiamo di avere delle cose. Da cui nascono il timore, la cupidigia, l’invidia, i desideri smodati, l’ambizione, l’orgoglio, la superstizione, la smania di novità, la ribellione, la disubbidienza, l’ostinazione e la maggior parte dei mali del corpo. Anzi, essi si liberano in tal modo dalla cura gelosa della loro disciplina. Infatti discutono assai fiaccamente. Non temono affatto di essere controbattuti nella disputa. Quando dicono che il pesante va verso il basso si rammaricherebbero di essere creduti; e cercano di essere contraddetti per suscitare il dubbio e la sospensione di giudizio, che è il loro scopo. Mettono avanti le loro proposizioni solo per combattere quelle di cui pensano che pertengano alla nostra dottrina. Se prendete partito per la loro, prenderanno a perorare altrettanto di buon grado quella contraria: per loro è tutt’uno; non fanno alcuna scelta. Se asserite che la neve è nera,193 argomentano al contrario che è bianca. Se dite che non è né l’uno né l’altro, sta a loro sostenere che è tutti e due. Se, con giudizio sicuro, opinate che non ne sapete nulla, sosterranno che lo sapete. E se poi, con un assioma affermativo, assicurate che ne dubitate, vi ribatteranno che non ne dubitate, o che non potete giudicare e stabilire che ne dubitate. E con questo eccesso di dubbio che scuote se stesso, si allontanano e si separano da diverse opinioni, da quelle stesse che hanno sostenuto in diversi modi il dubbio e l’ignoranza. [B] Perché non sarà permesso anche a loro, dicono, di dubitare, come è permesso ai dogmatici di dire l’uno verde, l’altro giallo? C’è qualcosa che vi si possa proporre per ammetterla o rifiutarla, e che non sia lecito considerare come ambigua? E laddove gli altri sono indotti, o per le consuetudini del loro paese, o per l’educazione dei genitori, o per caso, come per una tempesta, senza giudizio e senza scelta, anzi il più delle volte prima dell’età del discernimento, a questa o a quella opinione, alla setta o stoica o epicurea, alla quale si trovano ipotecati, asserviti e attaccati come a un vincolo dal quale non riescono a liberarsi: [C] ad quamcunque disciplinam velut tempestate delati, ad eam tanquam ad saxum adhærescunt,I 194 [A] perché a costoro non sarà ugualmente concesso di conservare la loro libertà, e considerare le cose senza costrizione e schiavitù? [C] Hoc liberiores et solutiores quod integra illis est iudicandi potestas.I 195 Non c’è forse qualche vantaggio nel trovarsi svincolati dalla necessità che imbriglia gli altri? [A] Non è meglio rimanere in sospeso che impelagarsi in tanti errori che la fantasia umana ha prodotto? Non è meglio tener sospesa la propria convinzione che impigliarsi in quelle divisioni sediziose e litigiose? [C] «Che cosa sceglierò?» «Quello che vi piace, purché scegliate». Ecco una risposta sciocca. Alla quale tuttavia sembra che arrivi ogni dogmatismo. Il quale non ci permette d’ignorare quello che ignoriamo. [B] Prendete il partito più famoso, non sarà mai tanto sicuro che non vi occorra, per difenderlo, attaccare e combattere cento e cento partiti contrari. Non è meglio tenersi fuori da questa mischia? Vi è permesso di sposare, come se fosse il vostro onore e la vostra vita, l’opinione di Aristotele sull’eternità dell’anima, e contraddire e smentire Platone a questo proposito, e ad essi sarà proibito di dubitarne? [C] Se è lecito a Panezio sospendere il suo giudizio intorno ad aruspici, sogni, oracoli, vaticini, cose delle quali gli stoici non dubitano affatto,196 perché un saggio non oserà in tutte le cose ciò che costui osa in quelle che ha imparato dai suoi maestri, stabilite dal comune consenso della scuola della quale è seguace e che professa? [B] Se è un fanciullo che giudica, non sa di che si tratti; se è un dotto, è prevenuto. Essi si sono riservati un mirabile vantaggio nella lotta, essendosi liberati dalla preoccupazione di difendersi. Non importa loro di essere colpiti, pur di colpire, e traggono partito da tutto. Se vincono, la vostra proposizione zoppica; se vincete voi, zoppica la loro. Se s’ingannano, dimostrano l’umana ignoranza; se v’ingannate, la dimostrate voi. Se riescono a provare che non si sa nulla, va bene, se non riescono a provarlo, va bene lo stesso. [C] Ut, quum in eadem re paria contrariis in partibus momenta inveniuntur, facilius ab utraque parte assertio sustineatur.II 197 E ritengono di saper scoprire molto più facilmente perché una cosa sia falsa, che non che sia vera; e ciò che non è, più di ciò che è; e quello che non credono, più di quello che credono. [A] I loro modi di parlare198 sono: «Non sostengo nulla; non è più così che cosà, o né l’uno né l’altro; non lo capisco; le apparenze sono uguali dappertutto; la possibilità di parlare pro e contro è la stessa [C]. Nulla sembra vero che non possa sembrar falso». [A] La loro parola sacramentale è ἐπέχω,199 cioè io sospendo, non mi muovo. Ecco i loro ritornelli, e altri dello stesso genere. Il loro risultato, è una pura, intera e perfettissima dilazione e sospensione di giudizio. Si servono della loro ragione per indagare e discutere, ma non per decidere e scegliere. Chiunque s’immagini una continua confessione di ignoranza, un giudizio senza direzione e senza inclinazione, in qualsiasi occasione, concepisce il pirronismo. Io descrivo questa fantasia meglio che posso, perché parecchi la trovano difficile da concepire, e gli stessi autori la rappresentano un po’ oscuramente e diversamente.
Quanto alle azioni della vita, essi seguono l’uso comune. Si adattano e si accomodano alle inclinazioni naturali, all’impulso e alla costrizione delle passioni, alle norme delle leggi e delle consuetudini e alla tradizione delle arti. [C] Non enim nos Deus ista scire, sed tantummodo uti voluit.I 200 [A] Lasciano che le loro azioni abituali siano guidate da queste cose, senza alcuna supposizione o giudizio. Questo fa sì che io non possa accordar bene a questo discorso quel che si dice di Pirrone. Lo descrivono stupido e immobile, dedito a un modo di vita selvatico e insocievole, che si lascia urtare dai carri, corre incontro ai precipizi, rifiuta di adattarsi alle leggi.201 Questo è un esagerare la sua dottrina. Non ha voluto farsi né pietra né tronco: ha voluto essere un uomo vivo, che discorre e ragiona, gode di tutti i piaceri e vantaggi naturali, mette in opera e si serve di tutte le sue parti corporali e spirituali [C] con norma esatta e sicura. [A] Quanto ai privilegi fantastici, immaginari e falsi che l’uomo ha usurpato, di dominare, di ordinare, di stabilire la verità, egli in buona fede vi ha rinunciato e li ha abbandonati. [C] Eppure non vi è setta che non sia costretta a permettere al suo saggio di accettare molte cose senza comprenderle, né percepirle, né consentirvi, se vuol vivere. E quando si mette in mare, egli segue questo proposito, ignorando se gli sarà utile: e si affida al fatto che il vascello è buono, il pilota esperto, la stagione favorevole, circostanze soltanto probabili. Su di esse è tenuto ad andare, lasciandosi guidare dalle apparenze, purché non si presentino in manifesta contraddizione. Ha un corpo, ha un’anima, i sensi lo spingono, lo spirito lo agita. Sebbene non trovi in sé quella propria e singolare qualità di giudicare, e si accorga che non deve impegnare il proprio consenso, poiché può esservi qualche falso simile a quel vero, non tralascia di svolgere le mansioni della sua vita compiutamente e tranquillamente. Quante sono le arti che fanno professione di fondarsi su congetture più che sulla scienza: che non decidono del vero e del falso e seguono soltanto l’apparenza! C’è, dicono, e il vero e il falso, e noi abbiamo la possibilità di cercarlo, ma non di stabilirlo con prove. È molto meglio per noi lasciarci portare, senza indagare, dall’ordine del mondo. Un’anima libera da pregiudizi è già straordinariamente avanti sulla strada della tranquillità. Coloro che giudicano e controllano i loro giudici non si sottomettono mai come si conviene. Quanto sono più docili e più facili a piegarsi sia alle leggi della religione sia alle leggi politiche gli spiriti semplici e privi di curiosità, che non quegli spiriti vigili e maestri delle cause divine e umane!
[A] Non c’è nulla nell’immaginazione umana in cui vi sia altrettanta verosimiglianza e utilità. Essa presenta l’uomo nudo e vuoto, consapevole della propria naturale debolezza, pronto a ricevere dall’alto qualche soccorso estraneo, sprovvisto di scienza umana e tanto più atto ad accogliere in sé quella divina; incline ad annullare il proprio giudizio per fare un posto maggiore alla fede; né miscredente, né assertore di alcun dogma contro le comuni credenze; umile, obbediente, docile alla disciplina, zelante, nemico giurato di eresia, e lontano quindi dalle vane e irreligiose opinioni introdotte dalle sette fallaci. [B] È un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà di imprimervi. Quanto più ci affidiamo e ci abbandoniamo a Dio, rinunciando a noi stessi, tanto più acquistiamo merito. «Accetta» dice l’Ecclesiaste202 «di buon grado le cose con l’aspetto e col sapore con cui ti si presentano, giorno per giorno: il rimanente è fuori della tua conoscenza». [C] Dominus novit cogitationes hominum, quoniam vanæ sunt.I 203
[A] Ecco come, delle tre grandi sette filosofiche, due fanno espressa professione di dubbio e d’ignoranza; e in quella dei dogmatici, che è la terza, è facile scoprire che i più hanno assunto un’aria di sicurezza solo per darsi importanza. Non hanno tanto pensato di darci qualche certezza, quanto di mostrarci fin dove erano arrivati in quella caccia della verità [C]: quam docti fingunt, magis quam norunt.I 204 Timeo, dovendo istruire Socrate di ciò che sa degli dèi, del mondo e degli uomini, propone di parlargliene come un uomo a un altro uomo, e che basta che le sue ragioni siano probabili come le ragioni di un altro, dato che le ragioni precise non sono in mano sua, né in altra mano mortale. Cosa che uno dei suoi seguaci ha così imitato: Ut potero, explicabo: nec tamen, ut Pythius Apollo, certa ut sint et fixa, quæ dixero; sed, ut homunculus, probabilia coniectura sequens.II 205 E questo a proposito del disprezzo della morte, argomento naturale e comune. Altrove ha tradotto il ragionamento stesso di Platone: Si forte, de deorum natura ortuque mundi disserentes, minus id quod habemus animo consequimur, haud erit mirum. Æquum est enim meminisse et me qui disseram, hominem esse, et vos qui iudicetis; ut, si probabilia dicentur, nihil ultra requiratis.III 206 [A] Aristotele ammassa di solito un gran numero di altre opinioni e di altre credenze, per paragonarvi la sua e farci vedere quanto egli sia andato oltre e quanto più si sia avvicinato alla verosimiglianza: perché la verità non si giudica affatto sull’autorità e sulla testimonianza di altri. [C] E pertanto Epicuro evitò scrupolosamente di citarne nei suoi scritti. [A] Quello è il principe dei dogmatici, eppure impariamo da lui che il molto sapere dà motivo di più dubitare.207 Lo vediamo spesso avvolgersi di proposito in un’oscurità tanto fitta e inestricabile che non si può coglier nulla del suo pensiero. Si tratta, in realtà, di un pirronismo sotto forma risolutiva. [C] Ascoltate la dichiarazione di Cicerone, che ci spiega l’idea di altri per mezzo della sua: Qui requirunt quid de quaque re ipsi sentiamus, curiosius id faciunt quam necesse est. Hæc in philosophia ratio contra omnia disserendi nullamque rem aperte iudicandi, profecta a Socrate, repetita ab Arcesila, confirmata a Carneade, usque ad nostram viget ætatem. Hi sumus qui omnibus veris falsa quædam adiuncta esse dicamus, tanta similitudine ut in iis nulla insit certe iudicandi et assentiendi nota.I 208
[B] Perché non Aristotele soltanto, ma la maggior parte dei filosofi hanno fatto ostentazione di oscurità, se non per dar peso alla vanità del soggetto e ingannare la curiosità del nostro spirito, col dargli di che pascersi, facendogli rosicchiare quest’osso vuoto e scarnito? [C] Clitomaco affermava di non aver mai potuto capire dagli scritti di Carneade di che opinione egli fosse.209 [B] Perché Epicuro ha evitato nei suoi la facilità ed Eraclito è stato per questo soprannominato σκοτεινός?II 210 L’oscurità è una moneta [C] che i dotti impiegano, come i prestigiatori, per non scoprire l’inanità della loro arte, e della quale [B] l’umana stoltezza si appaga facilmente:
Clarus, ob obscuram linguam, magis inter inanes,
Omnia enim stolidi magis admirantur amantque
Inversis quæ sub verbis latitantia cernunt.III 211
[C] Cicerone rimprovera212 ad alcuni suoi amici di dedicare abitualmente all’astrologia, al diritto, alla dialettica e alla geometria più tempo di quanto meritino queste arti: e che questo li distrae dai doveri della vita, più utili e onesti. I filosofi cirenaici213 disprezzavano in egual misura la fisica e la dialettica. Zenone, proprio all’inizio dei libri della sua Repubblica, dichiarava inutili tutte le discipline liberali. [A] Crisippo diceva214 che quello che Platone e Aristotele avevano scritto della logica, lo avevano scritto per gioco e per esercizio; e non poteva credere che avessero parlato seriamente di una materia così vana. [C] Plutarco dice lo stesso della metafisica. [A] Epicuro lo avrebbe detto anche della retorica, della grammatica, [C] della poesia, della matematica e, ad eccezione della fisica, di tutte le scienze. [A] E anche Socrate di tutte, salvo soltanto quella che tratta dei costumi e della vita. [C] Qualsiasi cosa gli si chiedesse, in primo luogo riconduceva sempre l’interrogante a render conto delle condizioni della sua vita presente e passata, e le esaminava e le giudicava: ritenendo ogni altro apprendimento subordinato a questo e soprannumerario. Parum mihi placeant eæ litteræ quæ ad virtutem doctoribus nihil profuerunt.I 215 [A] La maggior parte delle arti sono state quindi disprezzate dallo stesso sapere. Ma essi non hanno pensato che fosse fuori proposito esercitare e divagare il loro spirito con cose nelle quali non c’era alcun solido profitto.
