CAPITOLO XL
Riflessione su Cicerone
[A] Ancora un tratto per il paragone fra queste coppie.1 Dagli scritti di Cicerone e di quel Plinio (piuttosto lontano, secondo me, dall’indole di suo zio) si traggono infinite testimonianze di una natura oltremodo ambiziosa: fra l’altro che essi sollecitano pubblicamente gli storici del loro tempo a non dimenticarli nei loro regesti.2 E la sorte, quasi per dispetto, ha fatto arrivare fino a noi la vanità di queste richieste, e andar perdute da tempo quelle storie. Ma supera ogni bassezza d’animo, in persone di tal rango, l’aver voluto trarre qualche grande gloria dal pettegolezzo e dalle chiacchiere, fino a servirsi a questo scopo delle lettere private scritte ai loro amici; a tal punto che, non essendo state alcune di esse spedite a tempo, le fanno nondimeno pubblicare con questa degna scusa, che non hanno voluto perdere la fatica e le veglie. Si addice forse a due consoli romani, supremi magistrati della repubblica dominatrice del mondo, impiegare il loro tempo a ordinare e comporre elegantemente una bella missiva, per trarne fama di conoscere bene la lingua della loro balia? Che farebbe di peggio un semplice maestro di scuola che si guadagnasse così la vita? Se le gesta di Senofonte e di Cesare non avessero di gran lunga superato la loro eloquenza, non credo che essi le avrebbero mai scritte. Hanno cercato di raccomandare non il loro dire, ma il loro fare. E se la perfezione del ben parlare potesse arrecare una qualche gloria degna di un gran personaggio, certamente Scipione e Lelio non avrebbero ceduto l’onore delle loro commedie e tutte le leggiadrie e le delizie della lingua latina a uno schiavo africano; poiché, che quell’opera sia loro, la sua bellezza e la sua eccellenza lo dicono abbastanza, e Terenzio stesso lo dichiara.3 [B] Mi si darebbe un dispiacere distogliendomi da questa opinione.
[A] È una specie di beffa e d’ingiuria cercare di far valere un uomo per qualità disdicevoli al suo rango, benché siano altrimenti lodevoli. E anche per qualità che non devono essere le sue principali: come chi lodasse un re di essere buon pittore, o buon architetto, o perfino buon archibugiere, o buon corridore in giostra. Tali lodi non fanno onore se non sono presentate nell’insieme e dietro a quelle che gli sono proprie: cioè la giustizia e la scienza di governare il proprio popolo in pace e in guerra. In tal modo a Ciro fa onore l’agricoltura e a Carlo Magno l’eloquenza e la conoscenza delle belle lettere. [C] Al tempo mio ho addirittura visto dei personaggi per i quali lo scrivere era e titolo e professione, rinnegare tuttavia i propri studi, corrompere lo stile e affettare l’ignoranza di una qualità tanto volgare4 e che il nostro popolo ritiene non trovarsi mai in mani dotte, raccomandandosi per qualità migliori. [A] I compagni di Demostene nell’ambasciata a Filippo lodavano questo principe perché era bello, eloquente e buon bevitore; Demostene diceva che erano lodi che si addicevano meglio a una donna, a un avvocato, a una spugna che a un re.5
Imperet bellante prior, iacentem
La sua professione non è di saper cacciar bene o danzar bene,
Orabunt causas alii, cælique meatus
Describent radio, et fulgentia sidera dicent;
Hic regere imperio populos sciat.I 7
Plutarco dice inoltre8 che mostrarsi tanto eccellente in tali qualità meno necessarie è produrre contro se stesso la testimonianza di aver male impiegato il proprio tempo, e lo studio che doveva esser consacrato a cose più necessarie e utili. Di modo che Filippo, re di Macedonia, avendo udito quel grande Alessandro, suo figlio, cantare in un festino a gara con i migliori musici, gli disse: «Non ti vergogni di cantare così bene?» E al medesimo Filippo9 un musico, col quale egli discuteva della sua arte, disse: «Non piaccia a Dio, Sire, che ti capiti mai la disgrazia d’intenderti di queste cose meglio di me». Un re deve poter rispondere come Ificrate rispose all’oratore che nella sua invettiva l’incalzava così: «Ebbene, chi sei, per far tanto lo spavaldo? Sei uomo d’armi? Sei arciere? Sei picchiere?» «Non sono niente di tutto questo, ma sono colui che sa comandare a tutti costoro».10 E Antistene giudicò una prova dello scarso valore di Ismenia il fatto che lo si lodasse di essere un eccellente suonatore di flauto.
