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Seth Duncan aveva la mano destra sul tavolo da pranzo del dottore con sopra un sacchetto di piselli preso dal congelatore. Il freddo attenuava il dolore, ma non bastava. Seth aveva bisogno di un’altra iniezione dell’anestetico per maiali di zio Jasper e se la sarebbe fatta fare di lì a poco, ma prima intendeva portare avanti il suo piano, che fino a quel momento stava funzionando molto bene. E a quel punto Seth si era permesso di guardare oltre, al finale di partita. La lunga esperienza nella contea gli aveva insegnato che era reale ciò di cui la gente parlava. Se nessuno parlava di un fatto, allora non era mai accaduto. Se nessuno parlava di una persona, allora non era mai esistita.
Seth sedeva a un lato del tavolo con la finestra buia alle spalle; il dottore, sua moglie e Dorothy Coe gli stavano di fronte, su tre scomode sedie, tutti con la schiena dritta e lo sguardo attento. Li stava sottoponendo a una serie di domande, uno a uno, ascoltava le risposte, ne valutava l’affidabilità, gettando le fondamenta della storia che sarebbe stata raccontata in futuro. Aveva finito con il dottore e con la moglie e stava per cominciare con Dorothy Coe. Uno dei giocatori, muto e minaccioso, era piazzato in piedi all’ingresso con il vecchio Remington a pompa in mano, e un altro nell’atrio, appoggiato alla porta del seminterrato, stava di guardia. Gli altri tre erano in giro in macchina, fingendo di dare la caccia a Reacher. Bisognava mantenere l’illusione per gli uomini di Rossi. La cattura di Reacher doveva avvenire più tardi. È reale solo ciò di cui la gente parla.
«Ha mai incontrato un certo Reacher?» chiese Seth Duncan.
Dorothy Coe non rispose. Si limitò a guardare a sinistra, verso l’atrio. Una donna caparbia, attaccata a vecchi e bizzarri principi di obiettività.
«È una porta molto robusta. Lo so bene, perché io stesso ne ho installata una quando abbiamo ristrutturato casa. Ha anima e telaio d’acciaio, grossi cardini rinforzati e una serratura a prova di esplosione. È garantita per un uragano di categoria cinque. Resiste a venti che soffiano a cinquecento chilometri all’ora. Ha il sigillo di approvazione dell’autorità federale. Perciò, se solo per ipotesi in questo momento ci fosse una persona nel seminterrato, lei può star certa che ci resterà. Non potrebbe scappare. È come se non esistesse», affermò Duncan.
«Se la porta è così solida, perché ha chiesto a uno di loro di appoggiarci contro la schiena?» osservò Dorothy Coe.
«Da qualche parte doveva pur stare», rispose Seth. Poi sorrise. «Lo preferirebbe in camera da letto? Forse potrebbe passare un po’ di tempo di là con la sua amichetta, mentre lei risponde alle domande.»
Dorothy Coe guardò la moglie del dottore, all’estremità opposta del tavolo.
«Ha mai incontrato un certo Reacher?» incalzò Duncan.
Dorothy Coe non rispose.
«Il calendario non si ferma. La primavera arriverà prima che lei se ne accorga. Arerà e seminerà. Con un po’ di fortuna le piogge arriveranno al momento giusto e il raccolto sarà buono. Ma poi? Vuole che venga trasportato da qualche parte? O ha intenzione di cacciarsi una pistola in bocca come il suo inutile marito?»
Dorothy Coe rimase in silenzio.
«Ha mai incontrato un certo Reacher?»
«No», rispose.
«Ha mai sentito parlare di un certo Reacher?»
«No.»
«È mai stato a casa sua?»
«No.»
«Gli ha mai preparato la colazione?»
«No.»
«Era qui quando è arrivata stasera?»
«No.»
Fuori nell’atrio, a pochi centimetri dall’anca del secondo dei giocatori, che si era leggermente spostato per ascoltare meglio, la maniglia della porta del seminterrato ruotò di un quarto, si fermò per un attimo e ruotò in direzione contraria. Nessuno la notò.
«Quest’inverno è arrivato qualche forestiero?» chiese Duncan in soggiorno.
«No», rispose Dorothy Coe.
«Proprio nessuno?»
«No.»
«Ci sono stati problemi?»
«No.»
