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Jack Reacher era l’uomo grande e grosso con il parka marrone e quella strada per lui era iniziata circa sette chilometri prima, a metà serata, con lo squillo di un telefono nel bar di un motel a un incrocio, dove un automobilista che gli aveva dato un passaggio lo aveva lasciato prima di prendere una direzione in cui Reacher non voleva andare. La terra attorno era buia e piatta, morta e desolata. Il motel era l’unico segno di vita. Sembrava esser stato costruito quaranta o cinquant’anni prima in un empito d’entusiasmo commerciale. Forse per quel luogo si prevedevano grandi possibilità. Ma chiaramente non si erano mai materializzate o forse erano state fin dall’inizio un’illusione. In uno dei quattro spiazzi all’incrocio si stagliava lo scheletro di una stazione di servizio abbandonata. In un altro erano state gettate fondamenta, forse per un grande magazzino o persino per un piccolo centro commerciale, ma i lavori si erano fermati lì. Un altro era completamente vuoto.
Il motel tuttavia aveva resistito. Aveva una sagoma ardita. Ricordava i disegni che Reacher aveva visto da bambino nei libri di fumetti, delle colonie spaziali sulla Luna o su Marte. Il corpo principale era perfettamente rotondo con un tetto a cupola. Alle sue spalle, i bungalow avevano la stessa forma ed erano disposti in modo da comporre un’ampia voluta che li faceva sembrare man mano sempre più piccoli per via dell’effetto prospettico. Verso il fondo si trovavano quelli singoli. Tutti i rivestimenti esterni erano dipinti d’argento, porte e finestre erano incorniciate da modanature verticali d’alluminio ben distanziate. Una luce azzurra spettrale si diffondeva dalle lampade al neon nascoste nelle gronde dei tetti circolari. I sentieri erano di ghiaia grigia, delimitati da assi di legno anch’esse dipinte d’argento. Il palo a cui era affissa l’insegna era rivestito da compensato per ricordare un razzo spaziale appoggiato a tre alette sottili. Il nome del motel era Apollo Inn, scritto in caratteri simili ai numeri in fondo agli assegni.
L’edificio principale era un open space, tranne per una piccola area a parte che costituiva il back office e quelli che Reacher immaginò fossero due bagni. Un bancone curvo delimitava la reception mentre a una trentina di metri, dalla parte opposta, si trovava la zona bar, anch’essa circolare, con un bancone circondato da alcuni sgabelli e un pavimento in parquet, tipo pista da ballo, oltre a varie poltroncine di velluto rosso ammassate attorno ai tavolini su cui spiccavano lampade con paralumi bordati di nappe. Il tetto a cupola era un ciclorama concavo illuminato da una luce rossa al neon. C’erano molte altre luci indirette, tutte rosse o rosa. Le casse nascoste diffondevano una musichetta per pianoforte a basso volume. Era un posto stravagante da ogni punto di vista, una sorta di visione anni Sessanta di Las Vegas trasportata nello spazio.
Ed era deserto, fatta eccezione per un avventore e per un uomo dietro il bancone del bar. Reacher attese alla reception. L’uomo dietro il bancone arrivò quasi subito e sembrò sinceramente sorpreso dalla richiesta di una stanza, quasi si trattasse di un evento raro. Però si mostrò disponibile e in cambio di trenta dollari in contanti tirò fuori una chiave. Aveva superato la mezza età, dimostrava cinquantacinque o forse sessant’anni, non era né alto né magro e aveva una folta chioma di capelli tinti di un color ruggine brillante che a Reacher ricordava l’acconciatura di certe donne francesi piuttosto in là con gli anni. Dopo avere posato i trenta dollari in un cassetto, l’uomo fece una meticolosa annotazione su un registro. Doveva essere l’erede degli squilibrati che avevano costruito quel posto. Probabilmente non aveva lavorato da nessun’altra parte in vita sua e sbarcava il lunario svolgendo la quintuplice funzione di direttore, addetto alla reception, barista, tuttofare e uomo delle pulizie. Chiuse il registro e lo mise in un altro cassetto, poi si diresse di nuovo verso il bar.
«Si può avere un caffè?» gli chiese Reacher.
L’uomo si girò. «Certo», disse con un sorriso e una certa soddisfazione, come se l’usanza di accendere ogni sera la caffettiera Bunn si fosse infine dimostrata vincente. Reacher lo seguì fendendo la luce al neon e si appollaiò su uno sgabello a tre posti di distanza dall’altro cliente, un uomo sulla quarantina che indossava una pesante giacca sportiva di tweed con toppe di pelle sui gomiti. L’uomo teneva i gomiti sul banco e le mani strette protettivamente su un bicchiere da whisky pieno di ghiaccio e di un liquido ambrato, fissandolo con sguardo assente. Probabilmente non era il primo della sera. Forse neanche il terzo o il quarto. Aveva la pelle sudaticcia. Sembrava parecchio andato.
L’uomo dai capelli tinti versò il caffè in una tazza di porcellana con il logo della NASA e la fece scorrere sul banco con fare compunto e quasi altezzoso. Forse si trattava di un pezzo d’antiquariato di valore inestimabile.
«Panna?» chiese. «Zucchero?»
«Niente», rispose Reacher.
«È di passaggio?»
«Ho intenzione di andare a est prima possibile.»
«Quanto a est?»
«Fino in fondo», rispose lui. «In Virginia.»
L’uomo dai capelli tinti annuì con aria riflessiva. «Allora dovrà prima andare a sud. Fino a incrociare l’autostrada.»
«Quello è il piano», confermò Reacher.
«Da dove è partito oggi?»
«Da un posto più a nord», disse Reacher.