[C] So bene che, quando sento qualcuno soffermarsi sul linguaggio dei Saggi, preferirei che ne tacesse. Non è tanto esaltare le parole, quanto avvilire il senso, in modo tanto più pungente quanto più obliquo. Eppure, ch’io possa sbagliarmi se ce ne sono molti altri che offrono di più come sostanza. E comunque sia, male o bene, se qualche scrittore l’ha trattata in modo più sostanziale o almeno più succoso nelle sue carte. Per mettervene di più, ne ammasso solo i punti capitali. Che, se vi unissi anche lo svolgimento, moltiplicherei più volte questo volume. E quante storie vi ho disseminato che non dicono nulla, ma chi vorrà spulciarle con un po’ di acume potrà trarne infiniti saggi. Né esse, né le mie citazioni servono sempre solamente di esempio, di autorità o di ornamento. Non le considero soltanto per l’utile che ne traggo. Esse portano spesso, al di là del mio discorso, il seme di una materia più ricca e più ardita, e danno in sottofondo un suono più delicato, sia per me che non voglio dirne di più, sia per quelli che intenderanno la mia canzone. Tornando alla facoltà di parlare, non trovo gran differenza fra il non saper parlare altro che male e il non saper niente altro che parlar bene. Non est ornamentum virile concinnitas.I 11 [A] I saggi dicono che, riguardo al sapere, non c’è che la filosofia, e riguardo agli effetti, non c’è che la virtù che generalmente convenga a tutti i gradi e a tutte le categorie.
C’è qualcosa di simile in quegli altri due filosofi, poiché anch’essi promettono eternità alle lettere che scrivono ai loro amici.12 Ma in modo diverso, e adattandosi alla vanità altrui per un buon fine: infatti mandano loro a dire che se la premura di farsi conoscere ai secoli a venire e il desiderio della fama li trattiene ancora nel maneggio degli affari, e fa loro temere la solitudine e il ritiro a cui essi vogliono chiamarli, non se ne diano più pensiero; poiché essi hanno abbastanza credito presso la posterità per garantire che, non fosse altro che per le lettere che scrivono loro, renderanno il loro nome altrettanto conosciuto e famoso quanto essi stessi potrebbero fare con le proprie azioni pubbliche. E oltre a questa differenza, non sono, queste, lettere vuote e scarne, che non si sostengono se non per una delicata scelta di parole messe insieme e ordinate in giusto ritmo; ma sono, al contrario, ripiene e colme di bei discorsi di sapienza, con i quali si diventa non più eloquenti, ma più saggi, e che ci insegnano non a parlar bene, ma ad agir bene. Bando all’eloquenza che ci lascia desiderio di sé, non delle cose; a meno che non si dica che quella di Cicerone, essendo di tale sublime perfezione, si dà corpo da se stessa. Aggiungerò ancora un racconto13 che leggiamo di lui a questo proposito, per farci toccar con mano la sua indole. Egli doveva parlare in pubblico, ed era un po’ a corto di tempo per prepararsi a suo agio. Eros, uno dei suoi servi, venne ad avvertirlo che l’udienza era rinviata all’indomani. Egli ne fu così contento che gli concesse la libertà per questa bella notizia.
