56

Reacher uscì dal granaio undici minuti dopo e vide avvicinarsi il furgone di Dorothy Coe. Nell’abitacolo c’erano tre persone. Dorothy al volante, il dottore sul sedile del passeggero e sua moglie pigiata in mezzo. Restò immobile, stordito, a battere le palpebre al sole con il fucile sottratto al tiratore in una mano e l’altra mano penzoloni. Dorothy Coe rallentò, si fermò e attese a una decina di metri, a distanza di sicurezza, come se già sapesse.

Un lungo minuto dopo le portiere si aprirono e il dottore scese. La moglie si spostò sul sedile di vinile e lo raggiunse. Poi Dorothy Coe scese dalla sua parte. Restò immobile, protetta dalla portiera aperta con una mano sul telaio. Reacher batté le palpebre per l’ultima volta, si passò la mano sulla faccia medicata col nastro e le andò incontro. Lei restò muta per un istante, fece per porre la stessa domanda due volte e due volte si bloccò prima di riuscire al terzo tentativo.

«È là dentro?» chiese.

«Sì», rispose Reacher.

«Ne è sicuro?»

«C’è la sua bici.»

«Ancora? Dopo tutti questi anni? È sicuro che sia la sua?»

«Corrisponde alla descrizione del rapporto di polizia.»

«Sarà tutta arrugginita.»

«Un po’. È asciutto là dentro.»

Dorothy Coe ammutolì. Fissava l’orizzonte a ovest, oltre il granaio, come se non riuscisse a guardare direttamente l’edificio. Era immobile, ma stringeva forte il telaio. Aveva le nocche bianche.

«Sa che cosa le è successo?»

«No», rispose Reacher, il che, tecnicamente, era vero. Non era un patologo. Ma era stato a lungo poliziotto e un paio di cose le sapeva, perciò poteva ipotizzarlo.

«Devo andare a vedere», affermò lei.

«Non lo faccia», ribatté Reacher.

«Devo.»

«No.»

«Voglio.»

«È meglio se non lo fa.»

«Non può fermarmi.»

«Lo so.»

«Non ha diritto di fermarmi.»

«Glielo sto chiedendo, nient’altro. Per favore, non guardi.»

«Devo.»

«Meglio di no.»

«Non intendo starla a sentire.»

«Allora stia a sentire lei. Stia a sentire Margaret. Finga che sia diventata adulta. Immagini quello che sarebbe diventata. Non sarebbe un avvocato o uno scienziato. Amava i fiori. Amava le forme e i colori. Sarebbe diventata una pittrice o una poetessa. Un’artista. Una persona creativa, brillante. Innamorata della vita, piena di buon senso e di attenzioni per lei, e molto saggia. La guarderebbe, scuoterebbe la testa sorridendo e direbbe: Vieni via, mamma, fa’ quello che dice quell’uomo.»

«Lei crede?»

«Direbbe: Mamma, fidati di me.»

«Ma io devo vedere. Dopo tutti questi anni devo sapere.»

«È meglio se non lo fa.»

«Ci sono solo le sue ossa.»

«Non ci sono solo le sue ossa.»

«Che cos’altro può essere rimasto?»

«No. Voglio dire, non ci sono solo le sue ossa.»

Lungo il 49° parallelo il trasferimento stava procedendo come da programma. Il furgone bianco si era diretto lentamente a sud nell’ultimo tratto di Canada e aveva parcheggiato per l’ultima volta in un’aspra radura in mezzo alla foresta, tre chilometri a nord del confine. L’autista era sceso, si era stiracchiato, aveva preso una corda dal vano per i piedi del passeggero e raggiunto il portello posteriore. Lo aveva aperto, aveva gesticolato con insistenza e le donne e le bambine erano scese subito senza riluttanza, senza esitazione, perché entrare in America era quello che volevano, quello che sognavano, quello per cui avevano pagato.

Erano sedici, tutte di zone rurali della Thailandia, sei donne e dieci bambine, pesavano più o meno trentasei chili ciascuna per un carico utile di 572 chili. Le donne erano minute e attraenti, le bambine di otto anni o persino più piccole. Rimasero tutte ferme a battere le palpebre nel sole mattutino e a guardare gli alberi alti attorno; batterono un po’ i piedi per terra, indolenzite e stanche ma eccitate e piene di meraviglia.

L’autista le mise approssimativamente in semicerchio. Non parlava thailandese e loro non capivano la sua lingua, perciò diede inizio alla pantomima recitata più volte in passato. In ogni caso, era probabilmente più rapido che parlare. Prima mosse le mani per calmarle e ottenere la loro attenzione, accostò un dito alle labbra voltandosi a destra e a sinistra lungo l’intero semicerchio con fare esagerato, perché capissero tutte di fare silenzio. Indicò un punto sul terreno e si portò la mano all’orecchio. Ci sono sensori. La terra ascolta. Le donne annuirono deferenti, ansiose di comunicargli che avevano compreso. Indicò se stesso, tutte loro e infine a sud, quindi mosse le dita. Adesso bisogna camminare. Le donne annuirono di nuovo. Lo sapevano. Erano già state informate. L’autista usò entrambe le mani, prima l’una poi l’altra, con i palmi rivolti in basso a imitare l’atto di camminare con delicatezza e leggerezza. Continuò a gesticolare e guardò il semicerchio entrando in contatto visivo con ognuna. Dobbiamo camminare senza far rumore e stare assolutamente zitti. Le donne assentirono impazienti e le bambine lo guardarono timide da dietro le frangette.

