37

L’uomo di Mahmeini era nella sua stanza al Courtyard Marriott. Era al telefono proprio con Mahmeini. La conversazione non era iniziata bene. Mahmeini aveva accettato con riluttanza che Sepehr li avesse mollati. Per lui era inconcepibile. Era come se gli avessero detto che gli era spuntato un terzo braccio. Non era umanamente possibile.

«Di certo non era al bar», affermò l’uomo di Mahmeini.

«Quando ci sei arrivato.»

«Non c’è mai stato. Era un posto molto inospitale. Non mi è piaciuto per niente. Mi hanno guardato come se fossi una merda. Un terrorista. Non credo mi avrebbero mai servito. Asghar non sarebbe durato cinque minuti senza venire coinvolto in una rissa. E non c’erano segni di guai. Non c’era sangue sul pavimento. Asghar è armato ed è veloce, e non è molto tollerante con gli imbecilli. Avrei visto il sangue.»

«Allora sarà andato da un’altra parte», concluse Mahmeini.

«Ho controllato in tutta la città. Non ci è voluto molto. I marciapiedi si svuotano quando fa buio. Non c’è un posto dove nascondersi. Non è qui.»

«Donne?»

«Stai scherzando? Qui?»

«Hai riprovato a chiamarlo al telefono?»

«Un sacco di volte.»

Ci fu un silenzio molto, molto lungo. Nel suo ufficio di Las Vegas Mahmeini elaborava dati, cambiava marcia, improvvisava. «Ok, andiamo avanti. Questa faccenda è importante. Va affrontata domani. Perciò dovrai arrangiarti da solo. Ce la puoi fare. Sei abbastanza in gamba.»

«Ma non ho un’auto.»

«Chiedi un passaggio ai ragazzi di Safir.»

«Ci avevo pensato. Ma la dinamica sarebbe strana. Non sarei al comando. Sarei letteralmente un passeggero. E come spiegherei che Asghar se n’è andato piantandomi in asso? Non possiamo permetterci di fare la figura degli idioti. Dei deboli. Non davanti a quella gente.»

«Allora procurati un’altra auto. Di’ che hai ordinato ad Asghar di andare avanti o in tutt’altro posto per altri motivi.»

«Procurarmi un’altra auto? Dove?»

«Noleggiala», disse Mahmeini.

«Capo, questa non è Las Vegas. Qui non c’è nemmeno il servizio in camera. La Hertz più vicina è all’aeroporto. Di sicuro sarà chiusa fino a domani mattina. E comunque non ci posso arrivare.»

Ci fu un altro silenzio molto, molto lungo. Mahmeini ricalibrava, rivalutava, riconsiderava, pianificava in fretta. «Gli altri hanno visto la prima macchina in cui eravate?» chiese.

«No. Sono sicuro di no. Siamo arrivati tutti separatamente in momenti diversi», rispose.

«Bene. Hai ragione sulla dinamica. Dobbiamo essere chiaramente al comando. E spiazzare sempre gli altri. Perciò fai così: trova quanto prima una macchina adatta. Rubala, se devi. Poi chiama gli altri in camera. Non m’importa che ora sia. Mezzanotte, l’una, non c’è problema. Di’ loro che abbiamo deciso di iniziare prima. Che vai subito a nord. Dai loro cinque minuti, altrimenti partirai solo. Saranno in preda alla confusione, occupati a fare i bagagli e a correre giù nel parcheggio. Tu li aspetterai nell’auto nuova. Se faranno domande su Asghar dirai loro che lo hai sguinzagliato in avanscoperta. Questo li metterà in agitazione. Li spiazzerà ancor di più. Si guarderanno continuamente alle spalle. Ecco. Questo farai. L’equivalente di un piccolo miracolo, non credi?»

L’uomo di Mahmeini si mise la giacca e portò la borsa nell’atrio. L’addetto alla reception aveva terminato il turno. Presumibilmente rintanato in qualche stanza sul retro c’era una specie di facchino notturno e tuttofare, ma non ne vide traccia. Uscì con la borsa in cerca di un’auto da rubare. Da molti punti di vista, era un passo indietro e un affronto alla sua dignità. Gli uomini nella sua posizione si erano da tempo lasciati alle spalle i furti d’auto. Ma in quel caso era necessario. E ricordava ancora come fare. Non ci sarebbero state difficoltà tecniche. Avrebbe eseguito il compito con la consueta precisione. La difficoltà sarebbe stata dover lavorare con una scelta così ristretta di potenziali bersagli.