[B] Su questo argomento delle lettere voglio dir questo, che è un genere nel quale i miei amici ritengono che io valga qualcosa. [C] E avrei scelto più volentieri questa forma per pubblicare le mie fantasie, se avessi avuto a chi parlare. Mi occorreva, come l’ho avuta un tempo, una tal quale relazione che mi attirasse, mi sostenesse e mi sollevasse.14 Poiché discorrere al vento, come altri, io non saprei che di sogni, né saprei inventarmi dei nomi vuoti per trattare di cose serie: nemico giurato quale sono di ogni finzione. Se avessi avuto una guida forte e amica sarei stato più attento e sicuro di quanto sono nel guardare i diversi volti di una folla. E che possa ingannarmi se non avrei fatto migliore riuscita. [B] Ho per natura uno stile medio e familiare. Ma con una forma tutta mia, inadatta alle relazioni di società, come in tutti i modi è il mio linguaggio: troppo conciso, disordinato, spezzato, personale; e non m’intendo di lettere di cerimonia, che non hanno altra sostanza che quella d’una bella infilata di parole cortesi. Non ho né la facoltà né il gusto di quelle lunghe profferte di affetto e di servigi. Non ci credo troppo, e non mi piace dire molto più di quello che credo. Questo è ben lontano dall’uso attuale, poiché non vi fu mai una così abietta e servile prostituzione di offerte: la vita, l’anima, devozione, adorazione, servo, schiavo, tutte queste parole vi ricorrono con tanta frequenza che, quando vogliono manifestare un sentimento più preciso e più rispettoso, non hanno più modo di esprimerlo. Odio a morte puzzare di adulatore. E questo fa sì che tenda d’istinto a un linguaggio secco, schietto e crudo, che per chi non mi conosce altrimenti tende un po’ allo sdegnoso. [C] Onoro di più quelli che onoro di meno; e quando la mia anima procede con grande allegrezza, dimentico i passi della convenienza. [B] E mi offro in modo stentato e rude a coloro a cui sono legato. E mi presento meno a coloro ai quali più mi son dato. Mi sembra che debbano leggerlo nel mio cuore, e che l’espressione delle mie parole faccia torto al mio pensiero. [C] Nel dare il benvenuto, nel prender congedo, nel ringraziare, nel salutare, nell’offrire i miei servigi e in simili complimenti verbosi propri delle regole cerimoniose del nostro viver civile, non conosco nessuno più scioccamente sterile di parole di me. E non mi è mai stato chiesto di fare lettere di favore e di raccomandazione senza che quello per cui le ho scritte non le abbia trovate secche e fiacche.
[B] Gli Italiani sono grandi stampatori di lettere. Ne ho, credo, cento volumi diversi; quelle di Annibal Caro15 mi sembrano le migliori. Se si fossero conservati tutti i fogli che ho imbrattato per le dame un tempo, quando la mia mano era veramente trasportata dalla passione, si troverebbe forse qualche pagina degna di essere resa nota alla gioventù oziosa, rincitrullita da questo furore. Scrivo sempre le mie lettere in fretta, e così precipitosamente che, sebbene io scriva insopportabilmente male, preferisco scrivere di mio pugno piuttosto che servirmi di un altro, perché non trovo nessuno che possa starmi dietro; e non le trascrivo mai. Ho abituato i grandi che mi conoscono a sopportare cancellature, freghi, e una carta senza piegatura e senza margine. Quelle che mi costano di più sono quelle che valgono meno; dal momento che le trascino in lungo, è segno che non ci sono dentro. Comincio volentieri senza un progetto, la prima riga genera la seconda. Le lettere di questi tempi consistono più in frange e prefazioni che in sostanza. Come preferisco comporre due lettere, piuttosto che chiuderne e piegarne una, e lascio sempre quest’incombenza a qualcun altro, così, quando l’argomento è esaurito, darei volentieri a qualcuno l’incarico di aggiungervi quelle lunghe arringhe, profferte e preghiere che mettiamo alla fine, e mi auguro che qualche nuova usanza ce ne dispensi. Come anche dal farvi la soprascritta con la sua filza di qualità e di titoli, per non inciampare nei quali ho più volte tralasciato di scrivere, e specialmente a persone di giustizia e di finanza. Tante sono le innovazioni nelle cariche, così difficili sono la distribuzione e l’ordine dei diversi titoli onorifici, i quali, essendo comprati a così caro prezzo, non possono venir scambiati o dimenticati senza recare offesa. Trovo ugualmente di cattivo gusto caricarne il frontespizio e i titoli dei libri che facciamo stampare.
I Che comandi, vincitore del nemico che lotta, clemente col nemico battuto
I Altri peroreranno cause, descriveranno col compasso i movimenti celesti e parleranno delle stelle scintillanti; questi sappia governare i popoli sotto il suo comando
I L’eleganza non è un ornamento virile