L’autista srotolò la corda, misurò due metri dall’estremità e legò la mano della prima donna. Misurò altri due metri e legò la mano della prima bambina, poi la mano di quella successiva, poi ancora la seconda donna e così via finché le ebbe unite tutte per sicurezza. La corda era una guida, nient’altro, non una costrizione. Una sorta di corrimano mobile. Le induceva a muoversi tutte allo stesso passo nella stessa direzione ed evitava che qualcuna si allontanasse e si perdesse. Il trasferimento nella foresta era già abbastanza pericoloso senza dover tornare indietro e girare di qua e di là facendo rumore in cerca delle disperse.

L’autista prese l’estremità della corda e se la legò alla mano. Poi partirono verso sud come un treno, strisciando tra alberi e cespugli. Camminava lento e leggero, pronto a cogliere eventuali segni di agitazione alle spalle. Non ce ne furono, come al solito. Gli asiatici sapevano muoversi in silenzio, soprattutto i clandestini, soprattutto le donne e le bambine.

Per quanto silenzioso fosse il gruppo, venti minuti dopo tuttavia fu chiaramente udito in due località distinte, entrambe a più di novecento chilometri, prima a Fargo, in North Dakota, poi a Winnipeg, in Manitoba. O più precisamente fu segnalato in entrambi posti, dato che i sismografi a distanza tremolarono lievemente quando passò su un sensore sepolto. Ma la deviazione fu minima, a malapena al di sopra del livello del rumore di fondo. A Fargo l’impiegato del dipartimento della Sicurezza interna statunitense controllò il grafico è pensò: Cervi. Forse dalla coda bianca. Forse un’intera famiglia. La sua controparte in Canada controllò il grafico e pensò: Vento, che scuote la neve dagli alberi.

Le donne e le bambine continuarono a camminare lente e circospette, posando con leggerezza i piedi, sopportando con pazienza la terza delle quattro fasi della loro avventura. Prima c’era stato il container, poi il furgone bianco. Adesso c’era la camminata e dopo ci sarebbe stato un altro furgone. Tutto era stato spiegato in anticipo con dovizia di particolari in un piccolo ufficio di spedizioni sopra un magazzino in una città vicina a casa. C’erano tanti uffici e tante organizzazioni del genere, ma quella che avevano usato era considerata da tutti la migliore. Il prezzo era alto ma i servizi eccellenti. Il loro contatto le aveva rassicurate che l’unica sua preoccupazione era che arrivassero in America nelle migliori condizioni, fresche come rose. A quello scopo il container, che sarebbe stato la loro casa per la più lunga delle quattro fasi, era dotato di tutto il necessario. Dentro c’erano lampade con lampadine che simulavano la luce naturale, collegate a batterie d’automobile. C’erano materassi e coperte. Molto cibo, acqua e toilette chimiche. C’erano medicinali. Fessure per la ventilazione mascherate da fori creati dalla ruggine e, in caso non fossero state sufficienti, un ventilatore alimentato dalle stesse batterie delle luci. C’erano bombole d’ossigeno da azionare lentamente se l’aria fosse diventata viziata. C’era un attrezzo per allenarsi, in modo che si tenessero in forma per la camminata di sei chilometri e mezzo oltre il confine. C’era la possibilità di lavarsi, avevano lozioni e creme idratanti per la pelle. Le avevano informate che i furgoni avevano le stesse attrezzature, ma in misura ridotta, perché il viaggio su strada era più corto di quello via mare.

Un’organizzazione eccellente che pensava a tutto.

La cosa migliore era che non avevano pregiudizi nei confronti delle famiglie con bambini. Certe organizzazioni contrabbandavano solo adulti, perché gli adulti potevano lavorare subito, alcune ammettevano i bambini ma solo i maschi più grandi, perché anche loro potevano lavorare. Quell’organizzazione invece accoglieva le bambine e non si preoccupava se erano piccole, il che era ritenuto un atteggiamento molto umano. L’unico lato negativo era che i due sessi dovevano sempre viaggiare separati per decoro, perciò i padri erano separati dalle madri, i fratelli dalle sorelle. In quella circostanza specifica avevano saputo all’ultimo che la nave su cui dovevano viaggiare gli uomini e i ragazzi era in ritardo per qualche motivo, perciò le donne e le bambine erano state costrette a partire prima. Il che era un bene, così avevano detto loro, perché sarebbero state accudite a destinazione per tutto il tempo necessario ad attendere l’arrivo della seconda nave.

