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Reacher si accovacciò. Era vestito di verde oliva, marrone e beige e anche la distesa di terreno invernale circostante aveva gli stessi colori. Gambi e foglie in decomposizione, mucchi di terra fertile, alcuni spaccati e polverizzati dalla brina e dal vento. C’era ancora foschia nell’aria. Era immobile, invisibile, uno strato atmosferico simile a garza finissima.

Il furgone un chilometro a mezzo a sud continuò ad avanzare. Il campo era immenso, rettangolare e il furgone più o meno al centro. Effettuava una serie infinita di curve a S, sterzava sequenzialmente un po’ a sinistra, proseguiva dritto, sterzava un po’ a destra, proseguiva, sterzava a sinistra. Ritmico, regolare, inesorabile. Il guidatore perlustrava l’orizzonte come il fascio di una torcia.

Reacher restò accovacciato. I bersagli statici attirano l’attenzione molto meno di quelli in movimento. Ma sapeva che prima o poi il furgone gli si sarebbe avvicinato. Era inevitabile. A un certo punto si sarebbe dovuto muovere. Ma per andare dove? Non c’erano coperture naturali. Niente colline, boschi, torrenti né fiumi. Niente di niente. Ed era un corridore lento, non molto agile. Non che un uomo fosse abbastanza veloce o agile da battere un furgone su un terreno piatto e infinitamente vasto.

Il furgone continuò ad avanzare, minuscolo in lontananza, lento, paziente e metodico. Un po’ a sinistra, dritto, un po’ a destra. Con tutte quelle mezze svolte puntava proprio verso di lui. Adesso era a un migliaio di metri. Reacher non riusciva a distinguere il guidatore, pertanto il guidatore non riusciva a distinguere lui. Non ancora, comunque. Ma era solo questione di tempo. A duecento metri, pensò, gli sarebbe balzata all’occhio la sua vaga figura accovacciata. Forse a centocinquanta se il parabrezza era sporco. Forse a cento se il guidatore era miope, annoiato o svogliato. Ci sarebbe quindi stato un momento di stasi in cui si sarebbe reso conto del fatto, seguito dall’accelerazione. La velocità massima su un terreno accidentato sarebbe stata più o meno di cinquanta chilometri all’ora. Tra i sette e i quindici secondi, calcolò, tra lo scatto e l’arrivo.

Non bastavano.

Meglio muoversi prima che poi.

Ma per andare dove?

Si girò lento e cauto. A est non c’era niente. A ovest niente. Ma trecento metri a nord c’era il boschetto di rovi che aveva notato prima. Il secondo che vedeva nel raggio di tre chilometri. Un groviglio di cespugli alti fino al petto, un bosco in miniatura. Lamponi selvatici o rose canine, forse, spogli e addormentati, fitti e irti di spine. Risparmiati dagli aratri. Il primo grazie a una grossa pietra nel centro. Il secondo di sicuro per la stessa ragione. Nessun agricoltore al mondo risparmierebbe un po’ di fiori selvatici nel corso di tante stagioni solo per motivi sentimentali.

Il boschetto era il luogo dove andare.

Trecento metri per Reacher. Lento com’era, forse sessanta secondi.

Mille metri per il furgone. Veloce com’era, forse settanta secondi.

Un margine di dieci secondi.

Semplice.

Reacher partì di corsa.

Si alzò dalla posizione accovacciata e cominciò a macinare terreno con passi rigidi, goffi, le braccia che si muovevano come stantuffi, la bocca aperta, il respiro affannoso. Dieci metri, venti, trenta. Poi quaranta, cinquanta. In lontananza alle sue spalle udì il rombo improvviso attutito di un motore. Non si voltò a guardare. Continuò a correre sbilanciandosi e scivolando, sentendosi penosamente lento.

Mancavano duecento metri.

Proseguì alla massima velocità. Sentiva sempre il furgone alle spalle. Sempre attutito e a distanza rassicurante, ma andava spedito con il motore su di giri, accompagnato dai sibili delle cinghie, dai risucchi d’aria, dalle vibrazioni delle sospensioni e dagli scricchiolii delle gomme.

Mancavano cento metri.

Si arrischiò a guardare. Il furgone era chiaramente scattato tardi. Era ancora più lontano di quanto sarebbe dovuto essere ma stava guadagnando in fretta terreno. Arrivava veloce. Era un SUV, non un pick-up. Nazionale, non straniero, forse della GMC. Rosso scuro. Non nuovo. Aveva un muso alto, tozzo e un paraurti cromato che sembrava una vasca da bagno.

Mancavano cinquanta metri. Dieci secondi. Reacher si fermò a venti e si girò verso sud. Rimase immobile ansimando forte. Alzò le braccia fino alle spalle.

Vieni a prendermi.

Il furgone continuò dritto verso di lui. Reacher fece un lungo passo a destra, due, tre. Si mise perfettamente in linea. Il furgone gli era proprio davanti, il masso nascosto proprio dietro. Il furgone continuò ad avanzare. Reacher camminò all’indietro, poi corse leggero sulle punte senza perderlo mai di vista. Il furgone avanzò tra scossoni, sobbalzi, vibrazioni e rombi. Venti metri, dieci, cinque. Reacher si mosse in sincronia col veicolo. Quando sentì i primi rovi contro le gambe, si spostò fulmineo di lato e si tolse dalla traiettoria. Rotolò via e attese che il mezzo piombasse nel boschetto per schiantarsi contro la pietra.

Ma non accadde.