Del resto, alcuni hanno ritenuto Platone dogmatico,216 altri proclive al dubbio, altri per certe cose l’uno e per certe cose l’altro. [C] Il principale interlocutore dei suoi dialoghi, Socrate, va sempre interrogando e provocando la discussione, senza mai concluderla, senza mai fornire soluzioni, e dice di non possedere altra scienza che quella di contraddire. Omero, loro padre, ha dato uguali fondamenti a tutte le sette filosofiche, per mostrare quanto fosse indifferente da che parte andassimo. Si dice che da Platone trassero origine dieci sette diverse.217 E a parer mio, mai dottrina fu titubante e aliena dall’affermare alcunché quanto la sua. Socrate diceva che le ostetriche, scegliendo quel mestiere di far partorire le altre donne, abbandonavano, per quanto le riguarda, il mestiere di partorire.218 Che lui, in virtù del titolo di uomo saggio219 che gli dèi gli hanno conferito, si è del pari spogliato, nel suo amore virile e mentale, del potere di generare, e si accontenta di aiutare e prestar soccorso ai generanti: aprire i loro organi, ingrassare i loro condotti, facilitare l’uscita del loro parto, giudicarlo, battezzarlo, nutrirlo, fortificarlo, fasciarlo e circonciderlo. Esercitando e adoperando il suo talento sui pericoli e sulle venture altrui. [A] Così è pure della maggior parte degli autori di quel terzo genere, [B] come gli antichi hanno notato220 a proposito degli scritti di Anassagora, Democrito, Parmenide, Senofane e altri. [A] Hanno un modo di scrivere dubitoso nella sostanza e il loro proposito è indagare piuttosto che ammaestrare, sebbene intercalino al loro linguaggio cadenze dogmatiche. [C] Questo non si vede forse altrettanto bene e in Seneca e in Plutarco? Quante volte, per chi li guardi da vicino, parlano ora con un tono ora con un altro! E coloro che cercano di conciliare fra loro i giureconsulti dovrebbero prima di tutto conciliarli ognuno con se stesso. Mi sembra che Platone abbia prediletto quel modo di filosofare per dialoghi a ragion veduta, per collocare più decorosamente in diverse bocche la diversità e la mutevolezza delle sue stesse idee. Trattare variamente le materie è bene, come trattarle in modo uniforme, anzi meglio: cioè più abbondantemente e utilmente. Prendiamo esempio da noi. Le sentenze giudiziarie rappresentano il culmine del parlare dogmatico e risolutivo. Tuttavia quelle che i nostri tribunali offrono al popolo come più esemplari,221 proprie a nutrire in esso il rispetto che deve a questa dignità, soprattutto per la dottrina di quelli che l’esercitano, traggono la loro bellezza non dalla conclusione, che è cosa di tutti i giorni e che è comune a ogni giudice, ma piuttosto dalla discussione e dal dibattito dei diversi e contrari ragionamenti che comporta la materia del diritto. E il maggior campo alle critiche che i filosofi si muovono reciprocamente è dato dalle contraddizioni e diversità nelle quali ciascuno di essi va ad impelagarsi, o di proposito, per mostrare l’incertezza dello spirito umano su qualsivoglia soggetto, o costrettovi senza rendersene conto dalla mutevolezza e dall’incomprensibilità di ogni materia. [A] Ciò che significa questo ritornello:222 «In un punto sdrucciolevole e in pendio teniamo sospesa la nostra fede, infatti, come dice Euripide,
Les œuvres de Dieu en diverses
Façons nous donnent des traverses»,I
[B] simile a quello che Empedocle spesso disseminava nei suoi libri,223 come agitato da un divino furore e spinto dalla forza della verità: «No, no, noi non sentiamo nulla, non vediamo nulla, tutte le cose ci sono occulte, non ce n’è alcuna di cui possiamo dire con sicurezza che cosa sia». [C] Che corrisponde a quelle parole divine: Cogitationes mortalium timidæ, et incertæ adinventiones nostræ et providentiæ.II 224 [A] Non bisogna trovar strano se persone che disperavano di raggiungere la preda non hanno cessato di prender piacere alla caccia: poiché lo studio è di per sé un’occupazione piacevole. E così piacevole che, fra i piaceri, gli stoici vietano anche quello che viene dall’esercizio dello spirito, vogliono che sia frenato, [C] e considerano intemperanza il saper troppo. [A] Democrito, avendo mangiato a tavola dei fichi che sapevano di miele, cominciò subito a cercare fra sé da dove venisse loro quella dolcezza inconsueta, e per chiarirsene stava per alzarsi da tavola per vedere la posizione del luogo in cui quei fichi erano stati colti; la sua cameriera, udita la causa di quel movimento, gli disse ridendo che non si affannasse per questo, poiché era lei che li aveva messi in un vaso dove c’era stato del miele. Lui se ne indispettì, perché essa gli aveva tolto la ragione di quella ricerca e aveva sottratto argomento alla sua curiosità: «Va’», le disse «mi hai fatto dispiacere; non lascerò tuttavia di cercarne la causa, come se fosse naturale».225 [C] E probabilmente non mancò di trovare qualche ragione vera di un effetto falso e immaginario. [A] Questa storia di un famoso e grande filosofo ci rappresenta assai chiaramente quella passione di studio che ci trae a indagar cose che disperiamo di arrivare a conoscere. Plutarco racconta un esempio simile, di un tale che non voleva gli si chiarisse ciò di cui dubitava per non perdere il piacere di cercarlo; come quell’altro che non voleva che il medico gli togliesse l’alterazione della febbre per non perdere il piacere di calmarla bevendo. [C] Satius est supervacua discere quam nihil.I 226 Così come in ogni cibo c’è spesso il piacere solo; e tutto quello che prendiamo di gustoso non sempre è nutriente o sano. Così, quello che il nostro spirito trae dalla scienza non cessa di essere piacevole, benché non sia né nutriente né salutare. [B] Ecco quello che dicono:227 «Lo studio della natura è un pascolo adatto ai nostri spiriti, ci innalza e ci dilata, ci fa disdegnare le cose basse e terrene attraverso il confronto con quelle superiori e celesti; la stessa ricerca delle cose occulte e grandi è oltremodo piacevole, anche per colui che ne trae solo rispetto e timore di giudicarne». Sono parole della loro professione. La vana immagine di questa curiosità malsana si vede ancor più chiaramente in quest’altro esempio che essi hanno così spesso in bocca per farsene onore. Eudosso sperava e pregava gli dèi di poter vedere una volta il sole da vicino,228 comprendere la sua forma, la sua grandezza e la sua bellezza, a costo di esserne bruciato all’istante. Costui vuole, a prezzo della vita, acquistare una scienza il cui uso e possesso gli sia insieme tolto. E per questa rapida e fugace conoscenza, perdere tutte le altre conoscenze che ha e che può acquistare in seguito.
[A] Io non riesco facilmente a persuadermi che Epicuro, Platone e Pitagora ci abbiano dato per denaro contante i loro atomi, le loro idee e i loro numeri. Erano troppo saggi per stabilire i loro articoli di fede su una cosa tanto incerta e tanto discutibile. Ma in questa oscurità e ignoranza del mondo, ognuno di questi grandi personaggi si è affaticato a portare una qualche parvenza di luce; e hanno condotto la loro anima a invenzioni che avessero almeno una apparenza piacevole e ingegnosa, [C] purché, per quanto falsa, essa potesse sostenersi contro le obiezioni contrarie: unicuique ista pro ingenio finguntur, non ex scientiæ vi.I 229 [A] Un antico al quale si rimproverava di far professione di filosofia, mentre nel suo intimo non ne faceva gran conto, rispose che questo era veramente filosofare.230 Hanno voluto considerare tutto, soppesare tutto, e hanno trovato quest’occupazione confacente alla curiosità naturale che è in noi. Alcune cose le hanno scritte per utilità della società, come le loro religioni; ed è stato ragionevole, per questa considerazione, che non abbiano voluto esaminare troppo per il sottile le opinioni comuni, per non ingenerare turbamento nell’obbedienza alle leggi e agli usi del loro paese. [C] Platone tratta questo mistero con sufficiente chiarezza. Infatti, quando scrive secondo il proprio pensiero, non afferma nulla con certezza. Quando fa il legislatore, prende uno stile risoluto e asseverativo, e tuttavia vi mescola arditamente le sue idee più fantastiche, utili per persuadere il volgo quanto ridicole per persuadere se stesso: sapendo quanto siamo pronti a ricevere ogni specie d’impressioni, le più bislacche e stravaganti soprattutto. E per questo, nelle sue leggi,231 si preoccupa molto che in pubblico si cantino solo poesie le cui favolose finzioni tendano a qualche fine utile; e poiché è così facile imprimere qualsivoglia fantasma nello spirito umano, è ingiusto non pascerlo di menzogne profittevoli piuttosto che di menzogne o inutili o dannose. Egli dice con impudenza nella Repubblica232 che, per il bene degli uomini, è spesso necessario abbindolarli. È facile vedere che alcune sette hanno seguito piuttosto la verità, altre l’utilità, per cui queste ultime hanno acquistato credito. È la miseria della nostra condizione, che spesso quello che si presenta come più vero alla nostra immaginazione, non le si presenti come più utile alla nostra vita. Le sette più ardite, l’epicurea, la pirroniana, la nuova Accademia, sono anch’esse costrette, in fin dei conti, a piegarsi alla legge civile. [A] Ci sono altri argomenti che essi hanno passato allo staccio, chi a destra, chi a sinistra, ognuno affaticandosi a prestar loro qualche apparenza, a torto o a ragione. Di fatto, non avendo trovato nulla di così oscuro di cui non abbiano voluto parlare, sono spesso costretti a fabbricare congetture deboli e folli: non per prenderle essi stessi a fondamento, né per stabilire qualche verità, ma per esercitarsi nella loro indagine. [C] Non tam id sensisse quod dicerent, quam exercere ingenia materiæ difficultate videntur voluisse.I 233
[A] E se non l’intendessimo in questo senso, come giustificheremmo una tale incostanza, varietà e vanità di opinioni che vediamo esser state prodotte da quegli animi rari e mirabili? Perché, ad esempio, che cosa c’è di più vano di voler comprendere Dio per mezzo delle nostre analogie e congetture, e regolare lui e il mondo secondo le nostre capacità e le nostre leggi? E servirci a spese della divinità di quel piccolo scampolo d’intelligenza che a lui è piaciuto concedere alla nostra condizione naturale? E non potendo far giungere la nostra vista fino al suo trono glorioso, averlo ricondotto qui in basso al livello della nostra corruzione e delle nostre miserie? Di tutte le opinioni umane e antiche riguardo alla religione, mi sembra esser stata più verosimile e giustificabile quella che riconosceva Dio come una potenza incomprensibile, origine e conservatrice di tutte le cose, tutta bontà, tutta perfezione, che riceveva e accoglieva benevolmente l’onore e la venerazione che gli umani le rendevano sotto qualsiasi forma, sotto qualsiasi nome e in qualsiasi maniera che fosse.
[C]Jupiter omnipotens rerum, regumque deumque
Dovunque questo zelo è stato visto di buon occhio dal cielo. Tutti i governi hanno tratto frutto dalla loro devozione: gli uomini, le azioni empie hanno avuto dovunque effetti appropriati. Le storie pagane mostrano la dignità, l’ordine, la giustizia e i prodigi e gli oracoli impiegati a loro profitto e insegnamento nelle loro religioni favolose: poiché forse Dio, per la sua misericordia, si degnava di rinvigorire con questi benefici temporali i teneri germogli di una tal quale rozza cognizione che la ragione naturale ci ha dato di lui, attraverso le false immagini delle nostre fantasie. Non soltanto false, ma anche empie e ingiuriose sono quelle che l’uomo ha foggiato di propria invenzione. [A] E fra tutte le religioni che san Paolo trovò in onore ad Atene, quella che avevano dedicato a una divinità occulta e sconosciuta gli sembrò la più scusabile.235 [C] Pitagora si avvicinò di più alla verità, ritenendo che la cognizione di questa causa prima ed essere degli esseri doveva restare indefinita, non determinata, non dichiarata. Che non era altro che l’estremo sforzo della nostra immaginazione verso la perfezione, ciascuno ampliandone l’idea secondo le proprie capacità. Ma se Numa intraprese236 di conformare a questo disegno la devozione del suo popolo, volgendolo a una religione puramente mentale, senza oggetto prefisso e senza mescolanza materiale, intraprese cosa di nessuna utilità. Lo spirito umano non potrebbe resistere vagando in questo infinito di pensieri informi: bisogna formularglieli in un’immagine certa secondo la sua misura. Così per noi la maestà divina si è lasciata in qualche modo circoscrivere nei limiti corporei: i suoi sacramenti soprannaturali e celesti portano segni della nostra condizione terrestre; l’adorazione di lei si manifesta con uffici e parole sensibili; poiché è l’uomo che crede e che prega. Tralascio gli altri argomenti di cui ci si serve a questo proposito. Ma a stento mi si farebbe credere che la vista dei nostri crocifissi e le rappresentazioni di quel pietoso supplizio, gli ornamenti e i riti cerimoniosi delle nostre chiese, le parole appropriate alla devozione del nostro pensiero e quell’emozione dei sensi non riscaldino l’anima dei popoli di un sentimento religioso di grandissima utilità.
[A] Fra quelle alle quali si è dato un corpo, secondo che la necessità lo ha richiesto, in mezzo a questa universale cecità, mi sarei più volentieri unito, mi sembra, a quelli che adoravano il sole,
la lumière commune,
L’œil du monde: et si Dieu au chef porte des yeux,
Les rayons du Soleil sont ses yeux radieux:
Qui donnent vie à tous, nous maintiennent et gardent,
Et les faits des humains en ce monde regardent:
Ce beau, ce grand Soleil qui nous fait les saisons,
Selon qu’il entre ou sort de ses douze maisons.
