22

Il semiarticolato canadese con il carico dei Duncan procedeva spedito verso est sulla Route 3 nella British Columbia, quasi parallelo al confine internazionale dritto come una tavola, con l’Alberta davanti. La Route 3 era una strada solitaria di montagna con salite ripide e curve strette. Non ideale per un veicolo grosso. I guidatori prendevano in genere la Route 1, che da Vancouver piegava a nord prima di dirigersi a est. Una strada migliore, tutto sommato. Ma la 3 era più tranquilla. Correva per lunghi tratti in mezzo al nulla, un nastro d’asfalto nella natura selvaggia. C’era ben poco traffico e ogni tanto qualche piazzola di ghiaia per riposare e riprendere le forze.

Una di queste piazzole era situata un paio di chilometri prima del Waterton Lakes National Park. Rispetto agli Stati Uniti era proprio al di sopra del confine con lo Stato di Washington e l’Idaho, quasi a metà strada tra Spokane e Coeur d’Alene, a circa centocinquanta chilometri a nord di entrambe. Aveva una vista sorprendente. Foreste infinite a sud, la catena innevata delle Montagne Rocciose a est, splendidi laghi a nord. L’autista del camion accostò e parcheggiò, ma non per la vista. Lo fece perché era un luogo prestabilito e perché un furgone bianco lo stava aspettando. I Duncan facevano affari da molto tempo grazie alla fortuna e alla cautela, e uno dei loro principi cautelativi era trasferire quanto prima la merce tra i veicoli dopo l’importazione. I container potevano essere rintracciati. Erano in effetti concepiti per esserlo mediante il codice BIC. Meglio non rischiare che qualche sospettoso agente delle dogane lanciasse un allarme in ritardo. Meglio spostare la merce nel giro di poche ore su un mezzo anonimo, ordinario e non rintracciabile, e i furgoni bianchi erano i veicoli più anonimi, ordinari e meno rintracciabili al mondo.

Il semiarticolato parcheggiò. Il furgone fece inversione sulla ghiaia, si avvicinò in retromarcia e gli si fermò accanto, coda contro coda. Gli autisti scesero. Non parlarono. Misero semplicemente piede sulla strada, allungarono il collo e controllarono cosa stesse arrivando, uno da est, l’altro da ovest. Non stava arrivando niente, il che non era insolito sulla Route 3, pertanto tornarono di corsa ai veicoli e si misero all’opera. L’autista del furgone aprì il portello posteriore, quello del camion salì sul pianale, tagliò il sigillo di sicurezza di plastica, azionò chiavistelli e leve e aprì le porte del container.

Un minuto dopo la merce fu trasferita, tutti i 572 chili; un minuto dopo ancora il furgone bianco fece di nuovo inversione e partì verso est, seguito dal semiarticolato che intendeva svoltare a nord sulla 95 e tornare indietro a ovest per la Route 1, fino a Vancouver, per il prossimo lavoro che probabilmente sarebbe stato legale e quindi preferibile per la pressione sanguigna, ma non per il portafoglio.

A Las Vegas il libanese chiamato Safir scelse i due uomini migliori e li mandò a tener d’occhio l’italiano chiamato Rossi. Una decisione incauta, come emerse nel giro di un’ora. Il telefono di Safir squillò e lui rispose ritrovandosi a parlare con un iraniano chiamato Mahmeini. Mahmeini era cliente di Safir, ma il loro rapporto d’affari non era paritario. Mahmeini era cliente di Safir così come un re poteva essere cliente di un calzolaio. Molto più potente, autoritario, borioso, sprezzante, incline a micidiali scoppi d’ira se le scarpe erano malfatte.

O arrivavano in ritardo.

«Avrei dovuto ricevere la merce una settimana fa», esordì Mahmeini.

Safir non riuscì a proferire parola. Aveva la bocca secca.

«Ora prova a vederla dal mio punto di vista. Quella merce è già stata assegnata a determinate persone in determinati luoghi per usi specifici in date prestabilite. Se non viene consegnata in tempo, subisco una perdita.»

