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Un SUV bianco parcheggiò sulla strada al di là del recinto e l’uomo che aveva spaccato il naso a Reacher scese dal posto di guida. Si aprì la portiera del passeggero e uscì il ragazzo di nome John. Quello che Reacher aveva lasciato al deposito. Va’ a letto, gli aveva suggerito. Ma il ragazzo non era andato a letto. Aveva atteso finché aveva saputo che la situazione era tranquilla e si era fatto vedere per non perdersi la sua parte di divertimento.
Idiota, idiota, idiota.
L’atrio era quasi troppo affollato per muoversi. Era pieno di giocatori, quattro, gettati qua e là come carcasse, come balene spiaggiate con gli arti legati dal nastro adesivo e le teste ciondoloni. Reacher si fece strada tra loro e guardò da una finestra: i due ritardatari superarono il pick-up di Dorothy Coe e lo Yukon di John a passo svelto per l’umidità e il freddo, diretti alla porta d’ottimo umore.
Reacher la aprì e uscì per andare loro incontro. Estrasse il fucile a canna mozza con un movimento lungo, molto esagerato, come un pirata che impugnasse un’antica pistola a pietra focaia, lo tenne con la destra con il gomito piegato in posizione comoda e lo puntò contro l’uomo che lo aveva colpito. Ma guardò John.
«Mi hai deluso», affermò.
I due si bloccarono di colpo e lo fissarono con più insistenza di quel che ritenesse giustificato, poi Reacher si ricordò del nastro adesivo sulla faccia. Come pittura di guerra. Sorrise e lo sentì arricciarsi. Guardò l’uomo che lo aveva colpito ed esclamò: «Niente che non possa essere sistemato. Purtroppo non sono sicuro che tu potrai dire lo stesso».
Nessuno dei due parlò. Reacher tenne lo sguardo fisso sull’uomo che lo aveva colpito. «Prendi le chiavi dell’auto e gettamele», ordinò.
«Cosa?» fece il giocatore.
«Mi sono stancato dello Yukon di John. Userò il tuo furgone per il resto del giorno.»
«Tu pensi?»
«Ne sono più che certo.»
Non ci fu replica.
«È tempo di decidere, ragazzi. O fate quello che vi dico o vi prendete un proiettile in corpo», disse Reacher.
Il giocatore mise la mano in tasca ed estrasse un mazzo di chiavi. Le tenne brevemente sollevate per mostrare cos’erano e le tirò dal basso in alto a Reacher, che non fece alcun tentativo di afferrarle. Gli rimbalzarono sul giaccone e atterrarono sulla ghiaia. Reacher voleva avere la sinistra libera e l’attenzione tutta concentrata in un punto. Guardò di nuovo il giocatore che lo aveva colpito. «Come sta il tuo naso ora?» chiese.
«Bene», rispose questi.
«Sembra che tu te lo sia rotto in passato.»
«Due volte», ammise.
«Be’, dicono che il tre sia un numero fortunato. Che la terza volta sia quella buona», osservò Reacher.
Nessuno parlò.
«John, stenditi per terra a faccia in giù.»
John non si mosse.
Reacher gli sparò accanto ai piedi. Il fucile rimbombò, rinculò e il suono si diffuse per i campi, sordo e nitido, come l’esplosione in una cava. John cacciò un urlo e saltellò di qua e di là. Non era stato ferito ma colpito alle gambe dalla ghiaia sollevata dallo scoppio. Reacher attese che tornasse il silenzio e riarmò il fucile, probabilmente il rumore più intimidatorio del mondo. Il bossolo fu espulso, volò in aria e atterrò vicino alle chiavi rotolando via.
John si mise a terra. Prima in ginocchio, goffo, come se fosse in chiesa, poi allargò le mani e si stese a faccia in giù con riluttanza, come se un allenatore di cattivo umore lo costringesse a fare cento flessioni. «Dottore? Mi porterebbe il nastro adesivo?» gridò Reacher in direzione della casa.
Da dentro non giunse risposta.
«Non si preoccupi, dottore. Non ci saranno ritorsioni. Mai più. Questo è l’ultimo giorno. Da domani vivrete come persone normali. Questi uomini saranno disoccupati e torneranno da dove sono venuti in cerca di un nuovo lavoro.»
Ci fu un silenzio lungo, teso. Un minuto dopo il dottore uscì con il nastro. Non guardò i due giocatori. Tenne la faccia rivolta da un’altra parte e lo sguardo basso. Una vecchia abitudine. Porse il rotolo a Reacher e rientrò. Questi gettò il nastro all’uomo che lo aveva colpito. «Fa’ in modo che il tuo amico non possa muovere braccia e gambe. Altrimenti ci penserò io con qualche altro metodo, tra cui probabilmente qualche lesione spinale», disse.