«È cambiato qualcosa?»
«No.»
«Vuole che cambi qualcosa?»
«No.»
«Bene», affermò Duncan. «Mi piace come vanno le cose qui, parecchio, e sono contento che piaccia anche a lei. Ne traiamo tutti beneficio. Non c’è ragione di non andare d’accordo.» Si alzò lasciando il sacchetto di piselli sul tavolo con la brina sciolta che aveva formato alcune gocce sul legno trattato a cera. «Voi tre restate qui. I miei ragazzi si occuperanno di voi. Non cercate di lasciare la casa e di usare il telefono. Non rispondete nemmeno. La catena telefonica per voi non esiste stasera. Siete tagliati fuori. Le punizioni in caso di disobbedienza saranno rapide e severe», disse.
S’infilò maldestramente il parka con la sinistra, superò l’uomo con il Remington e si diresse alla porta. Gli altri la sentirono aprirsi e chiudersi, poi, un minuto dopo, sentirono la Mazda allontanarsi con il rumore della marmitta che squarciava l’aria notturna.
L’uomo di Mahmeini percorse tranquillo otto chilometri in direzione sud con la Cadillac sulla strada principale, poi spense le luci e rallentò fino a procedere a passo d’uomo. Il grosso motore vibrava e le gomme morbide frusciavano sull’asfalto. Vide le tre vecchie case a destra. In una finestra del piano inferiore c’era una luce accesa. Per il resto non c’erano segni di vita. Davanti erano parcheggiati tre veicoli, tre forme indistinte illuminate dalla luna, tutti vecchi, tutti pick-up spartani e funzionali. Nemmeno una Chevrolet blu. Ma sarebbe arrivata. L’uomo di Mahmeini ne era certo. Rossi stava cercando di scavalcare Safir e Mahmeini, il che significava che si stava anche parando le spalle. Il rapporto con i Duncan andava tutelato. Ne conseguiva che i suoi uomini andavano spesso a trovarli, li placavano, li blandivano, li rassicuravano e soprattutto si accertavano che nessun altro li avvicinasse. Erano precauzioni standard, da manuale, dettate dal buon senso.
L’uomo di Mahmeini superò il vialetto dei Duncan, fece inversione a U e parcheggiò cento metri a sud sul lato opposto, in parte sull’asfalto, in parte sullo sterrato, a luci spente. La grossa auto nera era parcheggiata in un basso avvallamento naturale, invisibile nella misura in cui poteva esserlo senza una copertura mimetica. Ci sarebbe stato il debole riflesso della luna sulle cromature, pensò, ma c’era foschia nell’aria e in ogni caso gli uomini di Rossi avrebbero guardato verso l’imboccatura del vialetto, pronti a svoltare, senza badare troppo ai dintorni. Chiunque guidasse faceva così. Era la natura umana. Sterzare era una procedura mentale quanto fisica. La testa si girava, gli occhi cercavano l’obiettivo e le mani seguivano automaticamente.
L’uomo di Mahmeini attese. Era rivolto a nord perché tutto sommato si aspettava che gli uomini di Rossi arrivassero da nord, ma era sempre possibile che arrivassero da sud, perciò posizionò lo specchietto in modo da tenere d’occhio anche quella direzione. La foschia che lo aiutava a nascondersi, tuttavia, offuscava leggermente il lunotto posteriore. Niente di grave, ma un’auto in avvicinamento a fari spenti sarebbe forse stata difficile da individuare. Ma in fondo perché gli uomini di Rossi avrebbero dovuto guidare a fari spenti? Quella notte avevano portato a termine la missione con successo ed erano probabilmente molto sicuri di sé.
Otto chilometri a nord il bagliore arancione dell’incendio era ancora visibile ma si stava attenuando. Niente brucia per sempre. Al di sopra, la luna era velata dal fumo. A parte ciò, il paesaggio notturno era buio, tranquillo e immobile, immutato come probabilmente lo era da un secolo o più. L’uomo di Mahmeini fissò la strada davanti a sé e non vide nulla.
Attese.