Qui remplit l’univers de ses vertus connues:
Qui d’un trait de ses yeux nous dissipe les nues:
L’esprit, l’âme du monde, ardent et flamboyant,
En la course d’un jour tout le Ciel tournoyant,
Plein d’immense grandeur, rond, vagabond et ferme:
Lequel tient dessous lui tout le monde pour terme
En repos sans repos, oisif et sans séjour,
Fils aîné de nature, et le père du jour.I 237
Tanto più che, oltre a questa sua grandezza e beltà, è la parte di questa macchina che riscontriamo più lontana da noi e per questa ragione tanto poco conosciuta che erano giustificabili di esser portati ad ammirarla e riverirla. [C] Talete, che per primo indagò quest’argomento,238 ritenne Dio uno spirito che avesse tratto dall’acqua tutte le cose; Anassimandro, che gli dèi morissero e nascessero in diverse stagioni, e che fossero mondi di numero infinito; Anassimene, che l’aria fosse Dio, che fosse creato e immenso, sempre in movimento; Anassagora per primo ha ritenuto che la figura e la forma di tutte le cose fosse governata dalla forza e dalla ragione di uno spirito infinito. Alcmeone ha attribuito la divinità al sole, alla luna, agli astri e all’anima. Pitagora ha fatto di Dio uno spirito diffuso nella natura di tutte le cose, da cui si sono distaccate le nostre anime. Parmenide, un cerchio che recinge il cielo e conserva il mondo col calore della luce. Empedocle diceva che erano dèi i quattro elementi dei quali sono fatte tutte le cose. Protagora non sapeva dire se essi esistessero o no, o che cosa fossero. Democrito, ora che sono dèi le costellazioni e i loro movimenti circolari, ora questa natura che produce queste costellazioni, e poi la nostra scienza e intelligenza. Platone sfuma la sua opinione in diversi aspetti. Dice nel Timeo che il padre del mondo non si può nominare; nelle Leggi, che non bisogna indagare la sua essenza; e altrove, in questi stessi libri, fa dèi il mondo, il cielo, gli astri, la terra e le nostre anime, e ammette inoltre quelli che sono stati ammessi dall’antica legge in ogni Stato. Senofonte riferisce una confusione simile nella dottrina di Socrate: ora che non bisogna indagare la forma di Dio, e poi gli fa affermare che il sole è Dio, e l’anima Dio; che ce n’è uno solo, e poi che ce ne sono diversi. Speusippo, nipote di Platone, dice che è Dio una certa forza che governa le cose, e che è animata. Aristotele, ora che è lo spirito, ora il mondo, ora dà un altro padrone a questo mondo e ora fa Dio l’ardore del cielo. Senocrate ne stabilisce otto: i cinque che sono nominati fra i pianeti, il sesto composto di tutte le stelle fisse come sue membra, il settimo e l’ottavo, il sole e la luna. Eraclide Pontico non fa che vagare fra vari pareri, e infine priva Dio di sentimento e lo fa mutevole da una forma all’altra, e poi dice che è il cielo e la terra. Teofrasto erra con uguale indecisione fra tutte le sue fantasie, attribuendo il governo del mondo ora all’intelligenza, ora al cielo, ora alle stelle. Stratone dice che è la natura che ha la forza di generare, accrescere e diminuire, senza forma e sentimento. Zenone, la legge naturale, che comanda il bene e vieta il male, la quale legge è un essere animato: ed elimina gli dèi consueti, Giove, Giunone, Vesta. Diogene di Apollonia, che è l’aria.239 Senofane fa Dio rotondo, che vede e ode, che non respira e non ha niente in comune con la natura umana. Aristone giudica incomprensibile la forma di Dio, lo priva di senso e ignora se sia un essere animato o altro. Cleante dice ora che è la ragione, ora il mondo, ora l’anima della natura, ora il calore supremo che circonda e avviluppa tutto. Perseo, scolaro di Zenone, ha ritenuto che siano stati chiamati dèi quelli che avevano arrecato qualche notevole vantaggio alla vita umana, e le stesse cose utili. Crisippo faceva un ammasso confuso di tutte le precedenti definizioni e, fra mille forme di dèi che annovera, mette anche gli uomini che son stati resi immortali. Diagora e Teodoro negavano senz’altro che ci fossero degli dèi. Epicuro fa gli dèi lucenti, trasparenti e permeabili all’aria, collocati fra due mondi come fra due rocche, al riparo dai colpi, rivestiti di sembianze umane e delle nostre membra, membra che non sono loro di alcuna utilità.
Ego deum genus esse semper duxi, et dicam cælitum;
Sed eos non curare opinor, quid agat humanum genus.I 240
Fidatevi della vostra filosofia, vantatevi di aver trovato il nocciolo della questione, a vedere questo bailamme di tanti cervelli filosofici! La confusione delle usanze del mondo ha causato questo in me, che i costumi e le idee diverse dalle mie non mi dispiacciono tanto quanto mi istruiscono; non mi inorgogliscono tanto quanto mi umiliano nel confronto; e ogni altra scelta, eccetto quella che viene dalla mano stessa di Dio, mi sembra una scelta di poco conto. Lascio da parte i modi di vita strani e contro natura. I governi del mondo non sono meno contrastanti delle scuole a questo proposito: per cui possiamo imparare che la fortuna stessa non è più diversa e variabile della nostra ragione, né più cieca e sconsiderata.
[A] Le cose più ignorate si prestano più delle altre ad essere deificate. Perciò fare di noi degli dèi, come ha fatto l’antichità, supera l’estrema debolezza della ragione. Avrei seguito piuttosto quelli che adoravano il serpente, il cane e il bue: poiché la loro natura e il loro essere ci sono meno conosciuti, e ci è più facile immaginare di quelle bestie ciò che ci piace, e attribuir loro facoltà straordinarie. Ma aver fabbricato degli dèi sul nostro modello, del quale dobbiamo conoscere l’imperfezione, aver loro attribuito il desiderio, la collera, le vendette, i matrimoni, le generazioni e le parentele, l’amore e la gelosia, le nostre membra e le nostre ossa, le nostre brame e i nostri piaceri, le nostre morti, le nostre sepolture, bisogna che ciò sia stato prodotto da una straordinaria ubriachezza dell’intelletto umano,
[B]Quæ procul usque adeo divino ab numine distant,
Inque Deum numero quæ sint indigna videri.I 241
[C] Formæ, ætates, vestitus, ornatus noti sunt: genera, coniugia, cognationes omniaque traducta ad similitudinem imbecillitatis humanæ: nam et perturbatis animis inducuntur; accipimus enim deorum cupiditates, ægritudines, iracundias.II 242 [A] Così l’avere attribuito la divinità [C] non soltanto alla fede, alla virtù, all’onore, concordia, libertà, vittoria, pietà; ma anche alla voluttà, frode, morte, invidia, vecchiaia, miseria; [A] alla paura, alla febbre e alla mala sorte, e ad altri malanni della nostra vita fragile e caduca:
[B]Quid iuvat hoc, templis nostros inducere mores?
O curvæ in terris animæ et cælestium inanes!III 243
[C] Gli Egizi, con impudente prudenza, proibivano sotto pena della forca di dire che Serapide ed Iside, loro dèi, fossero stati un tempo uomini; e nessuno ignorava che lo fossero stati. E la loro effigie, raffigurata col dito sulla bocca, significava, dice Varrone,244 quell’ordine misterioso dato ai loro sacerdoti di tacere la loro origine mortale, come quella che per ragione necessaria avrebbe annullato ogni venerazione per loro.
[A] Poiché l’uomo desiderava tanto uguagliarsi a Dio, avrebbe fatto meglio, dice Cicerone, a riferire a sé le condizioni divine e trarle quaggiù, che a mandare lassù la sua corruzione e la sua miseria; ma a ben intenderlo, ha fatto in vari modi e l’una e l’altra cosa, con uguale vanità d’opinione. Quando i filosofi arzigogolano sulla gerarchia dei loro dèi, e si affannano a distinguere le loro parentele, i loro compiti e il loro potere, non posso credere che parlino sul serio. Quando Platone ci descrive245 minutamente il giardino di Plutone, e le delizie o le pene corporali che ci attendono ancora dopo la rovina e l’annientamento dei nostri corpi, e le adatta alle sensazioni che abbiamo in questa vita,
Secreti celant colles, et myrtea circum
Sylva tegit; curæ non ipsa in morte relinquunt,I 246
quando Maometto promette ai suoi un paradiso pavesato di tappeti, ornato d’oro e di gemme, popolato di ragazze di rara bellezza, di vini e di vivande squisite, vedo bene che sono burloni i quali secondano la nostra stoltezza per lusingarci e attrarci con queste credenze e speranze, confacenti al nostro desiderio mortale. [C] Eppure alcuni dei nostri sono caduti in un errore simile, ripromettendosi dopo la resurrezione una vita terrestre e temporale, accompagnata da ogni sorta di piaceri e agi mondani. [A] Crediamo forse che Platone, lui che ebbe concezioni così celesti e una così grande familiarità con la divinità che gliene è rimasto il soprannome, abbia ritenuto che l’uomo, questa povera creatura, avesse in sé qualcosa di confacente a quell’incomprensibile potenza? E abbia creduto che i nostri debili intelletti fossero tanto capaci, e la forza dei nostri sensi tanto robusta da poter partecipare alla beatitudine o alla pena eterna? Bisognerebbe dirgli da parte della ragione umana: se i piaceri che ci prometti nell’altra vita sono di quelli che ho provato quaggiù, non hanno niente di comune con l’infinità. Quand’anche tutti i miei cinque sensi naturali fossero colmi di letizia, e quest’anima traboccante di tutta la contentezza che può desiderare e sperare, sappiamo quello che essa può: questo non sarebbe ancora nulla. Se c’è qualcosa del mio, non c’è niente di divino. Se questo non è altro che ciò che può appartenere a questa nostra presente condizione, non può esser messo in conto. [C] Ogni contentezza dei mortali è mortale. [A] Se ritrovare i nostri genitori, i nostri figli e i nostri amici può commuoverci e lusingarci nell’altro mondo, se teniamo ancora a tale piacere, siamo ancora in mezzo ai beni terrestri e finiti. Non possiamo degnamente concepire la grandezza di quelle alte e divine promesse, se pure possiamo in qualche modo concepirle: per immaginarle degnamente, bisogna immaginarle inimmaginabili, indicibili e incomprensibili, [C] e affatto diverse da quelle della nostra miserabile esperienza. [A] «Occhio non saprebbe vedere», dice san Paolo, «né cuore umano concepire la felicità che Dio ha preparato ai suoi».247 E se, per rendercene capaci, si riforma e si muta il nostro essere (come tu dici, Platone, con le tue purificazioni), questo deve avvenire con un cambiamento così assoluto e così totale che secondo la scienza fisica non saremo più noi,
[B]Hector erat tunc cum bello certabat; at ille,
Tractus ab Æmonio, non erat Hector, equo.I 248
[A] Sarà qualche altra cosa che riceverà quelle ricompense,
[B]quod mutatur, dissolvitur; interit ergo:
Traiiciuntur enim partes atque ordine migrant.II 249
[A] Di fatto, nella metempsicosi di Pitagora e nel cambiamento di dimora che egli immaginava per le anime, pensiamo forse che il leone nel quale si trova l’anima di Cesare sposi le passioni che agitavano Cesare, [C] e che sia lui? Se fosse ancora lui, avrebbero ragione quelli che, combattendo questa opinione contro Platone, gli rimproverano che il figlio potrebbe trovarsi a cavalcare sua madre rivestita d’un corpo di mula,250 e simili assurdità. E pensiamo forse [A] che nei mutamenti che si producono dei corpi degli animali in altri della stessa specie, i nuovi venuti non siano altri che i loro predecessori? Dalle ceneri di una fenice si genera, si dice, un verme, e poi un’altra fenice: questa seconda fenice, chi può pensare che non sia altra dalla prima? I vermi che fabbricano la seta, li vediamo come morire e disseccarsi, e da quello stesso corpo prodursi una farfalla, e di qui un altro verme, e sarebbe ridicolo pensare che fosse ancora il primo. Quello che una volta ha cessato di essere, non è più,
Nec si materiam nostram collegerit ætas
Post obitum, rursumque redegerit, ut sita nunc est,
Atque iterum nobis fuerint data lumina vitæ,
Pertineat quidquam tamen ad nos id quoque factum,
Interrupta semel cum sit repetentia nostra.I 251
E quando altrove tu dici, Platone,252 che sarà la parte spirituale dell’uomo a cui toccherà godere delle ricompense dell’altra vita, ci dici una cosa altrettanto poco verosimile,
[B]Scilicet, avolsis radicibus, ut nequit ullam
Dispicere ipse oculus rem, seorsum corpore toto.II 253
[A] Poiché, a questo riguardo, non sarà più l’uomo, né noi di conseguenza, al quale toccherà questo godimento: poiché siamo costituiti di due parti principali essenziali, la separazione delle quali è la morte e la rovina del nostro essere,
[B]Inter enim iacta est vitai pausa, vageque
Deerrarunt passim motus ab sensibus omnes.III 254
[A] Non diciamo che l’uomo soffre quando i vermi gli rodono le membra delle quali viveva e la terra le consuma,
Et nihil hoc ad nos, qui coitu coniugioque
Corporis atque animæ consistimus uniter apti.IV 255
Inoltre, su qual fondamento della loro giustizia gli dèi possono riconoscere e ricompensare nell’uomo, dopo la morte, le azioni buone e virtuose, dato che sono essi stessi che le hanno indotte e prodotte in lui? E perché si offendono e vendicano su di lui quelle viziose, dato che essi stessi lo hanno creato in tale condizione difettosa, e con un solo cenno della loro volontà possono impedirgli di peccare? Epicuro non potrebbe forse opporre questo a Platone, con grande credibilità della ragione umana? [C] Se non si coprisse256 spesso con questa sentenza: che è impossibile stabilire alcunché di certo della natura immortale per mezzo di quella mortale. [A] Essa non fa che forviare ovunque, ma specialmente quando si immischia delle cose divine. Chi lo sente con maggiore evidenza di noi? Infatti, benché le abbiamo dato dei principi sicuri e infallibili, benché illuminiamo i suoi passi con la santa lampada della verità che a Dio è piaciuto comunicarci, tuttavia vediamo ogni giorno come, per poco che essa si discosti dal sentiero abituale e si distolga o si allontani dalla via tracciata e battuta dalla Chiesa, immediatamente si perda, s’intrichi e s’impelaghi, vagando e fluttuando in quel mare vasto, turbolento e ondeggiante delle opinioni umane, senza guida e senza scopo. Appena lascia quel cammino largo e comune va smarrendosi e sperdendosi per mille strade diverse. L’uomo non può essere che ciò che è, e immaginare solo secondo la sua portata. [B] «C’è maggior presunzione» dice Plutarco «in coloro i quali, non essendo che uomini, si mettono a parlare e a discorrere degli dèi e dei semidèi, di quanta ve ne sia in un uomo ignorante di musica che voglia giudicare di coloro che cantano; o in un uomo che non sia mai stato sul campo il quale voglia discutere delle armi e della guerra, presumendo di comprendere per qualche superficiale congettura gli effetti di un’arte di cui non ha cognizione».257