Il giocatore prese il nastro e si mise al lavoro. Avvolse i polsi di John a otto, con tre strati di nastro teso, poi lo passò più volte attorno al centro dell’otto per creare un paio di manette di plastica. Reacher non aveva idea della resistenza alla rottura del nastro adesivo in termini squisitamente scientifici ma sapeva che nessun essere umano poteva spezzarlo in senso longitudinale. Il giocatore fece lo stesso con le caviglie. «Adesso lega insieme polsi e caviglie. Unisci tutto», ordinò Reacher.
Il giocatore gli piegò le gambe all’indietro e passò il nastro tra i polsi e le caviglie, quattro giri, ciascuno di una trentina di centimetri. Strinse tutto con forza e si scostò. Reacher prese la chiave inglese e la sollevò. Era sporca di sangue e di capelli, dei due giocatori precedenti. La gettò a terra alle sue spalle. Prese il coltello a serramanico. Lo gettò a terra alle sue spalle. Prese la Glock. La gettò a terra alle sue spalle. Si voltò e posò il fucile a canna mozza accanto alla pistola. Si tolse la giacca e la lasciò cadere. Copriva tutte e quattro le armi. Guardò l’uomo che lo aveva colpito e disse: «Un combattimento equo. Tu contro di me. I giocatori di riserva del Nebraska contro l’esercito statunitense. A mani nude. Niente regole. Se riuscirai a battermi, potrai usare tutto ciò che c’è sotto la giacca».
L’uomo restò perplesso per un secondo, poi sorrise vagamente come se fosse sorto il sole, come se gli fosse offerta un’incredibile opportunità, come se si fosse aperta una breccia nella difesa serrata e lui avesse individuato una traiettoria rettilinea per la end zone. Si sollevò sulle punte, inclinò il corpo, chiuse la destra a pugno sotto il mento e si preparò a partire con il sinistro.
Anche Reacher sorrise, ma solo appena. Quel tizio saltellava come il marchese di Queensberry. Non aveva idea. Non aveva assolutamente idea. Forse l’ultimo combattimento che aveva visto era in un film di Rocky. Era alto due metri e pesava più di centotrenta chili, ma non era altro che un bue da mostra, grosso, stupido e lucido, contro un ratto dei bassifondi.
Un ratto da centotredici chili.
Il giocatore avanzò, ondeggiò e dondolò per un istante sollevandosi di nuovo sulle punte. Oscillò, si abbassò e si protese sprecando tempo ed energie. Reacher rimase perfettamente immobile e lo studiò con gli occhi bene aperti per avere una buona visione periferica focalizzando lo sguardo su tutto e su niente, in stato di iperallerta. Ne controllava occhi, mani e piedi. Ben presto il giocatore fece partire il jab sinistro, l’ovvia prima mossa per un destrimano che pensava di trovarsi su un ring. Qualsiasi jab sinistro seguiva la stessa traiettoria di base di un diretto sinistro, ma con forza molto minore perché era alimentato solo dal braccio, a partire dal gomito, senza un vero contributo da parte delle gambe, del tronco o delle spalle. Non c’era un’effettiva potenza. Reacher guardò le grosse nocche rosa avvicinarsi, dopodiché spostò fulmineo la sinistra davanti a sé, verso l’alto e all’esterno, come un uomo che scacciasse una vespa. Colpì il lato interno del polso dell’avversario con forza tale da alterare la traiettoria del diretto, da deviarlo dalla sua faccia e indirizzarlo al di sopra della sua spalla in movimento.
In movimento perché Reacher si stava già sollevando a partire dal piede posteriore per scattare in avanti, girare il busto, aumentare la forza di torsione e infilare il gomito destro nello spazio che aveva creato facendo ruotare l’avversario di pochi centimetri in senso antiorario. Ciò per colpirlo sul bordo esterno dell’orbita sinistra nella speranza di spaccargli il cranio lungo la linea della tempia. Niente regole. Il colpo andò a segno con tutti i centotredici chili di massa in movimento che vi stavano dietro. Fu un impatto poderoso, colossale, che Reacher avvertì fino alla punta dei piedi. Il giocatore barcollò all’indietro, ma rimase in piedi. Evidentemente il cranio non si era spaccato, ma l’uomo aveva accusato il colpo. Lo aveva accusato a tal punto che stava spalancando la bocca per mettersi a urlare, perciò Reacher gliela richiuse con un feroce montante sotto il mento, una mossa convulsa, tutt’altro che elegante ma efficace. La testa del giocatore si spostò di scatto all’indietro in una nube di sangue e rimbalzò di nuovo in avanti a causa dei deltoidi massicci, al che Reacher mirò all’altra orbita con il gomito sinistro assestandogli un colpo rapido e violento, poi gli cacciò l’avambraccio destro nella gola, una vera mossa da fuoricampo. Gli sferrò una ginocchiata nell’inguine, si portò alle sue spalle e gli tirò un forte calcio nell’incavo delle ginocchia con un movimento ad arco. Le gambe cedettero e il giocatore piombò pesantemente sul vialetto, di schiena.