Aveva due esigenze. Primo, gli serviva un mezzo di un certo prestigio. Non necessariamente molto prestigioso, ma almeno un po’. Non poteva farsi vedere, per esempio, con un pick-up tutto arrugginito e scassato. Sarebbe stato ben poco opportuno o credibile per un agente operativo di Mahmeini, soprattutto se doveva far colpo sui Duncan. L’apparenza non era tutto, ma oliava gli ingranaggi. Credi a ciò che vedi, almeno nella metà dei casi.

Secondo, aveva bisogno di un’auto che non fosse nuova di zecca. I modelli più recenti avevano troppi dispositivi di sicurezza. Computer, microchip nelle chiavi, microchip identici nei buchi delle serrature. Niente di insormontabile, ovviamente, ma un lavoro fatto in fretta in strada aveva i suoi limiti pratici. Con le auto nuove era meglio pensare a un carro attrezzi o a un pianale e passare poi varie ore nascosti da qualche parte ad armeggiare con cavi ethernet e laptop. Un uomo solo al buio aveva bisogno di qualcosa di più semplice.

Perciò una normale berlina di un marchio diffuso, non nuova ma neanche troppo vecchia. Facile da trovare a Las Vegas. Nel giro di cinque minuti al massimo. Ma non nel Nebraska rurale. Non in un paese agricolo. Aveva già percorso a piedi l’intera cittadina in cerca di Asghar: il novanta per cento delle auto che aveva visto erano utilitarie, pick-up o vecchie quattro ruote motrici e il novantanove per cento di queste era usurato, ammaccato, arruginito e malandato. A quanto sembrava gli abitanti del Nebraska non avevano molti soldi e anche se li avevano sembravano preferire uno stile di vita da colletto blu.

Rimase in piedi al freddo a valutare le alternative. Fece una mappa mentale degli isolati perlustrati in precedenza e cercò di individuare quello più affollato, ma non arrivò a niente. Aveva visto il cartello di un ospedale: i parcheggi degli ospedali erano spesso interessanti perché i medici compravano auto nuove e vendevano quelle vecchie, poco usate, alle infermiere e agli studenti, ma per quel che gli risultava l’ospedale era a chilometri di distanza, sicuramente troppo lontano da raggiungere a piedi senza garanzie di successo.

Perciò iniziò dal parcheggio del Marriott.

E finì lì.

Fece un giro attorno all’hotel a forma di H, vide tre pick-up, due dotati di posti letto per dormirci, una vecchia Chrysler berlina con le targhe dell’Arizona, un parafango ammaccato e la vernice smangiata dal sole, una Chevrolet Impala blu, una Ford Taurus rossa e una Cadillac nera. I pick-up e la vecchia Chrysler erano fuori questione per ovvi motivi. La Impala e la Taurus anche, perché erano troppo nuove e a noleggio: sui finestrini posteriori avevano adesivi con un codice a barre, il che significava che quasi sicuramente appartenevano agli uomini di Safir e di Rossi. Non poteva chiamarli nel parcheggio e farsi trovare seduto in una delle loro auto.

Restava la Cadillac. Età giusta, stile giusto. Targa locale, in ordine, discreta, ben tenuta, pulita e lucidata. Vetri scuri. Praticamente perfetta. Un gioco da ragazzi. Posò la borsa a terra accanto alla Cadillac, si stese e strisciò di schiena fino ad avere la testa sotto il motore. Sul portachiavi aveva una minuscola torcia a led, la ripescò, la accese e si mise a cercare. Le auto di quella generazione avevano un modulo fissato al telaio concepito per rilevare gli impatti frontali. Un semplice accelerometro con una funzione in due fasi. Nel caso peggiore avrebbe attivato gli airbag. Altrimenti avrebbe aperto le portiere, in modo che i primi soccorritori potessero trascinare fuori il guidatore stordito. Un dono ai ladri di tutto il mondo, di conseguenza non molto pubblicizzato e sostituito quasi subito da sistemi più sofisticati.