[A] L’antichità pensò, credo, di favorire in qualche modo la grandezza divina uguagliandola all’uomo, vestendola delle sue facoltà e regalandole i suoi begli umori e le sue più vergognose necessità [B]: offrendole i nostri cibi da mangiare, le nostre danze, buffonate e farse per divertirla, le nostre vesti per coprirsi e le case per abitarvi, lusingandola con l’odore degli incensi e i suoni della musica, ghirlande e mazzi di fiori [C]. E per adeguarla alle nostre passioni viziose, adulando la sua giustizia con una vendetta inumana, rallegrandola con la rovina e la distruzione delle cose da lei create e conservate: come Tiberio Sempronio che fece bruciare in sacrificio a Vulcano le ricche spoglie e armi che aveva conquistato ai nemici in Sardegna; e Paolo Emilio quelle di Macedonia a Marte e a Minerva;258 e Alessandro, arrivato all’Oceano Indiano, gettò in mare in onore di Teti molti grandi vasi d’oro. Riempiendo inoltre i suoi altari di una carneficina non solo di bestie innocenti, ma anche di uomini,259 [A] come parecchi popoli, e fra gli altri il nostro, usavano fare abitualmente. E credo che non ve ne sia alcuno che non ne abbia fatto la prova,
[B]Sulmone creatos
Quattuor hic iuvenes, totidem quos educat Ufens,
Viventes rapit, inferias quos immolet umbris.I 260
[C] I Geti261 si ritengono immortali, e il loro morire non è che incamminarsi verso il loro dio Zamolxi. Ogni cinque anni gli inviano qualcuno dei loro per chiedergli le cose necessarie. Questo delegato è scelto a sorte. E il modo con cui lo spediscono, dopo averlo istruito a voce riguardo al suo incarico, è che, fra quelli che lo assistono, tre tengono ritte altrettante chiaverine sulle quali gli altri lo lanciano a forza di braccia. Se s’infilza in un punto mortale e resta sul colpo, è per loro una prova sicura del favore divino; se la scampa, lo ritengono malvagio e miserabile, e ne delegano ancora un altro nella stessa maniera. Amestri, madre di Serse, diventata vecchia, fece seppellire vivi tutti in una volta quattordici giovinetti delle migliori famiglie di Persia, secondo la religione del paese, per propiziarsi qualche dio infero.262 Ancor oggi gli idoli di Temistitan vengono impastati col sangue dei fanciulli, e non gradiscono sacrifici se non di queste anime infantili e pure: giustizia affamata del sangue dell’innocenza,
Tantum religio potuit suadere malorum.II 263
[B] I Cartaginesi immolavano i propri figli a Saturno, e chi non ne aveva ne comprava, essendo tuttavia il padre e la madre tenuti ad assistere a questo uffizio con contegno gaio e contento.264 [A] Era una strana fantasia quella di voler pagare la bontà divina con la nostra afflizione. Come gli Spartani, che blandivano la loro Diana col martirio dei ragazzi che facevano fustigare in suo onore, spesso fino alla morte.265 Era uno strano capriccio voler riuscir graditi all’architetto con la distruzione della sua costruzione. E voler salvare i colpevoli dalla pena loro dovuta con la punizione dei non colpevoli. E che la povera Ifigenia, nel porto di Aulide, con la sua morte e il suo sacrificio, scagionasse di fronte a Dio l’esercito dei Greci delle colpe che avevano commesso:
[B]Et casta inceste, nubendi tempore in ipso,
Hostia concideret mactatu mæsta parentis,III 266
[C] e che quelle due belle e generose anime dei due Deci, padre e figlio, andassero a gettarsi a corpo morto nel più fitto dei nemici per propiziare il favore degli dèi agli affari dei Romani: Quæ fuit tanta deorum iniquitas, ut placari populo Romano non possent, nisi tales viri occidissent!I 267 [A] Si aggiunga che non sta al criminale farsi frustare secondo la sua volontà e il suo beneplacito: sta al giudice [B], che mette in conto di castigo solo la pena che prescrive [C] e non può considerare punizione ciò che torna gradito a colui che lo soffre. La vendetta divina presuppone il nostro totale dissenso, sulla sua giustizia e sulla nostra pena. [B] E fu ridicolo il capriccio di Policrate, tiranno di Samo, il quale, per interrompere il corso della sua continua prosperità e controbilanciarla, andò a gettare in mare il più caro e prezioso gioiello che avesse, ritenendo con questa disgrazia simulata di soddisfare al rivolgimento e alla vicenda della fortuna [C]; ed essa, per burlarsi della sua stoltezza, fece sì che gli tornasse fra le mani quel medesimo gioiello, trovato nel ventre d’un pesce.268 E poi, a che pro le lacerazioni e mutilazioni dei Coribanti, delle Menadi e, ai nostri tempi, dei Maomettani che si sfregiano il viso, il seno, le membra per ingraziarsi il loro profeta, dato che [A] l’offesa consiste nella volontà, non nel petto, negli occhi, nei genitali, nelle rotondità, nelle spalle e nella gola [C]: Tantus est perturbatæ mentis et sedibus suis pulsæ furor, ut sic Dii placentur, quemadmodum ne homines quidem sæviunt.II 269 Questa struttura naturale riguarda, quanto al suo uso, non soltanto noi, ma anche il servizio di Dio e degli altri uomini: è ingiusto ferirla di nostra volontà, come ucciderci per qualsiasi pretesto. Sembra che sia grande vigliaccheria e tradimento violentare e corrompere le funzioni del corpo, stupide e serve, per risparmiare all’anima la cura di guidarle secondo ragione. Ubi iratos deos timent, qui sic propitios habere merentur? In regiæ libidinis voluptatem castrati sunt quidam; sed nemo sibi, ne vir esset, iubente domino, manus intulit.III 270 [A] Così essi riempivano la loro religione di parecchie cattive azioni,
sæpius olim
Relligio peperit scelerosa atque impia facta.IV 271
Ora, niente del nostro si può accostare o riferire in alcun modo alla natura divina, senza macchiarla e segnarla di altrettanta imperfezione. Come può quella infinita bellezza, potenza e bontà sopportare qualche paragone e similitudine con una cosa tanto abietta come noi siamo, senza un estremo danno e avvilimento della sua divina grandezza? [C] Infirmum dei fortius est hominibus, et stultum dei sapientius est hominibus.I 272 Il filosofo Stilpone, richiestogli se gli dèi si rallegrino dei nostri onori e sacrifici: «Siete indiscreto», rispose «tiriamoci in disparte, se volete parlare di questo».273 [A] Tuttavia noi gli prescriviamo dei limiti, teniamo la sua potenza assediata dalle nostre ragioni (chiamo ragione le nostre fantasie e le nostre immaginazioni, col permesso della filosofia, che dice che anche il folle e il malvagio impazziscono per ragione, ma che è una ragione di forma particolare); vogliamo asservirlo alle apparenze vane e deboli del nostro intelletto, lui che ha fatto e noi e la nostra conoscenza. Dal momento che nulla si trae dal nulla, Dio non avrà potuto costruire il mondo senza materia. Come! Dio ci ha forse messo in mano le chiavi e le molle più riposte della sua potenza? Si è obbligato a non oltrepassare i limiti della nostra scienza? Poni il caso, o uomo, che tu abbia potuto notare quaggiù qualche traccia del suo operato: credi tu che egli vi abbia impiegato tutto ciò che ha potuto e che abbia messo tutte le sue forme e tutte le sue idee in quest’opera? Tu non vedi che l’ordine e il governo di questa piccola cantina in cui sei alloggiato, se pure lo vedi: la sua divinità ha una giurisdizione infinita al di là; questo frammento non è niente a paragone del tutto:
omnia cum cælo terraque marique
Nil sunt ad summam summai totius omnem:II 274
è una legge municipale quella che alleghi, non sai qual è l’universale. Vincola te stesso a quello a cui sei soggetto, ma non lui: non è tuo confratello o concittadino o compagno; se si è in qualche modo comunicato a te, non è per abbassarsi alla tua piccolezza, né per darti il controllo del suo potere. Il corpo umano non può volare sulle nuvole, è per te; il sole corre senza sosta la sua corsa abituale; i confini dei mari e della terra non possono confondersi; l’acqua è instabile e senza solidità; un muro senza fenditure è impenetrabile a un corpo solido; l’uomo non può conservarsi in vita fra le fiamme; non può essere e in cielo e in terra e in mille luoghi a un tempo col suo corpo. È per te che egli ha fatto queste regole: è te che esse riguardano. Ha dimostrato ai cristiani che le ha tutte oltrepassate quando gli è piaciuto. Invero, perché, onnipotente com’è, avrebbe limitato le sue forze a una misura determinata? In favore di chi avrebbe rinunciato al suo privilegio? La tua ragione non ha in nessun’altra cosa maggior verosimiglianza e fondamento che in questo, che ti convince della pluralità dei mondi,
[B]Terramque, et solem, lunam, mare, cætera quæ sunt
Non esse unica, sed numero magis innumerali.I 275
[A] I più famosi ingegni del tempo passato l’hanno creduto, e anche alcuni dei nostri, spinti dall’evidenza della ragione umana. Poiché in questa fabbrica che vediamo non c’è niente di solo ed unico,
[B]cum in summa res nulla sit una,
Unica quæ gignatur, et unica solaque crescat,II 276
[A] e tutte le specie sono moltiplicate in qualche numero: per cui non sembra essere verosimile che Dio abbia fatto quest’unica opera senza compagna, e che la materia di questa forma sia stata tutta esaurita in questo solo individuo:
[B]Quare etiam atque etiam tales fateare necesse est
Esse alios alibi congressus materiai,
Qualis hic est avido complexu quem tenet ætherIII 277
[A] specialmente se è un essere animato, come i suoi movimenti lo rendono credibile, a tal punto [C] che Platone lo assicura e parecchi dei nostri o lo confermano o non osano infirmarlo.278 Non diversamente da quell’antica opinione: che il cielo, le stelle e altre parti del mondo sono creature composte di corpo ed anima, mortali per quanto riguarda la loro composizione, ma immortali per decreto del creatore. [A] Ora, se vi sono più mondi, come Democrito, Epicuro e quasi tutta la filosofia ha pensato, che cosa ne sappiamo noi se i principi e le regole di questo riguardano ugualmente gli altri? Essi hanno forse un altro aspetto e un altro ordinamento. [C] Epicuro li immagina o simili o dissimili.279 [A] Noi vediamo in questo mondo un’infinita differenza e varietà per la sola distanza dei luoghi. Né il grano né il vino né alcuno dei nostri animali si vedono in quelle nuove terre che i nostri padri hanno scoperto: tutto vi è diverso. [C] E nel tempo passato, guardate in quante parti del mondo non si aveva conoscenza né di Bacco né di Cerere. [A] Se si vuol prestar fede a Plinio e a Erodoto,280 vi sono in certi luoghi alcune specie di uomini che hanno pochissima rassomiglianza con la nostra. [B] E vi sono forme meticce e ambigue fra la natura umana e quella delle bestie. Vi sono contrade dove gli uomini nascono senza testa, con gli occhi e la bocca sul petto; dove sono tutti androgini; dove camminano a quattro zampe; dove hanno un solo occhio in fronte e la testa più simile a quella d’un cane che alla nostra; dove sono mezzi pesci nella parte inferiore e vivono nell’acqua; dove le donne partoriscono a cinque anni e non ne vivono che otto; dove hanno la testa e la pelle della fronte così dura che il ferro non può intaccarla e vi si spunta contro; dove gli uomini sono senza barba; [C] dei popoli senza l’uso e la conoscenza del fuoco; altri che emettono lo sperma di color nero. [B] E che dire di quelli che naturalmente si trasformano in lupi, in giumenti e poi di nuovo in uomini? E [A] se è così come dice Plutarco, che in qualche parte delle Indie ci sono uomini senza bocca, che si nutrono degli effluvi di certi odori, quante nostre descrizioni sono false? L’uomo non è più un animale capace di ridere né forse capace di ragionare e di vivere in società.281 L’ordine e la causa della nostra costruzione interna sarebbero, per la maggior parte, fuor di luogo. Inoltre, quante cose vi sono a nostra conoscenza che contraddicono quelle belle regole che abbiamo ritagliato e prescritto alla natura? E pretendiamo di assoggettarvi Dio stesso! Quante cose noi chiamiamo miracolose e contro natura? [C] Questo si fa da ogni uomo e da ogni popolo secondo la misura della sua ignoranza. [A] Quante proprietà occulte e quintessenze troviamo? Infatti per noi andare secondo natura non è altro che andare secondo la nostra intelligenza, per quanto essa può procedere e per quanto noi possiamo vedere: ciò che è al di là, è mostruoso e fuori dell’ordine. Ora, da questo punto di vista, per i più assennati e i più esperti tutto sarà dunque mostruoso: poiché l’umana ragione ha convinto costoro che non aveva né base né fondamento veruno; nemmeno per accertare [C] se la neve è bianca (e Anassagora diceva che era nera);282 se c’è qualche cosa, o se non c’è niente; se c’è scienza o ignoranza (Metrodoro di Chio negava che l’uomo potesse dirlo). [A] O se noi viviamo: infatti Euripide è in dubbio se la vita che viviamo sia vita, o se sia vita quello che chiamiamo morte:
Τίς δ᾿οἴδεν εἰ ζῆν τοῦθ᾿ὅ κέκληται θανεῖν
[B] E non senza apparenza di ragione: infatti, perché prendiamo a giustificazione del nostro esistere quell’istante che non è che un lampo nel corso infinito d’una notte eterna, e un’interruzione così breve della nostra perpetua e naturale condizione [C], mentre la morte occupa tutto il prima e il dopo di questo momento, e anche una buona parte di questo momento? [B] Altri giurano che non vi è movimento, che niente si sposta. [C] Come i seguaci di Melisso: infatti, se non esiste che l’uno, né il movimento sferico né il movimento da un luogo all’altro gli può servire, come dimostra Platone.284 [B] Che in natura non c’è né generazione né corruzione. [C] Protagora dice che non c’è niente in natura se non il dubbio. Che si può ugualmente discutere di tutte le cose. Ed anche di questo, se si possa ugualmente discutere di tutte le cose. Nausifane, che delle cose che appaiono, niente esiste più che non esista. Che non vi è altra certezza che l’incertezza. Parmenide, che di ciò che appare, non esiste alcuna cosa in generale. Che non esiste che l’uno. Zenone, che nemmeno l’uno esiste. E che non c’è nulla. Se l’uno esistesse, sarebbe o in un altro o in se stesso. Se è in un altro, sono due. Se è in se stesso, sono ancora due, il contenente e il contenuto. Secondo questi dogmi la natura delle cose non è che un’ombra o falsa o vana.