Sei colpi, tre secondi.
Niente regole.
I giocatori di riserva del Nebraska contro l’esercito degli Stati Uniti.
Ma quell’uomo era forte. O spaventato. O entrambe le cose. In ogni caso, non mollò. Iniziò ad annaspare come una tartaruga per rialzarsi graffiando il terreno, sbattendo la testa di qua e di là. Forse la mossa corretta sarebbe stata contare fino a otto, ma avere il tuo avversario a terra è una manna per un ratto dei bassifondi, un pranzo di gala, un dono prezioso che non si rifiuta mai, perciò Reacher lo immobilizzò con un potente calcio nell’orecchio, poi gli calpestò la faccia con il tallone quasi fosse uno scarafaggio e lo scricchiolio del naso che si spaccava risuonò netto al di sopra degli ansiti, dei grugniti, dei gemiti e dei lamenti generali.
Game over. Otto colpi in sei secondi: per i suoi standard personali, Reacher era stato penosamente lento e sgraziato, ma in fondo quel tizio era enorme, aveva il tono muscolare e la resistenza di un atleta ed era abituato a una certa dose di maltrattamenti fisici. Era stato quasi in partita. A malapena a un livello accettabile. Non il peggiore che Reacher avesse visto. Quattro anni di football al college equivalevano probabilmente a quattro giorni di addestramento dei Ranger, e molte persone che Reacher aveva conosciuto non ne avevano fatti neanche tre.
Legò il giocatore con il nastro adesivo formando manette unite a quattro giri di nastro attorno al suo collo e ceppi alle caviglie uniti a quattro giri di nastro attorno al collo di John. Tornò nell’atrio e sistemò meglio i due arrivati per primi. Li spostò trascinandoli sul parquet lucido e li legò insieme, schiena contro schiena, come i due colpiti nel cuore della notte. Si alzò e riprese fiato.
Poi si sentì il trillo di un telefono, attutito e distante.
Era il cellulare di Dorothy Coe. Il suono era smorzato perché lo aveva con sé, dietro la porta chiusa della stanza. Uscì con l’apparecchio in mano, guardò i quattro uomini legati sul pavimento dell’atrio e sorrise come per una tacita ironia, come se la normalità si stesse infiltrando in una giornata del tutto anomala. «Era il signor Vincent del motel. Vuole che vada a lavorare stamattina. Ha ospiti.»
«Chi sono?» domandò Reacher.
«Non lo ha detto.»
Reacher rifletté per un istante. «Va bene.» Poi disse al dottore di controllare le condizioni di tutti e sei i giocatori catturati, uscì sul vialetto e si infilò il giaccone. Rimise in tasca l’arsenale improvvisato, trovò le chiavi dell’auto dove erano cadute, sulla ghiaia, e si avviò verso il SUV bianco parcheggiato al di là del recinto.
Eldridge Tyler si mosse solo un po’, ma abbastanza da restare comodo. Era la sua seconda ora del giorno. Lui era un uomo paziente. Aveva ancora l’occhio sul cannocchiale. Il cannocchiale era ancora puntato sul portone del granaio, quindici centimetri a sinistra della porta, quindici centimetri più in basso. La parte anteriore del calcio era ancora annidata nei sacchi di riso. L’aria era umida e densa, ma il sole era forte e la visuale buona.
L’uomo grande e grosso con il giaccone marrone però non era arrivato.
Non ancora.
E forse non sarebbe arrivato mai, se i Duncan erano riusciti ad acchiapparlo nel corso della notte. Tyler, tuttavia, era ancora perfettamente all’erta, perché era cauto per natura e prendeva sempre sul serio gli incarichi, e perché forse i Duncan non ce l’avevano fatta a prenderlo. Nel qual caso l’uomo grande e grosso si sarebbe fatto vedere molto presto. Perché avrebbe dovuto attendere? La luce del giorno era tutto ciò che gli serviva.
Tyler tolse il dito dal grilletto, flesse la mano una, due volte e posò di nuovo l’indice al suo posto.