Trovò il modulo. Era una semplice scatola di latta, piccola e quadrata, economica ed essenziale, tutta incrostata di terra secca con alcuni fili che uscivano. Prese il coltello e usò il manico per battere con forza sul modulo. La terra incrostata saltò via ma non accadde altro. Pensò che avesse attutito l’impatto dei colpi, perciò aprì la lama e ripulì la parte anteriore della scatola. La richiuse e riprovò. Niente. Tentò una terza volta con forza tale da preoccuparsi per il rumore che produceva, bang, ma il messaggio arrivò. L’ottuso cervello elettronico della Cadillac pensò di aver subito un lieve impatto frontale, non così grave da attivare gli airbag, ma abbastanza da considerare i primi soccorsi. Si udirono quattro rumori sordi in sequenza e le portiere si aprirono.

La tecnologia. Che cosa meravigliosa.

L’uomo di Mahmeini sgattaiolò fuori e si alzò. Un minuto dopo la sua borsa era sul sedile posteriore e lui su quello di guida. Era spostato molto indietro. C’era spazio per le gambe di un gigante. Un’altra prova, come se ne avesse avuto bisogno. Come aveva detto all’uomo di Rossi, i contadini americani erano tutti enormi. Trovò il pulsante e lo spinse in avanti di quasi trenta centimetri, poi raddrizzò lo schienale e si mise all’opera.

Con la punta del coltello forzò il bloccasterzo, tolse la copertura del piantone, scoprì i cavi che gli servivano e li unì. Il motore si accese e un cicalino gli segnalò che non aveva allacciato la cintura. Se la mise, uscì in retromarcia, girò attorno all’edificio e attese nella stradina stretta parallela al tratto lungo della H con il motore che girava silenzioso in folle e il climatizzatore che già scaldava l’abitacolo.

Estrasse il telefono, passò attraverso il centralino del Marriott per comunicare prima con gli uomini di Safir, poi con quelli di Rossi, seguendo in entrambi i casi il copione di Mahmeini, informandoli che i piani erano cambiati, che avrebbero iniziato prima, che lui e Asghar sarebbero partiti subito per andare a nord e che avevano cinque minuti per muovere il culo, non di più, altrimenti sarebbero rimasti indietro.

Il SUV era un GMC Yukon color oro metallizzato, ben accessoriato grazie a un paio di pacchetti di optional. Gli interni erano di pelle beige. Era un bel furgone. Il ragazzo chiamato John ne sembrava fiero e Reacher capiva perché. Non vedeva l’ora di averlo per le dodici ore seguenti o per tutto il tempo che sarebbe durato il suo incarico in Nebraska.

«Hai un cellulare, John?» chiese.

Lui restò fatalmente in silenzio per un istante e poi disse: «No».

«Stavi andando così bene. Ma adesso ti sei fregato. Ovviamente hai un cellulare. Fai parte di un’organizzazione. Eri di sentinella. E hai meno di trent’anni, il che significa che probabilmente sei nato con un pacchetto a minuti.»

«Mi farai quello che hai fatto agli altri», disse John.

«Che cos’ho fatto agli altri?»

«Li hai resi storpi.»

«Loro cosa avrebbero fatto a me?»

John non rispose. Erano sulla strada a due corsie a nord del motel, nel bel mezzo di un territorio agricolo monotono che si estendeva all’infinito, senza che si vedesse nulla oltre la luce dei fari. Reacher era semigirato sul sedile, la mano sinistra sul ginocchio, il polso destro appoggiato all’avambraccio sinistro. Impugnava rilassato la Glock con la destra.

«Dammi il cellulare, John», disse. Vide un movimento negli occhi dell’uomo, un lampo di riflessione, un socchiudersi di palpebre. Un chiaro avvertimento. L’uomo sollevò le natiche dal sedile, staccò una mano dal volante e frugò nella tasca dei pantaloni. Estrasse un telefono nero e sottile come una barretta. Fece per porgerglielo ma perse la presa per un istante, annaspò e lo lasciò cadere nel vano dei piedi del passeggero.

«Merda», esclamò. «Mi spiace.»

Reacher sorrise. «Un buon tentativo, John», osservò. «Adesso io mi chino a raccoglierlo, giusto? E tu mi fracassi il cranio con il pugno destro. Non sono nato ieri, sai?»