[A] Mi è sempre sembrato che per un uomo cristiano questo modo di parlare sia pieno d’indiscrezione e d’irriverenza: «Dio non può morire, Dio non può contraddirsi, Dio non può fare questo o quello». Non trovo ben fatto rinchiudere così la potenza divina sotto le leggi della nostra parola. E l’evidenza che si offre a noi in queste proposizioni, bisognerebbe rappresentarla con maggior reverenza e religione. Il nostro linguaggio ha le sue debolezze e i suoi difetti, come tutto il resto. La maggior parte delle cause degli sconvolgimenti del mondo sono grammaticali. I nostri processi non nascono che dalla disputa sull’interpretazione delle leggi; e la maggior parte delle guerre, dall’impotenza di non aver saputo chiaramente enunciare le convenzioni e gli accordi tra i principi. Quante dispute, e quanto importanti, ha prodotto nel mondo il dubbio sul senso di questa sillaba: Hoc!285 [B] Prendiamo la frase che la logica stessa ci presenterà come la più chiara. Se dite: «Fa bel tempo», e dite la verità, fa dunque bel tempo. Non è questo un parlare esplicito? Eppure ci ingannerà. A riprova, teniamo dietro all’esempio. Se dite: «Io mento», e dite il vero, dunque mentite. L’arte, la ragione, la forza della conclusione di questa frase sono uguali all’altra, tuttavia eccoci impantanati. [A] Vedo i filosofi pirroniani che non possono esprimere la loro concezione generale in alcuna forma di parlare: poiché occorrerebbe loro un nuovo linguaggio. Il nostro è tutto formato di proposizioni affermative, che sono loro assolutamente invise. Sicché quando dicono: «Io dubito», li si prende subito alla gola per far loro riconoscere che almeno affermano e sanno questo, che dubitano.286 Così sono stati costretti a rifugiarsi in quest’altro paragone della medicina, senza il quale la loro posizione sarebbe inesplicabile: quando proferiscono «Io ignoro», o «Io dubito», dicono che questa proposizione se ne parte insieme al resto, né più né meno che il rabarbaro che spinge fuori gli umori cattivi ed esce fuori insieme con essi. [B] Questa fantasia è più chiaramente espressa in forma interrogativa: «Che cosa so?» come io l’ho posta per motto su una bilancia.287
[A] Guardate come si abusa di questo modo di parlare pieno d’irriverenza. Nelle dispute che si agitano attualmente nella nostra religione, se stringete troppo gli avversari, vi diranno apertamente che non è in potere di Dio fare che il suo corpo sia in paradiso e in terra e in molti luoghi nello stesso tempo. E quell’antico burlone,288 come ne approfitta! Almeno, dice, è una non lieve consolazione per l’uomo vedere che Dio non può ogni cosa: poiché non può uccidersi quando lo vorrebbe, che è il maggior vantaggio che abbiamo nella nostra condizione; non può fare immortali i mortali, né resuscitare i morti, né far sì che colui che ha vissuto non abbia vissuto, che colui che ha avuto degli onori non li abbia avuti, non avendo sul passato altro diritto che l’oblio. E perché questo accostamento dell’uomo a Dio si compia ancora con bizzarri esempi: non può fare che due volte dieci non siano venti. Ecco quello che dice, e che un cristiano dovrebbe evitare di farsi uscire di bocca. Laddove, al contrario, sembra che gli uomini ricerchino questa folle protervia di linguaggio, per ricondurre Dio alla loro misura,
cras vel atra
Nube polum pater occupato,
Vel sole puro; non tamen irritum
Quodcumque retro est, efficiet, neque
Diffinget infectumque reddet
Quod fugiens semel hora vexit.I 289
Quando diciamo che l’infinità dei secoli, così passati come a venire, non è che un istante al cospetto di Dio; che la sua bontà, sapienza, potenza sono una stessa cosa con la sua essenza, la nostra parola lo dice, ma il nostro intelletto non lo comprende. E tuttavia la nostra tracotanza vuol far passare la divinità al nostro staccio. E di qui nascono tutti i vaneggiamenti ed errori cui il mondo si trova in preda, riportando e pesando alla sua bilancia una cosa tanto lontana dal suo peso. [C] Mirum quo procedat improbitas cordis humani, parvulo aliquo invitata successu.II 290
Con quanta insolenza gli stoici291 rampognano Epicuro perché ritiene che l’essere veramente buono e felice non appartenga che a Dio e che l’uomo saggio non ne abbia che un’ombra e un’immagine! Con quanta temerità [A] hanno legato Dio al destino (a mio senno, che nessuno che abbia nome di cristiano lo faccia ancora),292 e Talete, Platone e Pitagora l’hanno asservito alla necessità! Questa protervia di voler scoprire Dio con i nostri occhi ha fatto sì che un grand’uomo fra i nostri293 abbia dato alla divinità una forma corporea. [B] Ed è cagione di ciò che ci accade ogni giorno, di attribuire a Dio gli avvenimenti più importanti, con un’assegnazione particolare. Poiché hanno peso per noi, sembra che abbiano peso anche per lui e che egli li consideri più a fondo e con maggior attenzione degli avvenimenti che sono per noi poco importanti o non escono dall’ordinario. [C] Magna dii curant, parva negligunt.III 294 Ascoltate il suo esempio, vi chiarirà la sua ragione: Nec in regnis quidem reges omnia minima curant.IV 295 Come se facesse differenza per lui agitare un impero o la foglia d’un albero, e come se la sua provvidenza intervenisse diversamente nel decidere l’esito d’una battaglia piuttosto che il salto d’una pulce. Il potere del suo governo si applica a tutte le cose in uguale maniera, con la stessa forza e la stessa regola; il nostro interesse non cambia niente; i nostri movimenti e le nostre misure non lo toccano. Deus ita artifex magnus in magnis, ut minor non sit in parvis.I 296 La nostra arroganza ci ripropone sempre questo sacrilego paragone. Poiché le nostre occupazioni ci pesano, Stratone ha gratificato gli dèi dell’immunità da ogni ufficio, come i loro sacerdoti. Egli fa produrre e conservare tutte le cose dalla natura, e mediante le misure e i movimenti di questa costruisce le parti del mondo, liberando la natura umana dal timore dei giudizi divini. Quod beatum æternumque sit, id nec habere negotii quicquam, nec exhibere alteri.II 297 La natura vuole che fra cose simili vi sia relazione simile. Dunque il numero infinito dei mortali presuppone un ugual numero d’immortali. Le infinite cose che uccidono e nuocciono ne presuppongono altrettante che conservino e giovino. Come le anime degli dèi, senza lingua, senza occhi, senza orecchi sentono tra di loro ognuna ciò che l’altra sente, e giudicano i nostri pensieri: così le anime degli uomini, quando sono libere e svincolate dal corpo per mezzo del sonno o di qualche estasi, indovinano, pronosticano e vedono cose che non potrebbero vedere quando sono unite ai corpi. [A] Gli uomini, dice san Paolo,298 sono divenuti folli pensando di essere saggi, e hanno cambiato la gloria di Dio incorruttibile nell’immagine dell’uomo corruttibile.
[B] Guardate un po’ quella pagliacciata delle antiche deificazioni. Dopo il grande e superbo rito del seppellimento, appena il fuoco raggiungeva l’alto della piramide e si appiccava al letto del defunto, nello stesso momento lasciavano libera un’aquila che, volando in alto, indicava che l’anima andava in paradiso. Abbiamo mille medaglie, e specialmente di quella onesta donna di Faustina,299 in cui quest’aquila è rappresentata mentre porta in groppa verso il cielo queste anime deificate. È una vergogna che ci lasciamo gabbare dalle nostre stesse fandonie e invenzioni,
come i bambini che si spaventano davanti alla faccia del loro compagno che hanno impiastricciato e tinto di nero. [C] Quasi quicquam infelicius sit homine cui sua figmenta dominantur.IV 301 Onorare chi ci ha fatti è ben diverso dall’onorare colui che noi abbiamo fatto. [B] Augusto ebbe più templi di Giove, officiati con altrettanta devozione e fede nei miracoli. I Tasi, in ricompensa dei benefici che avevano ricevuto da Agesilao, gli vennero a dire che lo avevano canonizzato: «Il vostro popolo» egli disse loro «ha questo potere di far dio chi gli piace? Fate dio, per prova, uno di voi, e poi, quando avrò visto come se ne sarà trovato, vi dirò grazie della vostra offerta».302 [C] L’uomo è davvero insensato. Non saprebbe fare un pidocchio, e fabbrica dèi a dozzine. Sentite Trismegisto303 che loda la nostra capacità: «Che l’uomo abbia potuto trovare la natura divina e fabbricarla è cosa che ha superato la meraviglia di tutte le cose meravigliose». [B] Ecco alcune argomentazioni della scuola stessa della filosofia,
Nosse cui Divos et cæli numina soli,
Se Dio è, è animato, se è animato è dotato di sensi, e se è dotato di sensi è soggetto a corruzione. Se è senza corpo, è senz’anima, e quindi senza azione; e se ha corpo, è soggetto a perire. Non è questo un bel trionfo? [C] Noi siamo incapaci d’aver fatto il mondo: c’è dunque qualche natura più eccellente che vi ha posto mano. Sarebbe una stolta arroganza stimarci la cosa più perfetta di quest’universo, c’è dunque qualcosa di migliore, e questo è Dio. Quando vedete una dimora ricca e fastosa, anche se non sapete chi ne è il padrone, non direte tuttavia che sia fatta per i topi. E questa divina struttura del palazzo celeste che noi vediamo, non dobbiamo credere che sia l’abitazione di qualche padrone più grande di noi? Il più alto non è forse sempre il più degno? E noi siamo posti in basso. Nulla, senz’anima e senza ragione, può produrre un essere animato capace di ragione. Il mondo ci produce, dunque ha anima e ragione. Ogni parte di noi è meno di noi. Noi siamo parte del mondo. Il mondo è dunque fornito di saggezza e di ragione, e più abbondantemente di quanto lo siamo noi. È una bella cosa possedere un grande governo. Il governo del mondo appartiene dunque a qualche natura felice. Gli astri non ci recano danno, dunque sono pieni di bontà. [B] Noi abbiamo bisogno di nutrimento, dunque ne hanno bisogno anche gli dèi, e si pascono dei vapori di quaggiù. [C] I beni del mondo305 non sono beni per Dio, dunque non sono beni per noi. Offendere ed essere offeso sono ugualmente prove di debolezza, è dunque follia temere Dio. Dio è buono per sua natura, l’uomo per sua industria, che è di più. La saggezza divina e l’umana non hanno altra distinzione se non che quella è eterna. Ora, la durata non aggiunge nulla alla saggezza: eccoci dunque compagni. [B] Noi abbiamo vita, ragione e libertà, apprezziamo la bontà, la carità e la giustizia, queste qualità sono dunque in lui. Insomma, il farla e disfarla, i caratteri della divinità sono foggiati dall’uomo, in relazione a se stesso. Che esempio e che modello! Stiriamo, innalziamo e ingrossiamo le qualità umane finché ci piacerà. Gonfiati, povero uomo, e ancora, e ancora, e ancora,
non, si te ruperis, inquit.I 306
[C] Profecto non Deum, quem cogitare non possunt, sed semetipsos pro illo cogitantes, non illum sed se ipsos non illi sed sibi comparant.II 307 [B] Nelle cose naturali gli effetti non riproducono che a metà le loro cause. E che dire di questa? Essa è al di sopra dell’ordine di natura; la sua condizione è troppo sublime, troppo lontana e troppo dominante per consentire che le nostre conclusioni la leghino e la incatenino. Non è attraverso di noi che ci si arriva, questa strada è troppo bassa. Non siamo più vicini al cielo sul Moncenisio che in fondo al mare: controllatelo, per prova, col vostro astrolabio.