«Sistemerò le cose», rispose Safir.

«So che lo farai. È lo scopo della mia chiamata. Abbiamo molte cose di cui discutere, perché la mia perdita non sarà un episodio isolato ma continuativo. La mia reputazione verrà rovinata. Perché i miei contatti dovrebbero fidarsi ancora di me? A quel punto li perderei per sempre. Il che significa che dovresti compensarmi per sempre. Diventerei in effetti tuo creditore a vita. Capisci il mio punto di vista?»

«Credo che il carico sia in viaggio», fu tutto ciò che Safir riuscì a dire.

«Con una settimana di ritardo.»

«Anch’io subisco un danno. E sto cercando di fare qualcosa. Ho costretto il mio contatto a mandare due dei suoi lassù. Poi ho mandato due dei miei uomini da lui, per accertarmi che si concentri a dovere.»

«Uomini?» osservò Mahmeini. «Impieghi uomini? O ragazzini?»

«È gente in gamba.»

«Tra poco scoprirai che cos’è un uomo. Ti mando due dei miei. Per accertarmi che ti concentri a dovere.»

Poi il telefono tacque e Safir rimase seduto ad aspettare l’arrivo di due scagnozzi iraniani in un ufficio che solo un’ora prima era stato privato della parte migliore della security.

Reacher raggiunse i due edifici di legno senza ulteriori problemi, il che non lo stupì molto. Sei giocatori di football rimasti e due forestieri facevano in totale otto uomini, e supponeva che i forestieri viaggiassero insieme, il che significava in totale sette veicoli in giro in una contea di varie centinaia di chilometri quadrati. Un incontro casuale era stato davvero fortuito. Due erano proprio improbabili.

Il vecchio granaio era ancora chiuso e inclinato, il pick-up ancora nascosto nel capanno più piccolo. Da quel che poté vedere, nessuno lo aveva scoperto né toccato. Era freddo e inerte. L’aria nel capanno era secca, puzzava di polvere e di escrementi di topo. La campagna circostante era desolata e silenziosa.

Reacher aprì la cassetta degli attrezzi sul pianale e diede un’occhiata al contenuto. L’oggetto più grande che vi restava era una chiave inglese regolabile lunga trenta centimetri. Di una lega di acciaio lucidata. Pesava all’incirca seicento grammi. Era di fabbricazione nazionale. Non l’arma più efficace del mondo, ma meglio di niente. Reacher la infilò nella tasca del giaccone e frugò in cerca d’altro. Trovò due cacciaviti, un Phillips tozzo a stella con il manico di gomma e uno lungo e sottile con una lama a taglio. Li infilò nell’altra tasca, chiuse la cassetta e salì nell’abitacolo. Accese il motore, fece retromarcia e seguì i profondi solchi del trattore fino in fondo, diretto a est, verso la strada; lì svoltò a nord per andare al motel.

Gli scagnozzi di Safir arrivarono nell’ufficio di Rossi con la pistola nella fondina ascellare e due sacchi di nylon nero in mano. Li aprirono sulla scrivania di Rossi, proprio davanti a lui. Nel primo c’era un solo oggetto, nel secondo ce n’erano due. Dal primo spuntò una smerigliatrice con un nastro abrasivo nuovo a grana grossa. Dal secondo uscirono un cannello per saldare a propano e un rotolo di scotch.

Gli arnesi del mestiere.

E un messaggio inequivocabile per un uomo, nel mondo di Rossi. Nel mondo di Rossi le vittime venivano legate nude alle sedie con il nastro adesivo, le smerigliatrici accese e applicate alle zone delicate come le ginocchia, i gomiti o il petto. O persino alla faccia. I cannelli servivano per un pizzico di divertimento in più.

Nessuno parlò.

Rossi compose un numero. Tre squilli e Roberto Cassano rispose in Nebraska. «Che diavolo sta succedendo lassù? Questa faccenda non può proprio aspettare», esclamò Rossi.