Lui non disse nulla.

«Perciò credo che resterà proprio lì dov’è. Se suona, lasceremo che scatti la segreteria», proseguì Reacher.

«Dovevo tentare.»

«Mi avevi fatto una promessa.»

«Mi spezzerai le gambe e mi scaricherai a bordo strada.»

«È un po’ pessimistico. Perché dovrei spezzartele entrambe?»

«Non è uno scherzo. Quei quattro che hai picchiato non lavoreranno più.»

«Non lavoreranno più per i Duncan. Ma ci sono altre cose da fare nella vita. Cose migliori.»

«Come per esempio?»

«Spalare merda in un allevamento di polli. Sfinirti a forza di scopate a Tijuana. Con un asino. Entrambe le cose sarebbero migliori che lavorare per i Duncan.»

John non disse nulla. Si limitò a guidare.

«Quanto ti pagano?» chiese Reacher.

«Più di quello che potrei fare giù in Kentucky.»

«In cambio di che con precisione?»

«Di solito, della mia presenza.»

«Chi sono quegli italiani col cappotto?» incalzò Reacher.

«Non lo so.»

«Cosa vogliono?»

«Non lo so.»

«Dove sono ora?»

«Non lo so.»

Erano nella Impala blu, già quindici chilometri a nord del Marriott, Roberto Cassano alla guida, Angelo Mancini seduto al suo fianco. Cassano era impegnato a star dietro agli uomini di Safir nella Ford rossa ed entrambi i guidatori lo erano a non perdere di vista gli uomini di Mahmeini. La grossa Cadillac filava proprio. Faceva più di centotrenta all’ora. Ben oltre la sua velocità ideale. Sobbalzava, ondeggiava e traballava. Non era un bello spettacolo. Angelo Mancini la fissava. Ne era ossessionato.

«È a noleggio?» chiese.

Cassano era molto più tranquillo. Occupato con la guida, certo, concentrato su quella folle corsa ad alta velocità, ma anche a riflettere. A riflettere attentamente.

«Non credo sia a noleggio», rispose.

«Allora cos’è? Voglio dire, quei tizi hanno auto proprie in ogni Stato? In caso di bisogno? Com’è possibile?»

«Non lo so», disse Cassano.

«All’inizio pensavo quasi che fosse una limousine. Sai, un servizio con conducente. Ma non è così. Ho visto salire al posto di guida quel microbo in persona. Non l’autista di una società. L’ho intravisto soltanto, ma era lui. Quello che ha fatto l’arrogante con te.»

«Quell’uomo non mi piace», affermò Cassano.

«Neanche a me. E adesso ancor meno. Sono molto più grandi di noi. Molto più grandi di quel che pensassimo. Voglio dire, hanno auto proprie a disposizione in ogni Stato? Arrivano con l’aereo del casinò e da qualsiasi parte ad attenderli c’è un’auto loro? Che roba è?»

«Non lo so», ripeté Cassano.

«È un’auto delle pompe funebri? Adesso gli iraniani gestiscono le imprese di pompe funebri? Potrebbe essere, no? Mahmeini chiama l’impresa più vicina e dice: ’Mandateci una delle vostre auto’.»

«Non credo che gli iraniani gestiscano le pompe funebri.»

«Allora come si spiega? Voglio dire, quanti Stati ci sono? Cinquanta, giusto? Significa almeno cinquanta auto a disposizione.»

«Neanche Mahmeini può essere attivo in tutti i cinquanta Stati.»

«Forse non in Alaska e nelle Hawaii. Ma a quanto sembra ha auto in Nebraska. Che posto occuperà il Nebraska nella lista?»

«Non lo so», disse ancora Cassano.

«Ok», affermò Mancini. «Hai ragione. Dev’essere a noleggio.»

«Ti ho detto che non è a noleggio», ribadì Cassano. «Non può essere. Non è un modello recente.»

«Sono tempi duri. Forse adesso noleggiano auto più vecchie.»

«Non è neanche il modello dell’anno scorso. O dell’anno precedente. È vecchia. Da anziano signore. La Cadillac del nonno del tuo vicino.»

«Forse qui c’è un noleggio di vecchi catorci.»

«Perché Mahmeini ne avrebbe avuto bisogno?»

«Allora cos’è?»

