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Il dottore, sua moglie e Dorothy Coe erano seduti in silenzio in sala da pranzo, ma il giocatore di football con il fucile si era spostato dalla porta per andare in salotto, dove si era stravaccato sul divano a guardare i momenti salienti della National Football League in alta definizione sul grande televisore nuovo. Il suo socio si era allontanato dalla porta del seminterrato e stava appoggiato comodo alla parete dell’atrio a guardare lo schermo di lato, da una certa distanza. Erano entrambi assorti nel programma. L’audio era basso ma nitido, dalle grosse casse proveniva un borbottio intenso e incalzante. Le luci della stanza erano spente e i colori vivi dello schermo danzavano e rimbalzavano sulle pareti. Fuori dalla finestra la notte era buia e tranquilla. Il telefono aveva squillato tre volte ma nessuno aveva risposto. A parte ciò era tutto silenzioso. Sembrava il giorno di Santo Stefano o il tardo pomeriggio del giorno del Ringraziamento.
Poi saltò la corrente in tutta la casa.
Lo schermo televisivo si spense di colpo, l’audio svanì e il ronzio subliminale dell’impianto di riscaldamento scomparve. Calò il silenzio, primordiale e assoluto, la temperatura sembrò precipitare e le pareti dissolversi come se non ci fosse più differenza tra dentro e fuori, come se la minuscola impronta lasciata dalla casa si fosse d’un tratto fusa con l’immenso vuoto su cui sorgeva.
Il giocatore nell’atrio si staccò dalla parete e rimase immobile nel centro del locale. Il suo socio in salotto posò i piedi per terra e si mise dritto a sedere. «Cos’è successo?» chiese.
«Non lo so», rispose l’altro.
«Dottore?»
Il dottore si alzò dal tavolo da pranzo e raggiunse tentoni la porta. «È andata via la corrente», affermò.
«Geniale, Sherlock. Ha pagato le bollette?»
«Non c’entra.»
«Allora cos’è successo?»
«Potrebbe essere andata via in tutta la zona.»
L’uomo in salotto riuscì a raggiungere la finestra e sbirciò fuori nel buio. «Come diavolo si fa a saperlo?» osservò.
«Dove sono gli interruttori?» chiese l’uomo nell’atrio.
«Nel seminterrato», rispose il medico.
«Splendido. Reacher è sveglio. E sta facendo giochetti.» Il giocatore avanzò fino alla porta del seminterrato sfiorando il muro con le dita per orientarsi. La individuò al tatto e vi batté sopra. «Riattiva la corrente, coglione», gridò.
Nessuna risposta.
In casa c’era buio pesto. Non c’era neanche un barlume di luce, da nessuna parte.
«Riattiva la corrente, Reacher.»
Nessuna risposta.
C’erano solo freddo e silenzio.
L’uomo in salotto riuscì a raggiungere l’atrio. «Forse non è sveglio. Forse è un vero blackout.»
«Ha una torcia, dottore?» chiese il suo socio.
«In garage.»
«Vada a prenderla.»
«Come faccio? Non vedo nulla.»
«Faccia del suo meglio, d’accordo?»
Il dottore si avviò esitante nell’atrio strisciando i piedi e sfiorando le pareti con le dita. Andò a sbattere contro il primo giocatore, percepì la presenza gigantesca del secondo e lo evitò. Raggiunse la cucina, incespicò in una sedia che produsse un rumore secco e sbatté con le cosce contro il bordo del tavolo. Il mondo dei ciechi. Non facile. Passò le dita sul banco, superò il lavandino, la cucina, arrivò allo spogliatoio sul retro. Curvò a novanta gradi tenendo le mani davanti a sé e trovò la porta del garage. Cercò tastoni la maniglia, la aprì e scese nello spazio gelido sottostante. Trovò il banco da lavoro, sollevò il braccio e sfiorò gli oggetti che vi erano appesi con ordine. Un martello, buono per picchiare. Cacciaviti, buoni per trafiggere, chiavi inglesi, gelide al tatto. Trovò il manico di plastica della torcia e lo tolse dal gancio. Premette l’interruttore e apparve un debole fascio giallo. Batté la torcia sul palmo e il fascio divenne un po’ più intenso. Si girò e trovò uno dei giocatori in piedi accanto a lui. Quello del salotto.
Gli sorrise, gli prese la torcia dalle mani, se la mise sotto il mento e fece una smorfia tanto che sembrò una zucca di Halloween. «Ottimo lavoro, dottore», esclamò. Si girò e muovendo il fascio su e giù e di lato, tracciò la via di ritorno. Il dottore lo seguì sfruttando un secondo dopo gli stessi riferimenti. «Adesso torni in sala da pranzo», disse il giocatore, e puntò la torcia davanti a sé indicandogli la strada. Il medico tornò al tavolo. «Tutti voi restate dove siete e non muovete neanche un muscolo», aggiunse il gigante, dopodiché chiuse la porta.
«Adesso che si fa?» chiese il socio.
«Dobbiamo sapere se Reacher è sveglio o ancora svenuto», rispose l’uomo con la torcia.
«Gli abbiamo dato una bella mazzata.»
«Quindi? Tu che dici?»
«E tu?»