Essi riducono Dio fino al commercio carnale con le donne: per quante volte, per quante generazioni? Paolina, moglie di Saturnino,308 matrona di ottima reputazione a Roma, pensando di giacere col dio Serapide,309 si trovò fra le braccia d’un suo corteggiatore per la ruffianeria dei sacerdoti di quel tempio. [C] Varrone,310 il più sottile e il più dotto autore latino, nei suoi libri della Teologia, scrive che il sacrestano di Ercole, tirando a sorte, con una mano per sé, con l’altra per Ercole, giocò contro di lui una cena e una ragazza: se vinceva, era a spese delle offerte, se perdeva, a spese sue. Perse, pagò la cena e la ragazza. Il nome di lei era Laurentina, e la notte si trovò quel dio fra le braccia, il quale per di più le diceva che il primo che essa incontrasse l’indomani le pagherebbe in modo divino il suo avere. Fu Tarunzio, giovane ricco, che la portò in casa sua e col tempo la lasciò erede. Lei a sua volta, sperando di fare cosa gradita a quel dio, lasciò erede il popolo romano. Per cui le furono tributati onori divini. Come se non bastasse che, per doppio lignaggio, Platone fosse disceso in origine dagli dèi, e avesse avuto Nettuno per progenitore comune della propria stirpe, si riteneva per certo ad Atene311 che Aristone, avendo voluto godersi la bella Perittione, non aveva potuto; e fu avvertito in sogno dal dio Apollo di lasciarla illibata e intatta finché avesse partorito: erano il padre e la madre di Platone. Quante ce ne sono, nelle storie, di corna di questo genere fatte dagli dèi a danno dei poveri umani? e di mariti ingiuriosamente disonorati a vantaggio dei figli? Nella religione di Maometto si trovano, per la credenza di quel popolo, parecchi Merlini: cioè figli senza padre, spirituali, nati per volere divino nel ventre delle vergini; e portano un nome che significa questo nella loro lingua.
[B] Bisogna notare che per ciascuna cosa niente è più caro e stimabile del proprio essere [C] – il leone, l’aquila, il delfino non stimano niente al disopra della loro specie – [B] e che ognuna riferisce le qualità di tutte le altre cose alle proprie qualità. E queste noi possiamo, sì, ampliarle e limitarle, ma è tutto; di fatto, al di fuori di questo rapporto e di questo principio, la nostra immaginazione non può andare, né indovinare alcunché di diverso, ed è impossibile che esca di là e che vada oltre. [C] Di qui nascono quelle antiche conclusioni: di tutte le forme, la più bella è quella dell’uomo, Dio dunque ha tale forma. Nessuno può essere felice senza virtù, né la virtù essere senza ragione, e la ragione non può albergare altro che nella figura umana, Dio dunque è rivestito della figura umana. Ita est informatum, anticipatum mentibus nostris ut homini, cum de deo cogitet, forma occurrat humana.I 312 [B] Pertanto Senofane diceva313 argutamente che se gli animali si fabbricano degli dèi, come è verosimile che facciano, li fabbricano certamente simili a se stessi, e se ne fanno vanto, come noi. Di fatto, perché un papero non potrebbe dire così: «Tutte le parti dell’universo mi riguardano, la terra mi serve a camminare, il sole a darmi luce, le stelle a ispirarmi i loro influssi; ho il tale vantaggio dai venti, il tal’altro dalle acque. Non c’è cosa che questa volta celeste guardi con altrettanto favore quanto me. Sono il beniamino della natura: non è forse l’uomo che mi nutre, mi alloggia, mi serve? È per me che fa seminare e macinare. Se mi mangia, così fa l’uomo anche col suo compagno, e così faccio io con i vermi che uccidono e mangiano lui». Altrettanto potrebbe dire una gru, e più orgogliosamente ancora per la libertà del suo volo e il possesso di quella bella e alta regione. [C] Tam blanda conciliatrix et tam sui est lena ipsa natura.I 314 [B] Or dunque, allo stesso modo, per noi è il destino, per noi il mondo, per noi splende il sole, per noi tuona, e il creatore e le creature, tutto è per noi. Ecco lo scopo e il punto a cui mira l’universo delle cose. Guardate il registro che, per duemila anni e più, la filosofia ha tenuto degli affari celesti: gli dèi non hanno agito, non hanno parlato che per l’uomo; essa non attribuisce loro altro ufficio e altra funzione. Eccoli in guerra contro di noi,
domitosque Herculea manu
Telluris iuvenes, unde periculum
Fulgens contremuit domus
Eccoli che prendono parte alle nostre liti, [C] per renderci la pariglia perché tante volte noi prendiamo parte alle loro,
[B]Neptunus muros magnoque emota tridenti
Fundamenta quatit, totamque a sedibus urbem
Eruit. Hic Iuno Scæas sævissima portas
[C] I Cauni, gelosi del predominio dei propri dèi, il giorno della loro festa rivestono le armi e vanno correndo per tutto il loro paese, battendo l’aria qua e là con le spade, cacciando così a tutta forza e bandendo gli dèi stranieri dalle loro terre.317 [B] I loro poteri sono limitati secondo il nostro bisogno. Chi guarisce i cavalli, chi gli uomini, chi la peste, chi la tigna, chi la tosse, [C] chi una specie di rogna, chi un’altra – adeo minimis etiam rebus prava relligio inserit deos –,IV 318 [B] chi fa nascere l’uva, chi gli agli, chi ha cura della lussuria, chi della mercatura [C] – ad ogni specie d’artigiani un dio –, [B] chi ha la sua provincia e la sua autorità in oriente, chi in occidente,
Hic currus fuit.319
[C]O sancte Apollo, qui umbilicum certum terrarum obtines!320
Pallada Cecropidæ, Minoïa Creta Dianam,
Vulcanum tellus Hypsipylea colit,
Iunonem Sparte Pelopeiadesque Mycenæ.
Pinigerum Fauni Mænalis ora caput;
[B] Chi non ha in suo potere che un villaggio o una famiglia. [C] Chi abita solo, chi in compagnia o volontaria o necessaria,
Iunctaque sunt magno templa nepotis avo.II 322
[B] Ve ne sono di così meschini e volgari (poiché il loro numero sale fino a trentaseimila)323 che bisogna metterne insieme ben cinque o sei per produrre una spiga di grano, e da ciò prendono i loro diversi nomi. [C] Tre per una porta, quello dell’asse, quello del cardine, quello della soglia. Quattro per un bambino, protettori delle sue fasce, della sua bevanda, del suo cibo, della sua poppa. Alcuni certi, altri incerti e dubbi. Altri che ancora non hanno accesso al paradiso,
Quos quoniam cæli nondum dignamur honore,
Quas dedimus certe terras habitare sinamus.III 324
Ce ne sono di fisici, di poetici, di civili. Alcuni, intermedi fra la natura divina e l’umana, mediatori, ruffiani fra noi e Dio. Adorati con una sorta d’adorazione secondaria e inferiore. Infiniti per titoli e uffici. Gli uni buoni, gli altri cattivi. [B] Ce ne sono di vecchi e infermi, e ce ne sono di mortali. Infatti Crisippo pensava che nella finale conflagrazione del mondo tutti gli dèi sarebbero periti, tranne Giove.325 [C] L’uomo fabbrica mille singolari associazioni fra sé e Dio. Non è forse suo compatriota?
Iovis incunabula Creten.IV 326
Ecco la giustificazione che ci danno, a questo proposito, Scevola pontefice massimo, e Varrone grande teologo, ai loro tempi: che è necessario che il popolo ignori molte cose vere e ne creda molte false. Cum veritatem qua liberetur, inquirat, credatur ei expedire, quod fallitur.I 327
[B] Gli occhi umani non possono percepire le cose che secondo le forme di loro conoscenza. [C] E non ci ricordiamo del salto che fece il misero Fetonte per aver voluto maneggiare le redini dei cavalli del padre con mano mortale.328 La nostra mente ricade in un abisso uguale, per la sua temerità si perde e s’infrange allo stesso modo. [B] Se domandate alla filosofia329 di che materia sia il cielo e il sole, che altro vi risponderà, se non che è di ferro o, con Anassagora, di pietra, e simili materie di nostro uso? [C] Si domanda a Zenone che cos’è la natura: «Un fuoco» egli dice «abile, atto a generare, che procede secondo una regola». [B] Archimede, maestro di quella scienza che si arroga il primato su tutte le altre in verità e certezza, dice: «Il sole è un dio di ferro rovente». Ecco una bella immagine prodotta dalla bellezza e dall’inevitabile necessità delle dimostrazioni geometriche! Non però così inevitabile [C] e utile che Socrate non abbia ritenuto che bastasse saperne quel che occorre per misurare la terra che si dà e che si riceve, e [B] che Polieno, che di esse era stato famoso ed illustre maestro, non abbia preso a disprezzarle, come piene di falsità e di evidente vanità, dopo che ebbe gustato i dolci frutti dei giardini poltroneschi di Epicuro. [C] Socrate, in Senofonte, a proposito di Anassagora, stimato dall’antichità come dotto più di ogni altro nelle cose celesti e divine, dice che perdette il senno, come accade a tutti gli uomini che sviscerano smodatamente cognizioni che non sono di loro spettanza. Facendo del sole una pietra ardente, non pensava che una pietra non riluce al fuoco e, quel che è peggio, che vi si consuma. Facendo una cosa sola del sole e del fuoco, che il fuoco non abbrunisce quelli che guarda; che noi guardiamo fissi il fuoco; che il fuoco uccide le piante e le erbe. Secondo il parere di Socrate e anche mio, più saggiamente giudica del cielo chi non ne giudica affatto. Platone, dovendo parlare dei demoni nel Timeo:330 «È un’impresa» dice «che supera le nostre forze. Bisogna credere a quegli antichi che si son detti generati da essi. È irragionevole negar fede ai figli degli dèi, anche qualora le loro affermazioni non siano sostenute da ragioni necessarie né verosimili, poiché ci assicurano di parlare di cose domestiche e familiari».
[A] Vediamo se abbiamo un po’ più di chiarezza nella conoscenza delle cose umane e naturali. Non è un’impresa ridicola andar fabbricando un altro corpo e prestando una forma falsa, di nostra invenzione, a quelle cose che, per nostra stessa confessione, la nostra scienza non può raggiungere? Come si vede nel movimento dei pianeti, al quale, non potendo la nostra mente arrivarvi né immaginare il suo corso naturale, noi prestiamo, in base al nostro, spinte materiali, pesanti e corporee:
temo aureus, aurea summæ
Curvatura rotæ, radiorum argenteus ordo.I 331
Si direbbe che abbiamo avuto dei cocchieri, dei carpentieri e dei pittori che siano andati a montare lassù dei congegni a diversi movimenti, [C] e a regolare gli ingranaggi e gli intrecci dei corpi celesti screziati in vari colori intorno al fuso della necessità, come dice Platone.332
[B]Mundus domus est maxima rerum,
Quam quinque altitonæ fragmine zonæ
Cingunt, per quam limbus pictus bis sex signis
Stellimicantibus, altus in obliquo æthere, lunæ
Sono tutti sogni e fanatiche follie. Piacesse un giorno alla natura aprirci il suo seno e farci vedere davvero i mezzi e il corso dei suoi movimenti, e abituarvi i nostri occhi! Oh Dio! che abbagli, che errori troveremmo nella nostra povera scienza! [C] Che io m’inganni se dà nel giusto su una cosa sola; e me ne andrò di qui più ignorante di ogni altra cosa che della mia ignoranza. Non ho forse trovato in Platone334 quella divina sentenza, che la natura non è altro che una poesia enigmatica? Come chi dicesse una pittura velata e oscura, che fa trasparire un’infinita varietà di false luci su cui esercitare le nostre congetture: Latent ista omnia crassis occultata et circumfusa tenebris, ut nulla acies humani ingenii tanta sit, quæ penetrare in cælum, terram intrare possit.III 335 E certo la filosofia non è che una poesia sofisticata. Da dove traggono tutte le loro citazioni quegli autori antichi, se non dai poeti? E i primi furono essi stessi poeti e la trattarono secondo la loro arte. Platone non è che un poeta scucito. Timone lo chiama, per disprezzo, gran fabbricatore di miracoli.336 [A] Come le donne si servono dei denti d’avorio quando mancano loro quelli naturali, e invece del loro colorito vero se ne fabbricano uno con qualche sostanza estranea; come si fanno cosce di drappo e di feltro e rotondità di cotone, e come tutti vedono e sanno, si abbelliscono di una bellezza falsa e presa a prestito: così fa la scienza [B] (e perfino il nostro diritto, si dice, ha finzioni legittime337 sulle quali fonda la verità della sua giustizia); [A] essa ci dà in pagamento e per postulati quelle cose che essa stessa ci insegna essere invenzioni: poiché quegli epicicli, eccentrici, concentrici338 di cui l’astrologia si giova per regolare il moto delle stelle, ce li dà per il meglio che essa abbia saputo inventare in questo campo; come, del resto, anche la filosofia ci presenta non ciò che è, o ciò che crede, ma ciò che fabbrica con maggior verosimiglianza ed eleganza. [C] Platone, parlando dello stato del nostro corpo e di quello delle bestie: «Che quello che abbiamo detto sia vero, ne daremmo assicurazione se ne avessimo conferma da un oracolo. Assicuriamo soltanto che è il più verosimile che abbiamo saputo dire».339
[A] Non al cielo soltanto essa manda i suoi cordami, i suoi congegni e le sue ruote. Consideriamo un po’ quello che dice di noi stessi e della nostra struttura. Non c’è maggior retrogradazione, trepidazione, accessione, retrocessione, rapimento negli astri e corpi celesti di quanto ne abbiano foggiato in questo povero corpiciattolo umano. Davvero hanno avuto ragione per questo di chiamarlo il piccolo mondo,340 tanti pezzi e figure hanno impiegato a fabbricarlo e costruirlo. Per accordare i movimenti che vedono nell’uomo, le diverse funzioni e facoltà che sentiamo in noi, in quante parti hanno diviso la nostra anima? In quante sedi l’hanno collocata? In quanti ordini e piani hanno spartito questo povero uomo, oltre a quelli naturali e percepibili? E in quanti uffici e funzioni? Ne fanno uno Stato immaginario. È un oggetto che tengono in mano e manovrano: si lascia loro pieno potere di scucirlo, rassettarlo, rimetterlo insieme e guarnirlo, ognuno a suo capriccio; eppure ancora non lo possiedono. Non solo in realtà, ma neppure in sogno possono regolarlo, senza che vi si trovi qualche cadenza o qualche suono che sfugga alla loro architettura, per quanto sia anomala e rattoppata di mille pezzi falsi e fantastici. [C] E non c’è ragione di scusarli. Di fatto ai pittori, quando dipingono il cielo, la terra, i mari, i monti, le isole remote, noi perdoniamo che ce ne riproducano solo un’immagine superficiale; e, come di cose ignote, ci accontentiamo d’una tal quale ombra e finzione. Ma quando ci dipingono dal vero, o un soggetto che ci è familiare e conosciuto, esigiamo da loro una perfetta ed esatta raffigurazione dei lineamenti e dei colori, e li disprezziamo se falliscono.