«In realtà non importa cosa sia. Non guardi il quadro generale. Ti sfugge il punto sostanziale.»

«Che sarebbe?»

«Quell’auto era già all’hotel. Abbiamo parcheggiato proprio a fianco, ricordi? Nel tardo pomeriggio, quando siamo tornati. Quei tizi erano là prima di noi. E sai che significa? Significa che erano in viaggio prima ancora che a Mahmeini venisse chiesto di mandarli. Qui sta succedendo qualcosa di strano.»

Lo GMC Yukon oro metallizzato lasciò la strada a due corsie che andava da nord a sud e puntò a ovest, verso il Wyoming, su un’altra strada a due corsie dritta e monotona come la prima. Reacher s’immaginò progettisti e ingegneri un secolo prima, concentrati sul lavoro, chini su mappe e progetti con righe e matite appuntite, intenti a tracciare strade, a inviare squadre, ad aprire accessi all’entroterra. «Quanto manca adesso, John?» chiese.

«Siamo davvero vicini», rispose il ragazzo, affermazione che, come sempre, si dimostrò relativa. Davvero vicini in alcuni posti significava cinquanta o cento metri, in Nebraska quindici chilometri e dieci minuti. Poi Reacher vide un gruppo di luci fioche a destra in lontananza, apparentemente in mezzo al nulla. Il furgone rallentò e svoltò facendo un’altra curva secca a gomito, per dirigersi a nord su una striscia asfaltata progettata diversamente dagli standard della contea. Una strada privata d’accesso che portava a quella che sembrava una specie di struttura industriale, costruita o demolita in parte. C’era un rettangolo di cemento grande quanto un campo da football, forse un vecchio parcheggio ma più probabilmente il pavimento di una fabbrica mai ultimata o smantellata di recente. Era chiuso su tutti e quattro i lati da un recinto antitornado ad altezza d’uomo, sovrastato da un rotolo sottile di filo spinato con lame. Qua e là i pali del recinto avevano una lampada simile a quelle dei cortili posteriori delle case, con normali lampadine da sessanta o cento watt. Tutto lo spazio era vuoto tranne per due furgoni grigi in uno spiazzo delimitato che poteva contenerne tre.

La strada di accesso si restringeva a un certo punto per consentire l’ingresso e l’uscita dal rettangolo di cemento attraverso due cancelli. Poi proseguiva verso un edificio lungo e basso di mattoni a un piano. Lo stile era inconfondibile. Tipica architettura industriale degli anni Quaranta. Una palazzina di uffici, costruita per la fabbrica che un tempo vi sorgeva accanto, quasi sicuramente uno stabilimento della difesa. In tempo di guerra, se il governo poteva scegliere dove costruire, cercava una zona sicura nell’entroterra, lontana dai bombardamenti delle coste, dalle incursioni aeree e dai potenziali siti di invasione. Il Nebraska e altri Stati nel cuore del paese erano pieni di posti simili. Quelli abbastanza fortunati da essere entrati nella rete della Guerra fredda erano probabilmente ancora in attività, quelli realizzati per produrre attrezzature di base come stivali, proiettili e bende erano scomparsi prima ancora che l’inchiostro si asciugasse sui documenti dell’armistizio.

«Eccoci. Viviamo nella palazzina degli uffici», disse il ragazzo chiamato John.

La palazzina aveva un tetto piatto con un parapetto di mattoni, una lunga fila di finestre identiche con i piccoli vetri incorniciati da telai d’acciaio dipinto di bianco. Nel centro si apriva una porta anonima a due battenti con dietro un atrio e ai lati un paio di plafoniere tartaruga dalla luce debole. Davanti alla porta c’era un breve sentiero di cemento che partiva da un rettangolo deserto di pietre spaccate e invase dalle erbacce, lungo come due campi da tennis messi in fila. Il parcheggio dei manager forse, molto tempo prima. Nell’edificio non c’erano luci. Sorgeva lì, completamente morto.

«Dove sono le camere?» chiese Reacher.

«A destra», rispose John.

«Adesso i tuoi amici sono lì?»

«Sì. Cinque.»

«Più te, fanno sei gambe da spezzare. Sbrighiamoci.»

Child Lee - 2013 - Una ragione per morire: Un'avventura di Jack Reacher
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