«In macchina?»
«In autostop.»
L’uomo dai capelli tinti non aggiunse altro perché non c’era altro da aggiungere. I baristi amano la chiacchiera, ma quella conversazione non avrebbe mai potuto prendere una piega allegra. Trovare un passaggio su una strada nel cuore dell’inverno nel quarantunesimo Stato meno popolato dei cinquanta americani non sarebbe stato facile, e l’uomo era troppo garbato per farlo presente. Reacher prese la tazza cercando di tenerla ferma. Un test. Il risultato non fu buono. Ogni tendine, ogni legamento e ogni muscolo dalla punta delle dita alla gabbia toracica bruciava e tremava. Il tocco della mano generò piccole onde concentriche nel caffè. Reacher si concentrò e portò la tazza alle labbra cercando di compiere un movimento fluido, ma senza riuscirci. Il braccio si muoveva a scatti. L’ubriaco lo osservò per un istante e poi distolse lo sguardo. Il caffè era caldo e un po’ troppo carico, però forniva la caffeina, cioè l’unica cosa necessaria. L’ubriaco bevve un sorso, posò il bicchiere sul sottobicchiere e lo fissò afflitto. Aveva le labbra leggermente socchiuse e agli angoli si stavano formando bollicine di saliva. Bevve un altro sorso. Anche Reacher bevve un altro sorso, più lentamente. Nessuno parlò. L’ubriaco vuotò il bicchiere e se lo fece riempire di nuovo. Jim Beam. Bourbon, come minimo triplo. Il braccio di Reacher iniziò a migliorare un po’. Il caffè cura tutti i mali.
Fu allora che squillò il telefono.
In verità, ne squillarono due. Un numero, due apparecchi, uno sul banco della reception, l’altro sulla mensola dietro al bar. La quintuplice funzione. L’uomo dai capelli tinti non poteva essere dappertutto nello stesso momento. Sollevò il ricevitore ed esclamò «Apollo Inn», con un tono fiero, allegro ed entusiasta come se avesse ricevuto la prima telefonata nella sera dell’inaugurazione del locale. Ascoltò per un po’, accostò il microfono al petto e disse: «Dottore, è per lei».
Reacher guardò automaticamente dietro di sé in cerca di un dottore. Non c’era nessuno. «Chi è?» chiese l’ubriaco.
«La signora Duncan» rispose il barista.
«Che cos’ha?» chiese ancora l’ubriaco.
«Le sanguina il naso. Non si ferma.»
«Le dica che non mi ha visto», replicò.
L’uomo dai capelli tinti riferì la menzogna e posò il telefono. L’ubriaco si accasciò fin quasi ad avere la faccia all’altezza dell’orlo del bicchiere.
«Lei è un medico?» gli domandò Reacher.
«Che gliene importa?»
«La signora Duncan è sua paziente?»
«Tecnicamente.»
«E la liquida così?»
«Chi è lei, un membro del comitato etico? Si tratta di una semplice epistassi.»
«Che non si ferma. Potrebbe essere grave.»
«Ha trentatré anni ed è sana. Non ha un’anamnesi positiva per ipertensione o malattie del sangue. Non fa uso di droga. Non c’è ragione di allarmarsi.» L’uomo prese il bicchiere. Tracannò e deglutì, tracannò e deglutì.
«È sposata?» chiese Reacher.
«Perché, adesso il matrimonio provoca emorragia nasale?»
«A volte», rispose Reacher. «Ero poliziotto militare. A volte venivamo chiamati fuori dalla base o negli alloggi dei soldati sposati. Le donne che vengono picchiate prendono molta aspirina per placare il dolore. Ma l’aspirina fluidifica il sangue, perciò quando vengono picchiate di nuovo l’emorragia non si ferma.»
L’ubriaco non disse nulla.
Il barista distolse lo sguardo.
«Capita spesso?» domandò Reacher.
«È un’epistassi, tutto qui», insistette l’ubriaco.
«Ha paura di mettersi in mezzo in una lite domestica?» incalzò Reacher.
Nessuno parlò.
«Potrebbero esserci altre lesioni», proseguì. «Forse meno visibili. È una sua paziente.»
Nessuno parlò.
«Un’epistassi non è diversa da una qualunque emorragia in un’altra parte del corpo. Se il sangue non si ferma, quella donna perderà i sensi. È come una ferita da coltello. Non la lascerebbe lì con una ferita da coltello, vero?»
Nessuno parlò.
«In ogni caso», soggiunse Reacher, «non sono affari miei. E lei non sarebbe di alcuna utilità. Non riuscirebbe nemmeno a guidare fin lì, ovunque abiti la signora. Però dovrebbe chiamare qualcuno.»
«Non c’è nessuno. C’è un pronto soccorso a cento chilometri. Ma non manderanno un’ambulanza da cento chilometri di distanza per un’epistassi», spiegò l’ubriaco.
Reacher bevve un altro sorso di caffè. L’ubriaco non toccò il bicchiere. «Certo, avrei problemi a guidare. Ma una volta là me la caverei bene. Sono un bravo medico.»
«Non vorrei vederne all’opera uno cattivo», commentò Reacher.
«So, per esempio, cos’ha lei che non va. Fisicamente, intendo. Mentalmente, non ne ho idea.»
«Vacci piano, amico.»
«Altrimenti cosa?»
Reacher non replicò.
«È una semplice epistassi», ripeté il dottore. «Un po’ di anestetico locale. Un po’ di garza nelle narici. La pressione fermerà l’emorragia, aspirina o non aspirina.»
Reacher annuì. Lo aveva già visto fare nell’esercito. «Allora andiamo, dottore. Guiderò io», disse.