[A] Io sono grato alla puttana milesia che, vedendo il filosofo Talete continuamente occupato a contemplare la volta celeste, e con gli occhi sempre levati verso l’alto, mise sui suoi passi qualcosa per farlo inciampare, allo scopo di avvertirlo che sarebbe stato tempo di applicare il suo pensiero alle cose che erano fra le nuvole quando avesse provveduto a quelle che stavano ai suoi piedi.341 Certamente lo consigliava bene, di guardare piuttosto a sé che al cielo. [C] Di fatto, come dice Democrito per bocca di Cicerone:
Quod est ante pedes, nemo spectat; cæli scrutantur plagas.I 342
[A] Ma la nostra condizione fa sì che la conoscenza di ciò che abbiamo fra le mani è altrettanto lontana da noi e tanto al di sopra delle nuvole quanto quella degli astri. [C] Come dice Socrate in Platone, a chiunque s’immischia di filosofia si può fare il rimprovero che quella donna fa a Talete, di non veder niente di ciò che è davanti a lui. Infatti ogni filosofo ignora ciò che fa il suo vicino, e anche ciò che fa lui stesso, e ignora che cosa siano entrambi, se bestie o uomini. [A] Queste persone, che trovano gli argomenti di Sebond troppo deboli, che non ignorano nulla, che governano il mondo, che sanno tutto,
Quæ mare compescant causæ; quid temperet annum;
Stellæ sponte sua iussæve vagentur et errent;
Quid premat obscurum Lunæ, quid proferat orbem;
Quid velit et possit rerum concordia discors;II 343
non hanno qualche volta sondato, fra i loro libri, le difficoltà che si presentano per conoscere il loro proprio essere? Noi vediamo bene che il dito si muove, e che il piede si muove, che alcune parti si agitano da sole senza nostra licenza, e che altre le muoviamo per nostro comando, che una certa apprensione produce il rossore, cert’altra il pallore, tale immaginazione agisce solo sulla milza, tal altra sul cervello, una ci provoca il riso, l’altra il pianto, un’altra colpisce e stordisce tutti i nostri sensi e arresta il movimento delle nostre membra [C]; di fronte a tale oggetto si solleva lo stomaco, di fronte a un altro, qualche parte più bassa. [A] Ma come un’impressione spirituale produca tale effetto in un soggetto massiccio e solido, e la natura del legame e della connessione di tali mirabili impulsi, l’uomo non l’ha mai saputo. [C] Omnia incerta ratione et in naturæ maiestate abdita,I 344 dice Plinio; e sant’Agostino: Modus quo corporibus adhærent spiritus, omnino mirus est, nec comprehendi ab homine potest: et hoc ipse homo est.II 345
[A] Eppure non pertanto la cosa è posta in dubbio: poiché le opinioni degli uomini si formano seguendo antiche credenze, per autorità e credito, come se si trattasse di religione e di legge. Si accoglie come un gergo ciò che si ritiene comunemente; si accoglie questa verità con tutta la sua costruzione e apparecchiatura di argomenti e di prove, come un corpo fermo e solido, che non si scuote più, che non si giudica più. Anzi, ognuno, come meglio può, va intonacando e puntellando questa credenza invalsa con tutte le forze della propria ragione, la quale è uno strumento duttile, adattabile e acconciabile a ogni forma. Così il mondo si riempie e si candisce di sciocchezza e di menzogna. Quello che fa sì che non si dubiti di molte cose, è che le opinioni comuni non le si mettono mai alla prova: non se ne sonda il ceppo, dove sta l’errore e la debolezza; si discute solo dei rami; non si domanda se questo sia vero, ma se sia stato inteso così o così. Non si domanda se Galeno abbia detto qualcosa di buono, ma se abbia detto così o altrimenti. Era davvero opportuno che questa briglia, questa costrizione della libertà dei nostri giudizi e questa tirannia delle nostre credenze si estendesse fino alle scuole e alle arti. Il dio della scienza scolastica è Aristotele: ci si fa scrupolo di discutere le sue leggi, come quelle di Licurgo a Sparta. La sua dottrina ci serve di legge assoluta, ed è forse falsa quanto un’altra. Non so perché non dovrei accettare altrettanto facilmente o le idee di Platone, o gli atomi di Epicuro, o il pieno e il vuoto di Leucippo e Democrito, o l’acqua di Talete, o l’infinità della natura di Anassimandro, o l’aria di Diogene,346 o i numeri e simmetrie di Pitagora, o l’infinito di Parmenide, o l’uno di Museo, o l’acqua e il fuoco di Apollodoro, o le parti similari di Anassagora, o la discordia e amicizia di Empedocle, o il fuoco di Eraclito, o qualsiasi altra opinione fra l’infinita confusione di pareri e di sentenze che questa bella ragione umana produce con la sua certezza e chiaroveggenza in tutto ciò di cui s’immischia, come dovrei accettare l’opinione di Aristotele, su questo argomento dei principi delle cose naturali: i quali principi egli costruisce di tre parti, materia, forma e privazione. E che cosa c’è di più vano di fare l’inanità medesima causa della produzione delle cose? La privazione è una negazione: per qual capriccio ha potuto farne la causa e l’origine delle cose che sono? E tuttavia non si oserebbe attaccarlo se non per esercitazione di logica. Non se ne discute per metterlo in dubbio, ma per difendere il fondatore della scuola dalle obiezioni esterne: la sua autorità è il fine al di là del quale non è permesso indagare. Su fondamenti riconosciuti, è molto facile costruire quel che si vuole: infatti, seguendo le regole e l’impostazione di questo punto di partenza, le rimanenti parti dell’edificio si tirano avanti facilmente, senza che cedano. In questo modo troviamo la nostra ragione ben fondata e discorriamo a colpo sicuro; infatti i nostri maestri invadono ed occupano a priori tanto posto nella nostra opinione quanto ne occorre loro per concludere poi quello che vogliono, a guisa dei matematici con i loro postulati: il nostro consenso e la nostra approvazione fornisce loro di che trascinarci a destra e a sinistra, e farci piroettare a loro piacimento. Chiunque è creduto nei suoi presupposti è nostro maestro e nostro dio: egli stabilirà la pianta delle sue fondamenta così ampia e agevole che, per questo mezzo, potrà farci salire, se vuole, fino alle nuvole. In questa pratica e commercio di scienza abbiamo preso per moneta sonante il detto di Pitagora,347 che a ogni esperto si deve prestar fede per la sua arte. Il dialettico rinvia al grammatico per il significato delle parole; il retore prende dal dialettico la topica delle argomentazioni; il poeta prende dal musico i metri; il geometra dall’aritmetico le proporzioni; i metafisici prendono per fondamento le congetture della fisica. Ogni scienza, infatti, ha i propri principi presupposti, per cui il giudizio umano è imbrigliato da ogni parte. Se venite a urtare questa barriera in cui sta l’errore principale, hanno subito in bocca quella sentenza, che non bisogna discutere con coloro che negano i principi. Ora gli uomini non possono avere dei principi, se la divinità non li ha loro rivelati: tutto il resto, e l’inizio e il mezzo e la fine, non è che sogno e fumo. Coloro che combattono in base a presupposti devono poi presupporre in senso contrario lo stesso assioma del quale si discute. Di fatto ogni presupposto umano e ogni enunciato ha tanta autorità quanto un altro, se la ragione non vi pone differenza. Così, bisogna metterli tutti sulla bilancia; e prima di tutto quelli generali, e quelli che ci tiranneggiano. [C] La persuasione della certezza è un indizio certo di follia e di estrema incertezza. E non vi sono persone più pazze né meno filosofe dei filodossi di Platone.348 [A] Occorre sapere se il fuoco è caldo, se la neve è bianca, se a nostra conoscenza c’è qualcosa di duro o di molle. Quanto poi a quelle risposte su cui si son fatti dei racconti antichi: come a colui che metteva in dubbio il calore, al quale si disse che si gettasse nel fuoco; a colui che negava il freddo del ghiaccio, che se ne mettesse in seno: sono oltremodo indegne della professione di filosofo. Se ci avessero lasciato nel nostro stato naturale, ricettivi alle apparenze esterne secondo che ci si presentano attraverso i nostri sensi, e ci avessero lasciato seguire i nostri appetiti semplici, e regolati dalla condizione della nostra nascita, avrebbero ragione di parlare così; ma è da loro che abbiamo imparato a farci giudici del mondo; è da loro che ci viene questa fantasia, che la ragione umana è sindacatrice generale di tutto quello che è al di fuori e al di dentro della volta celeste, che abbraccia tutto, che può tutto, e per mezzo della quale tutto si sa e si conosce. Questa risposta andrebbe bene fra i cannibali, che godono la fortuna di una lunga vita tranquilla e pacifica, senza i precetti di Aristotele, e senza conoscere della fisica nemmeno il nome. Questa risposta andrebbe forse meglio e avrebbe maggior solidità di tutte quelle che essi potrebbero trarre dalla loro ragione e dalla loro immaginazione. Ne sarebbero capaci come noi tutti gli animali, e tutto ciò in cui ancora è pura e semplice l’autorità della legge naturale; ma essi vi hanno rinunciato. Non bisogna che mi dicano: «È vero perché lo vedete e sentite così»; bisogna che mi dicano se quello che penso di sentire, lo sento tuttavia in realtà; e se lo sento, che mi dicano poi perché lo sento, e come, e che cosa; che mi dicano il nome, l’origine, gli annessi e connessi del caldo, del freddo, le qualità di colui che agisce e di colui che subisce; oppure rinuncino alla loro professione, che è di non ammettere né approvare alcunché se non per mezzo della ragione: è la loro pietra di paragone per ogni sorta di prove; in realtà, è una pietra piena di falsità, di errore, di debolezza e deficienze.
In che modo vogliamo meglio provarla che con se stessa? Se non le si può prestar fede quando parla di sé, a malapena sarà atta a giudicare le cose estranee: se conosce qualcosa, sarà almeno il suo essere e il suo domicilio. Essa è nell’anima, e parte o effetto di questa: poiché la vera ed essenziale ragione, di cui prendiamo il nome a falso titolo, alberga nel seno di Dio; là è la sua sede e il suo ritiro, è di là che essa viene quando a Dio piace farcene vedere qualche raggio: come Pallade balzò fuori dalla testa di suo padre per rivelarsi al mondo. Ora vediamo ciò che l’umana ragione ci ha insegnato di sé e dell’anima. [C] Non dell’anima in generale, della quale quasi ogni filosofia rende partecipi i corpi celesti e gli elementi primi;349 né di quella che Talete attribuiva perfino alle cose che si ritengono inanimate, indottovi dall’osservazione della calamita; ma di quella che ci appartiene, che dobbiamo meglio conoscere.