«Stiamo inseguendo un fantasma», rispose Cassano.

«Inseguitelo meglio.»

«Che senso ha? Quel tizio ha davvero qualcosa a che fare con questa faccenda? Ci hai detto che secondo te è una scusa. Perciò, qualsiasi cosa succeda, il carico non arriverà prima.»

«Hai mai mentito?»

«Non a te, capo.»

«Ad altri?»

«Sì.»

«Allora sai come funziona. Organizzi le cose in modo da non essere scoperto. E secondo me è quello che stanno facendo quei bastardi dei Duncan. Terranno il carico da qualche parte finché quel tizio non verrà preso. Per far sembrare che hanno sempre detto la verità. Causa ed effetto. Totale, che lo vogliamo o no, dovremmo giocare la partita a modo loro. Quindi trovate quel coglione, intesi? E in fretta. Questa faccenda non può proprio aspettare.»

Rossi chiuse la telefonata. Uno dei libanesi aveva svolto il cavo della smerigliatrice. Si chinò e lo infilò nella presa. Premette il pulsante solo per un attimo, per un secondo. L’apparecchio si accese, girò e si fermò.

Una prova.

Un messaggio.

Reacher arrivò al motel e parcheggiò accanto alla carcassa della Subaru del dottore. Era ancora là, davanti al bungalow sei. Scese, si accovacciò davanti e dietro, e con il cacciavite più piccolo che aveva in tasca tolse le targhe del pick-up. Tolse le targhe della Subaru e le mise al pick-up. Gettò quelle del pick-up sul pianale, rimise il cacciavite in tasca e si diresse al bar.

Vincent era là, dietro il bancone, e lo stava pulendo con uno straccio. Aveva un occhio nero, un labbro tumefatto e un livido grande quanto una salsiccia sulla guancia. Uno degli specchi alle sue spalle era rotto. Si erano staccati alcuni pezzi di vetro a forma di saetta. Si vedeva il vecchio pannello da rivestimento fermato col nastro adesivo e ingiallito, ordinario e dozzinale. L’illusione d’allegria creata dalla sala era compromessa.

«Mi spiace di averla messa nei guai», disse Reacher.

«Ha passato la notte qui?» domandò Vincent.

«Vuole davvero saperlo?»

«No, suppongo di no.»

Reacher si guardò nello specchio rotto. Su un orecchio, là dove aveva sfregato contro la roccia, si stava formando la crosta. Aveva la faccia piena di graffi dei rovi. Anche le mani e la schiena, nei punti in cui giacca, felpa e camicia si erano sollevate. «Quei tizi hanno una lista di posti in cui cercare?» chiese.

«Immagino vadano di casa in casa», rispose Vincent.

«Che auto guidano?»

«Una a noleggio.»

«Di che colore?»

«Scura. Blu scura, forse. Una Chevrolet, credo.»

«Hanno detto chi fossero?»

«Solo che rappresentavano i Duncan. Così l’hanno messa. Mi spiace di aver detto loro di Dorothy.»

«Se l’è cavata bene», osservò Reacher. «Non si preoccupi. Nella vita ha avuto guai peggiori.»

«Lo so.»

«Pensa che i Duncan abbiano ucciso sua figlia?»

«Vorrei che le cose stessero così. Combacerebbe con quello che pensiamo di sapere di loro.»

«Ma?»

«Non c’erano prove. Neanche una. È stata un’indagine molto accurata. Molto professionale. Con diversi attori in gioco. Dubito sia sfuggito qualcosa.»

«Quindi è stata solo una coincidenza?»

«Dev’essere andata così.»

Reacher non disse nulla.

«Ora che farà?» domandò Vincent.

«Un paio di cose», rispose lui. «Forse tre. Poi me ne andrò di qui. In Virginia.»

Tornò nel parcheggio e salì sul pick-up. Lo accese e imboccò la strada, diretto alla casa del dottore.

Child Lee - 2013 - Una ragione per morire: Un'avventura di Jack Reacher
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