L’uomo con la torcia non rispose. Riattraversò l’atrio diretto alla porta del seminterrato. Vi batté sopra la mano. «Reacher, riattiva la corrente altrimenti quassù accadrà qualcosa di brutto», gridò.
Nessuna risposta.
Silenzio.
Batté di nuovo. «Non sto scherzando, Reacher. Riattiva quella cazzo di corrente.»
Nessuna risposta.
Silenzio.
«Adesso che si fa?» ripeté l’altro.
«Va’ a prendere la moglie del dottore», rispose l’uomo con la torcia, e puntò il fascio verso la porta della sala da pranzo. Il socio entrò e uscì tenendo la donna per il gomito. «Urla», ordinò quello con la torcia.
«Cosa?» fece lei.
«Urla o ti costringerò a farlo.»
Lei rimase in silenzio per un istante, batté le palpebre nella luce e gridò. Fu un urlo lungo, alto e forte. Poi smise e il silenzio tornò assoluto. L’uomo con la torcia batté ancora sulla porta. «Hai sentito, coglione?»
Nessuna risposta.
Silenzio.
L’uomo con la torcia mosse di scatto il fascio verso la sala da pranzo e il socio riaccompagnò la moglie del dottore, la spinse dentro e chiuse la porta. «E ora?» domandò.
«Aspettiamo che faccia giorno», rispose l’altro.
«Mancano quattro ore.»
«Hai un’idea migliore?»
«Potremmo chiamare la base.»
«Ci direbbero semplicemente di arrangiarci.»
«Io non scendo di sotto. Non con lui lì.»
«Neanch’io.»
«Allora che facciamo?»
«Aspettiamo. Si crede furbo ma non lo è. Noi possiamo starcene seduti qui al buio. Tutti possono farlo. Non ci vuole una laurea.»
Seguirono il fascio ondeggiante fino al salotto, si sedettero fianco a fianco sul divano con il vecchio Remington in mezzo. Spensero la torcia per risparmiare le batterie e la stanza tornò completamente buia, fredda e silenziosa.
L’uomo di Mahmeini camminò parallelo al vialetto per un centinaio di metri, poi si imbatté in un tratto di recinto che piegava a sud tagliandogli la strada. Delimitava la parte inferiore sinistra del segmento orizzontale della T che costituiva la proprietà dei Duncan. Era composto da assi da tredici centimetri, tutte un po’ deformate e nodose, ma abbastanza facili da scavalcare. Lo superò senza problemi e si fermò per un secondo con i tre pick-up e la Mazda a sinistra e la casa situata più a sud di fronte. La casa centrale era l’unica buia. Quella più a sud e quella più a nord avevano entrambe luci accese, deboli e vagamente indirette, come se fossero usate solo le stanze posteriori e i fasci trovassero modo di raggiungere le finestre anteriori dai corridoi interni e dalle porte aperte. Nell’aria si sentiva odore di fumo di legna. Ma non c’era un solo rumore, neanche un vocio. L’uomo di Mahmeini esitò. Bisognava scegliere, decidere, risolversi. A destra o a sinistra?
Cassano e Mancini arrivarono alla proprietà da dietro, dal campo buio e addormentato, e si fermarono al recinto, di fronte alla casa centrale, quella di Jonas per quel che ne sapevano. Era chiusa e buia, ma entrambe le case vicine avevano luci alle finestre della cucina, che si riversavano all’esterno disegnando fasci intensi sulla ghiaia del cortile invasa dalle erbacce. La ghiaia era pressata, ma faceva lo stesso un po’ di rumore. Cassano lo sapeva. Se n’era accorto quel giorno, in precedenza, mentre cercava un posto tranquillo dove parlare al telefono con Rossi. La mossa migliore sarebbe stata restare al di là del recinto, in fondo al campo, per poi puntare direttamente all’obiettivo prescelto. In quel modo avrebbero ridotto al minimo il rumore dell’avvicinamento. Ma quale obiettivo scegliere? A sinistra o a destra? La casa di Jasper o quella di Jacob?
Tutti e quattro i Duncan erano nel seminterrato di Jasper a cercare nelle vecchie scatole altro anestetico veterinario. L’ultimo flacone per maiali era stato usato per il naso di Seth e la mano fracassata avrebbe comunque avuto bisogno di qualcosa di più forte. Due dita erano già tanto gonfie che la pelle sembrava sul punto di scoppiare. Jasper pensava di avere qualcosa per i cavalli: aveva intenzione di trovare il medicinale e di iniettarlo nell’articolazione del polso di Seth. Non era un anatomista, ma immaginava che i nervi lesi passassero di lì. E dove se no?
Seth non protestava per il ritardo. Jasper pensò che la stava prendendo molto bene. Stava crescendo. Era stato irritabile dopo il naso rotto, ma ora si stava comportando da uomo. Perché aveva catturato da solo il suo aggressore, naturalmente. E perché stava pensando a come sbarazzarsene. L’esaltazione del successo e la prospettiva della vendetta erano di per sé un anestetico.
«È questo?» chiese Jonas. Teneva in mano una bottiglia rotonda di vetro marrone da mezzo litro. L’etichetta era macchiata, piena di lunghi termini tecnici, in parte latini. Jasper socchiuse gli occhi nel locale semibuio. «Bravo. L’hai trovato», disse.
Poi udirono alcuni passi sul pavimento sopra la testa.