Erano state avvertite che la camminata di sei chilometri e mezzo sarebbe stata la parte più difficile dell’intero viaggio, ma in realtà non lo era. Era bello essere fuori all’aria aperta, muoversi. Faceva freddo, ma loro ci erano abituate, perché l’inverno in Thailandia era rigido e comunque indossavano abiti caldi. La parte migliore fu quando la guida si fermò, accostò di nuovo un dito alle labbra e tracciò una linea immaginaria obliqua sul terreno. Indicò al di là di essa e disse con il solo movimento delle labbra: «America». Proseguirono, superarono una alla volta il confine sorridendo felici e finalmente avanzarono sul suolo americano, lente e leggere come ballerine.

L’autista dei Duncan nel furgone grigio al di qua del confine, in Montana, li vide arrivare da cento metri di distanza. Come sempre la sua controparte canadese era in testa alla processione, stabiliva il passo, teneva la corda. Alle sue spalle il carico si snodava apparentemente senza peso, curvava e serpeggiava negli squarci tra gli alberi. L’autista dei Duncan aprì il portello e si accinse ad accoglierle. Il canadese gli porse l’estremità della corda come sempre faceva, quasi fosse il testimone in una staffetta, si girò e rientrò nella foresta sparendo alla vista. L’autista dei Duncan indicò loro a gesti di entrare nel furgone, ma prima che ogni passeggera salisse la guardò in faccia, le sorrise e le strinse la mano in un modo che tutte considerarono un benvenuto ufficiale nel nuovo paese. In realtà l’autista dei Duncan era un uomo che amava scommettere e stava cercando di indovinare in anticipo quale bambina i Duncan avrebbero deciso di tenersi. Le donne sarebbero finite direttamente nelle agenzie di escort di Las Vegas e nove bambine sarebbero finite da qualche parte più in là nella catena, ma una sarebbe rimasta nella contea almeno per un po’ o in verità per sempre, tecnicamente parlando. Compra dieci e vendi nove, quello era il metodo dei Duncan, e l’autista amava osservare le candidate e indovinare quale sarebbe stata la fortunata. Vide quattro possibilità, poi provò un piccolo fremito di eccitazione verso una quinta. Non che sarebbe stata neanche lontanamente riconoscibile quando gliel’avessero passata.

Dorothy Coe restò dietro la portiera aperta per buoni dieci minuti. Reacher era in piedi davanti a lei e la osservava sperando di bloccarle la visuale del granaio, felice di tenerla lì in piedi per tutto il tempo necessario, dieci ore, dieci giorni o dieci anni o anche per sempre, qualsiasi cosa pur di impedirle di entrare. Dorothy Coe aveva lo sguardo lontano migliaia di chilometri e muoveva leggermente le labbra come se discutesse tra sé, guardare o non guardare. Sapere o non sapere.

«Quante ce ne sono?» chiese infine.

«Circa sessanta», disse Reacher.

«O mio Dio.»

«Due o tre all’anno probabilmente», proseguì. «Ci hanno preso gusto. È diventata una dipendenza. Non ci sono fantasmi. Quello che il ragazzino sente ogni tanto è vero.»

«Chi erano?»

«Bambine asiatiche.»

«Lo capisce dalle ossa?»

«L’ultima non è ancora ridotta a ossa.»

«Da dove arrivavano?»

«Da famiglie di immigrati, probabilmente. Illegali, è quasi certo, contrabbandati per il mercato del sesso. Questo fanno i Duncan. Così guadagnano soldi.»

«Erano tutte piccole?»

«Sugli otto anni.»

«Sono sepolte?»

«No», rispose Reacher.

«Sono buttate là e basta?»

«Non buttate. Messe in mostra. È una sorta di tempio.»

Ci fu un silenzio molto, molto lungo.

«Devo vedere», disse Dorothy Coe.

«Non lo faccia.»

«Perché no?»

«Ci sono le fotografie. Come in memoria. Come per ricordo. In cornici d’argento.»

«Devo vedere.»

«Se ne pentirà. Per tutta la vita.»

«Lei ha visto.»

«E me ne sono pentito. Vorrei non averlo fatto.»

Dorothy Coe tacque di nuovo. Inspirò, espirò e guardò l’orizzonte. «Cosa dovremmo fare ora?» chiese dopo un po’.

«Io vado alle case dei Duncan. Se ne stanno là seduti a far niente, convinti che tutto stia andando bene. È ora che scoprano che non è così.»

«Voglio venire con lei», affermò Dorothy Coe.

«Non è una buona idea», obiettò Reacher.

«Devo.»

«Potrebbe essere pericoloso.»

«Spero lo sia. Per certe cose vale la pena di morire.»

«Veniamo anche noi. Tutti e due. Partiamo subito», esclamò la moglie del dottore.

Child Lee - 2013 - Una ragione per morire: Un'avventura di Jack Reacher
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