[B]Ignoratur enim quæ sit natura animaï,
Nata sit, an contra nascentibus insinuetur,
Et simul intereat nobiscum morte dirempta,
An tenebras orci visat vastasque lacunas,
An pecudes alias divinitus insinuet se.I 350
[A] A Cratete e Dicearco351 essa insegnò che non c’era anima alcuna, ma che il corpo si muoveva così per un movimento naturale; a Platone, che era una sostanza semovente; a Talete, una natura senza riposo; ad Asclepiade, un esercizio dei sensi; a Esiodo e Anassimandro, una cosa composta di terra e d’acqua; a Parmenide, di terra e di fuoco; a Empedocle, di sangue,
Sanguineam vomit ille animam;II 352
a Posidonio, a Cleante e a Galeno, un calore o una complessione calorosa,
Igneus est ollis vigor, et cælestis origo;III 353
a Ippocrate, uno spirito diffuso per il corpo; a Varrone, un’aria che si riceve dalla bocca, si riscalda nel polmone, si tempera nel cuore e si diffonde per tutto il corpo; a Zenone, la quintessenza dei quattro elementi; a Eraclide Pontico, la luce; a Senocrate e agli Egizi, un numero mobile; ai Caldei, una virtù senza forma determinata,
[B]habitum quemdam vitalem corporis esse,
Harmoniam Græci quam dicunt.I 354
[A] Non dimentichiamo Aristotele: ciò che per sua natura fa muovere il corpo, che egli chiama entelecheia; con un’idea sciocca quant’altre mai, poiché non parla né dell’essenza, né dell’origine, né della natura dell’anima, ma ne nota soltanto l’effetto. Lattanzio, Seneca e la maggior parte dei dogmatici hanno confessato che era una cosa che non comprendevano. [C] E dopo aver enumerato tutte queste opinioni: Harum sententiarum quæ vera sit, deus aliquis viderit,II dice Cicerone.355 [A] «Considerando me stesso» dice san Bernardo «mi rendo conto di quanto Dio sia incomprensibile, poiché non posso comprendere nemmeno le parti del mio stesso essere».356 [C] Eraclito, che riteneva che tutto fosse pieno di anime e di demoni, dichiarava però che non si poteva andare tanto avanti nella conoscenza dell’anima fino a raggiungerla, tanto profonda è la sua essenza.357
[A] Non c’è minor dissenso né minor discussione per collocarla.358 Ippocrate ed Erofilo la mettono nel ventricolo del cervello; Democrito e Aristotele, per tutto il corpo,
[B]Ut bona sæpe valetudo cum dicitur esse
Corporis, et non est tamen hæc pars ulla valentis.III 359
[A] Epicuro, nel petto,
[B]Hic exultat enim pavor ac metus, hæc loca circum
[A] Gli stoici, intorno e dentro il cuore; Erasistrato, vicino alla membrana dell’epicranio; Empedocle, nel sangue; come pure Mosè, e questa fu la ragione per cui proibì di mangiare il sangue delle bestie, al quale è congiunta la loro anima; Galeno ha pensato che ogni parte del corpo abbia la sua anima; Stratone l’ha collocata fra le due sopracciglia. [C] Qua facie quidem sit animus, aut ubi habitet, ne quærendum quidem est,V dice Cicerone.361 Lascio volentieri a quest’uomo le sue stesse parole. Dovrei alterare il linguaggio dell’eloquenza? Si aggiunga che c’è poco profitto ad appropriarsi la sostanza delle sue invenzioni. Sono e poco frequenti, e poco vigorose, e poco ignorate. [A] Ma la ragione per cui Crisippo362 la suppone intorno al cuore, come gli altri della sua setta, non va dimenticata: «È perché» dice «quando vogliamo affermare qualcosa mettiamo la mano sul petto; e quando vogliamo pronunciare ἐγώ, che significa io, abbassiamo verso il petto la mascella inferiore». Non si deve sorvolare su questo passo senza notare la leggerezza di un così gran personaggio. Di fatto, non solo queste considerazioni sono di per sé infinitamente inconsistenti, ma l’ultima prova soltanto per i Greci che essi abbiano l’anima in quel punto. Non v’è intelletto umano, per attento che sia, che a volte non sonnecchi. [C] Che altro dire? Ecco gli stoici,363 padri dell’umana saggezza, i quali trovano che l’anima d’un uomo schiacciato da un crollo si trascina e si affanna a lungo per uscire, non potendo liberarsi dal fardello, come un topo preso in trappola. Alcuni364 ritengono che il mondo fu fatto allo scopo di dar corpo, per punirli, agli spiriti decaduti per loro colpa dalla purezza nella quale erano stati creati, poiché la prima creazione era stata soltanto incorporea. E che secondo che si sono più o meno allontanati dalla loro spiritualità, vengono forniti di un corpo più o meno agile o pesante. Di qui la varietà di tanta materia creata. Ma lo spirito che fu, per punizione, rivestito del corpo del sole, doveva avere un grado d’alterazione ben raro e particolare. Le nostre indagini, se spinte all’estremo, finiscono tutte in abbaglio. Come dice Plutarco degli inizi delle storie,365 che a somiglianza delle carte geografiche i confini delle terre conosciute sono circondati da paludi, foreste profonde, deserti e luoghi inabitabili. Ecco perché le più grossolane e puerili fantasticherie si trovano più spesso in coloro che trattano le cose più alte e più a fondo, inabissandosi nella loro curiosità e presunzione. La fine e il principio della scienza coincidono in quanto a stoltezza. Osservate Platone che prende il volo verso le sue nuvole poetiche: osservate in lui il gergo degli dèi. Ma a che cosa pensava quando [A] definì l’uomo un animale a due piedi senza penne? Fornendo così un bel pretesto a quelli che avevano voglia di burlarsi di lui: infatti, spennato un cappone vivo, lo chiamavano l’uomo di Platone.366 E che dire degli epicurei?367 Per quale semplicità erano andati dapprima ad immaginare che i loro atomi, che dicevano essere corpi dotati di un certo peso e di un naturale movimento verso il basso, avessero formato il mondo? Finché furono avvertiti dai loro avversari che, in base a tale descrizione, non era possibile che essi si congiungessero e si attaccassero gli uni agli altri, dal momento che la loro caduta era così dritta e perpendicolare e formava dovunque delle linee parallele. Per cui fu giocoforza che vi aggiungessero in seguito un movimento laterale, fortuito, e che fornissero inoltre i loro atomi di code curve e uncinate per renderli atti ad attaccarsi e saldarsi. [C] E pur tuttavia non li mettono in difficoltà quelli che li perseguitano con quest’altra considerazione: se gli atomi hanno, per caso, formato tante specie di figure, perché non si sono mai incontrati in modo da fare una casa, una scarpa? Perché, allo stesso modo, non si crede che un numero infinito di lettere greche gettate in mezzo a una piazza potrebbero arrivare a tessere l’Iliade? Ciò che è capace di ragione, dice Zenone, è migliore di ciò che non ne è capace, non c’è niente di migliore del mondo, esso è dunque capace di ragione. Cotta, con questa stessa argomentazione, fa il mondo matematico.368 E lo fa musico e organista con quest’altra argomentazione, pure di Zenone: il tutto è più della parte, noi siamo capaci di saggezza e siamo parti del mondo, dunque il mondo è saggio.
[A] Si vedono infiniti esempi simili, di argomenti non soltanto falsi, ma sciocchi, che non reggono, e accusano i loro autori non tanto d’ignoranza quanto di stoltezza, nelle critiche che i filosofi si fanno reciprocamente sui dissensi delle loro opinioni e delle loro sette. [C] Chi affastellasse un sufficiente mucchio delle asinerie della saggezza umana, direbbe meraviglie. Io ne raccolgo volentieri una sorta di campionario, per qualche verso non meno utile a considerarsi delle opinioni sane e moderate. [A] Giudichiamo di qui quale stima dobbiamo fare dell’uomo, del suo senno e della sua ragione, se in questi grandi personaggi, che hanno portato così in alto le capacità umane, si trovano difetti tanto evidenti e tanto grossolani. Quanto a me, preferisco credere che abbiano trattato la scienza a caso, come un giocattolo per le mani di tutti. E si siano trastullati con la ragione come con uno strumento vano e frivolo, mettendo avanti ogni sorta d’invenzioni e di fantasie, ora più rigorose, ora più fiacche. Quello stesso Platone che definisce l’uomo un pollo, dice altrove, seguendo Socrate,369 che non sa in verità che cosa sia l’uomo, e che è una delle parti del mondo più difficili a conoscersi. Con questa varietà e instabilità d’opinioni ci conducono come per mano, tacitamente, a questa soluzione della loro irresoluzione. Fanno professione di non presentare sempre il loro pensiero a volto scoperto e manifesto: l’hanno nascosto ora sotto gli adombramenti favolosi della poesia, ora sotto qualche altra maschera; poiché la nostra imperfezione è causa anche di questo, che la carne cruda non sempre è adatta al nostro stomaco: bisogna seccarla, alterarla e corromperla. Costoro fanno lo stesso: oscurano a volte le loro opinioni e i loro giudizi sinceri, e li falsano per adattarsi all’uso comune. Non vogliono fare espressa professione d’ignoranza, e della debolezza della ragione umana, per non far paura ai bambini. Ma ce la scoprono a sufficienza sotto l’apparenza d’una scienza confusa e incostante.
[B] Io consigliavo, in Italia, a qualcuno che si trovava in difficoltà per parlare italiano, che purché cercasse solo di farsi capire senza voler eccellere in altro modo, impiegasse soltanto le prime parole che gli venissero alle labbra, latine, francesi, spagnole o guasconi, e che aggiungendovi la terminazione italiana si sarebbe certamente avvicinato a qualche idioma del luogo, o toscano, o romano, o veneziano, o piemontese, o napoletano, e sarebbe arrivato a qualcuna di queste tante forme. Dico lo stesso per la filosofia: ha tanti aspetti e varietà, e ha detto tante cose, che vi si trovano tutti i nostri sogni e vaneggiamenti. La fantasia umana non può concepir nulla, né in bene né in male, che non vi sia già. [C] Nihil tam absurde dici potest quod non dicatur ab aliquo philosophorum.I 370 [B] E perciò lascio uscire in pubblico i miei capricci più liberamente, tanto più che, sebbene siano nati in me e senza modello, so che verranno a incontrarsi con qualche posizione antica, e qualcuno non mancherà di dire: «Ecco di dove l’ha preso!» [C] I miei costumi sono naturali: per stabilirli non ho invocato il soccorso di alcuna dottrina. Ma, così privi d’autorità come sono, quando mi ha preso voglia di raccontarli e, per farli uscire in pubblico un po’ più decentemente, mi son fatto un dovere di sostenerli con ragionamenti ed esempi, mi son meravigliato io stesso di trovarli per caso conformi a tanti esempi e ragionamenti filosofici. Di che genere fosse la mia vita, non l’ho imparato che dopo che era già spesa e impiegata. Una figura nuova: un filosofo non premeditato e fortuito.
[A] Per tornare alla nostra anima, l’aver Platone collocato la ragione nel cervello, l’ira nel cuore e la cupidigia nel fegato,371 è stata verosimilmente un’interpretazione dei moti dell’anima più che una divisione e separazione che abbia voluto farne, come di un corpo in parecchie membra. E la più verosimile delle loro opinioni è che sia sempre un’unica anima che per sua facoltà ragiona, ricorda, comprende, giudica, desidera e compie tutte le altre sue operazioni per mezzo di diversi strumenti del corpo; come il nocchiero guida la sua nave secondo l’esperienza che ne ha, ora tendendo o allentando una corda, ora alzando l’antenna o movendo il remo, con una sola forza producendo diversi effetti. E che essa alberghi nel cervello: cosa che appare dal fatto che le ferite e gli accidenti che toccano questa parte offendono immediatamente le facoltà dell’anima; né è strano che di qui essa si diffonda per il resto del corpo:
[C]medium non deserit unquam
Cæli Phæbus iter; radiis tamen omnia lustratI 372
[A] come il sole spande dal cielo la sua luce e le sue forze e ne riempie il mondo:
Cætera pars animæ per totum dissita corpus
Paret, et ad numen mentis momenque movetur.II 373
Alcuni hanno detto che c’era un’anima generale, come un gran corpo, dal quale tutte le anime particolari erano estratte e al quale tornavano, riconfondendosi sempre a questa materia universale,
Deum namque ire per omnes
Terrasque tractusque maris cælumque profundum:
Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum,
Quemque sibi tenues nascentem arcessere vitas;
Scilicet huc reddi deinde, ac resoluta referri
Omnia: nec morti esse locum.III 374
Altri, che esse non facevano che ricongiungervisi e riattaccarvisi; altri, che erano prodotte dalla sostanza divina; altri, dagli angeli di fuoco e d’aria. Alcuni, dalla più lontana antichità; altri, nel momento stesso del bisogno. Alcuni le fanno scendere dal tondo della luna e ritornarvi. La maggior parte degli antichi, che sono generate di padre in figlio, alla stessa maniera e procreazione di tutte le altre cose naturali, argomentando questo dalla rassomiglianza dei figli ai padri,
Instillata patris virtus tibi:375
Fortes creantur fortibus et bonis,I 376
e dal fatto che si vedono passare dai padri nei figli non solo i segni fisici, ma anche una somiglianza di umori, costituzioni e inclinazioni dell’anima,
Denique cur acris violentia triste leonum
Seminium sequitur; dolus vulpibus, et fuga cervis
A patribus datur, et patrius pavor incitat artus;
Si non certa suo quia semine seminioque
Vis animi pariter crescit cum corpore toto:II 377
che su questo si fonda la giustizia divina, punendo nei figli la colpa dei padri, poiché il contagio dei vizi paterni è in qualche modo impresso nell’anima dei figli, e lo sviamento della loro volontà li riguarda. Inoltre dicono che se le anime venissero altronde che da una successione naturale, e fossero state qualche altra cosa fuori del corpo, avrebbero memoria del loro essere primitivo, date le naturali facoltà che sono loro proprie di parlare, ragionare e ricordarsi:
[B]si in corpus nascentibus insinuatur,
Cur superante actam ætatem meminisse nequimus,
Nec vestigia gestarum rerum ulla tenemus?III 378
[A] Di fatto, per apprezzare il valore delle nostre anime come vogliamo,379 occorre presupporle tutte sapienti, allorché sono nella loro semplicità e purezza naturale. Quindi esse sarebbero state tali, essendo libere dalla prigione corporea, anche prima di entrarvi, quali speriamo che saranno dopo che ne saranno uscite. E di questo sapere, bisognerebbe che se ne ricordassero ancora stando nel corpo; come diceva Platone,380 che ciò che apprendevamo non era che un ricordo di ciò che avevamo saputo: cosa che ognuno per esperienza può sostenere che è falsa. In primo luogo, perché non ci ricordiamo appunto che di ciò che ci insegnano; e se la memoria facesse interamente il suo dovere, dovrebbe suggerirci almeno qualche altra cosa oltre a ciò che impariamo. In secondo luogo, ciò che sapeva quando era nella sua purezza, era una scienza vera, che conosceva le cose quali sono in virtù della sua intelligenza divina; laddove qui le si fa accogliere la menzogna e il vizio, se le vengono insegnati: e in questo non può servirsi della sua reminiscenza, perché quest’immagine e concezione non ha mai albergato in lei. Dire che la prigione corporea soffoca in modo tale le sue facoltà innate che queste vi sono tutte spente, è prima di tutto contrario381 all’altra opinione, che riconosce le sue forze tanto grandi e gli effetti che gli uomini ne sentono in questa vita tanto mirabili, da poterne dedurre sia questa divinità ed eternità passata sia l’immortalità futura:
[B]Nam, si tantopere est animi mutata potestas
Omnis ut actarum exciderit retinentia rerum,
Non, ut opinor, ea ab leto iam longior errat.I 382
[A] Inoltre è qui, in noi e non altrove, che devono essere considerate le forze dell’anima e i suoi effetti; tutto il resto delle sue perfezioni le è vano e inutile: è dallo stato presente che deve essere ripagata e riconosciuta tutta la sua immortalità, e soltanto della vita dell’uomo essa è responsabile. Sarebbe ingiusto aver limitato i suoi mezzi e le sue facoltà; averla disarmata per trarre, dal tempo della sua cattività e della sua prigionia, della sua debolezza e malattia, dal tempo in cui essa fosse stata vincolata e costretta, il giudizio e una condanna di durata infinita e perpetua; e fermarsi alla considerazione di un tempo tanto breve che è forse di una o due ore o, al peggio, di un secolo, che in confronto all’infinito non è più d’un istante, per determinare e giudicare definitivamente tutto il suo essere da questo momento d’intervallo. Sarebbe una sproporzione iniqua dedurre una ricompensa eterna da una vita così breve. [C] Platone,383 per salvaguardarsi da questo inconveniente, vuole che i compensi futuri si limitino alla durata di cent’anni, relativamente alla durata umana; e molti dei nostri384 hanno loro assegnato limiti di tempo.