A grande distanza sulla sinistra vide un bagliore azzurro nella foschia, una bolla rotonda e alta di luce che si muoveva rapida da ovest a est. Un’auto che arrivava perpendicolarmente verso di lui per prendere la strada a due corsie due o tre chilometri più a nord e svoltare a sinistra allontanandosi o a destra avvicinandosi. Prese la pistola dalla tasca e la posò sul sedile del passeggero accanto a sé. La bolla di luce in movimento rallentò, si fermò, ricominciò a muoversi e divenne più intensa. L’auto aveva svoltato a destra, verso di lui. Capì subito che non era la Chevrolet. Dal modo in cui la luce si muoveva capì che era troppo piccola, troppo bassa e troppo veloce. Le Porsche e le Ferrari a Las Vegas si muovevano nello stesso modo la notte, con il muso ben aderente all’asfalto, i fari che sobbalzavano e saltellavano di qua e di là. Le grosse e flemmatiche berline nazionali sembravano anestetizzate al confronto. Si muovevano come masse dondolanti, lente e controllate, silenziose e distaccate dal suolo.
Guardò e attese. Vide la bolla di luce trasformarsi in due fasci nervosi poi in due ovali ravvicinati, bassi sul terreno. Vide l’auto rallentare a duecento metri e svoltare a cento, dritta nel vialetto. Era la minuscola Mazda Miata rossa che aveva visto parcheggiata nella fattoria di Seth Duncan. L’auto della moglie. Andava a far visita ai parenti. Non per un evento sociale, presumibilmente. Non a un’ora così tarda. Aveva forse telefonato. Magari riferendo dell’incontro con lo strano iraniano, e a quel punto le era stato detto di venire subito lì, per sicurezza. Probabilmente i Duncan sapevano che certe cose andavano sistemate prima dell’alba e non volevano che una dei loro finisse sotto il fuoco incrociato.
L’uomo di Mahmeini guardò la Mazda sussultare e sobbalzare sul vialetto. La guardò fermarsi a fianco ai vecchi pick-up. Vide i fari spegnersi. Dieci secondi dopo vide una porta illuminarsi in lontananza quando una figura entrò in casa, poi la scena tornò buia.
Guardò la strada e attese. La foschia notturna stava peggiorando. Stava diventando un problema. Il parabrezza della Cadillac si stava appannando. Armeggiò, trovò la leva dei tergicristalli e li azionò più volte. Ma anche la situazione del vetro posteriore sembrava peggiorata. Era tutto ricoperto di rugiada. Anche un’auto con i fari accesi sarebbe stata difficile da riconoscere. Le luci sarebbero apparse frammentate in una miriade di puntini e avrebbero costituito un’unica cortina accecante. Una bella seccatura.
L’uomo di Mahmeini tenne un occhio sulla strada davanti a sé e tastò di qua e di là in cerca del pulsante per sbrinare il lunotto. Era difficile da trovare. Con i fari spenti, il cruscotto e la plancia erano bui all’interno. E c’erano molti pulsanti. Era un’auto di lusso, dotata di tutti gli accessori. Chinò la testa e trovò un tasto con sopra un simbolo a zig-zag. Sembrava avesse a che fare con il riscaldamento. Aveva una spia rossa. Lo premette e attese. Non accadde niente al lunotto, ma gli si scaldò il culo. Era il riscaldamento del sedile, non lo sbrinamento del vetro. Lo spense e trovò un altro tasto, sempre con un occhio alla plancia e un altro alla strada. Lo premette. Si accese la radio ad alto volume. La spense subito. Premette il tasto accanto e udì un piacevole clic sotto il dito.
Il bagagliaio scattò con un rumore secco e si sollevò con un movimento lento, uniforme, controllato e idraulico fino a restare perfettamente verticale.
Adesso dietro non si vedeva più niente.
Non andava bene.
E presumibilmente nel bagagliaio c’era una luce di cortesia, in realtà piuttosto debole e di colore giallo, ma nel buio della notte poteva spiccare come un riflettore da un milione di watt.
Non andava bene per niente.
Premette di nuovo il tasto quasi d’istinto. Dopo, si rese conto che si era quasi aspettato che il bagagliaio si chiudesse lento e obbediente, così come si erano spenti il riscaldamento del sedile e la radio. Ma ovviamente non accadde. Il meccanismo di apertura emise solo un clic e ronzò un’altra volta, ma il bagagliaio restò dov’era.
Spalancato.
Gli impediva la visuale.
Sarebbe dovuto scendere a chiuderlo.