L’uomo al volante inchiodò e si fermò sterzando con il paraurti tra le piante, a un metro dal bordo. Era un ragazzo del luogo. Sapeva che cosa avrebbe trovato là dentro. Reacher sentì inserire la retromarcia, il furgone indietreggiò, le ruote anteriori girarono, poi la leva del cambio si spostò di nuovo e il SUV puntò dritto verso di lui, enorme e veloce. Le gomme erano grosse, da sterrato, con lettere bianche sporche e un battistrada aggressivo. Si torcevano e scavavano il terreno, tutte sporche di zolle di terra. Aveva quattro ruote motrici. Il motore rombava. Era un grosso V-8. Reacher era a livello del terreno e vedeva le parti delle sospensioni, gli ammortizzatori, i collettori di scarico e le scatole dei differenziali, tutti giganteschi. Si alzò, fece una finta a destra e si buttò a sinistra. Ruzzolò via e il furgone fece una curva stretta ma lo mancò, schiacciando il terreno con le ruote a una trentina di centimetri dalla sua faccia. Reacher sentì odore di olio caldo, di benzina e di fumi di scarico. I rumori si accavallavano. Il motore, lo stridio delle marce, i gemiti delle sospensioni. Il furgone inserì di nuovo la retromarcia e gli venne addosso all’indietro. Reacher era in ginocchio, intento a decidere. Dove andare? Dentro o fuori? Nel boschetto o nel campo?

Non aveva scelta.

Nel campo sarebbe stato un suicidio. A distanza ravvicinata il furgone non era agilissimo, ma Reacher non poteva correre, fare scatti e schivarlo per sempre. Nessuno ci sarebbe riuscito. Alla fine sarebbe arrivato lo sfinimento. Perciò si alzò e si buttò tra i rovi. Le spine gli strapparono i pantaloni. Il furgone continuò a venirgli addosso in retromarcia accorciando il raggio. Il guidatore guardava al di sopra della propria spalla. Era un uomo grosso. Collo largo, spalle larghe, capelli corti. Reacher puntò al centro del boschetto. I lunghi tentacoli spinosi si univano e gli strattonavano le caviglie. Lui si fece strada a forza. Il guidatore sterzò il più possibile. Il raggio del furgone si ridusse ma non abbastanza. Reacher si portò al suo interno e proseguì.

Raggiunse la pietra.

Altro che pietra. Era molto più grossa della prima che aveva visto. Forse la madre. La prima era a forma di cuneo, come se fosse stata ricavata da un masso più grande. Questa sembrava il masso più grande. Aveva la forma di una torta con un ampio pezzo rotto, ma non era piatta come una torta. Era rotonda e curva. Come un’arancia, con tre o quattro spicchi mancanti, semisepolta nel terreno. Forse cinquantamila anni prima un ghiacciaio dell’Era Glaciale l’aveva portata fin lì dal Canada e il peso di tonnellate e tonnellate di neve ghiacciata l’aveva spaccata. Il frammento più piccolo era rotolato oltre per altri tre chilometri prima di fermarsi e subire il processo di erosione un po’ alla volta nei secoli, per via degli agenti atmosferici. Il più grande era rimasto lì dove ancora si trovava, sprofondato per più di un metro nel suolo, anch’esso un po’ eroso. Una gigantesca palla di granito con un’intaccatura triangolare sgretolata poco profonda, simile a un morso, a una bocca aperta, rivolta a sud verso la parente più piccola. Il morso era largo all’incirca tre metri all’apertura e si restringeva fino a uno e mezzo.

Reacher si appoggiò di schiena al masso sul lato est, con il morso a breve distanza, dietro la spalla destra. Il furgone girò, uscì dal boschetto e per un assurdo istante Reacher pensò che il guidatore rinunciasse e andasse a casa, invece girò di nuovo tracciando una curva larga e tornò lento e minaccioso verso di lui. Sorrideva dietro il parabrezza, sfoggiava un ghigno ampio e crudele di trionfo. Il primo rovo cedette, travolto dal paraurti cromato. Il guidatore stringeva bene il volante con due mani mirando in modo preciso.

Per schiacciare le gambe di Reacher contro la roccia.

Reacher si arrampicò sulla superficie di granito all’indietro come un granchio, con i palmi e le piante dei piedi. Faticò, annaspò e si mise in piedi in cima al sasso, in equilibrio precario a un metro e mezzo dal suolo. Il furgone si fermò con il paraurti a pochi centimetri dal masso, il cofano un po’ più in basso rispetto ai piedi di Reacher, il tetto un po’ più in alto. Il motore rallentò fino a girare in folle e Reacher sentì quattro colpi bruschi quando le portiere vennero chiuse con la sicura dall’interno. Il guidatore era preoccupato. Non voleva essere trascinato giù dal sedile per una rissa. Era un tipo in gamba. Ora le alternative di Reacher si riducevano. Poteva scendere sul cofano per cercare di spaccare a calci il parabrezza, ma il cristallo poteva essere più resistente di quel che sembrava, e se il guidatore fosse partito all’improvviso lui sarebbe stato scagliato in aria, a meno che non si fosse aggrappato alle barre del tetto. Le braccia però gli facevano troppo male per poter sopravvivere a una folle corsa per il Nebraska appeso a un furgone che sobbalzava a cinquanta chilometri o più all’ora.

Erano in stallo.

O forse no. Quell’uomo aveva rivelato al mondo intero la sua tattica. Non aveva usato il telefono. Voleva catturare Reacher da solo, per la gloria. Intendeva farlo usando il furgone come martello e la roccia come incudine. Ma non avrebbe atteso per sempre. Avrebbe chiamato i suoi amici non appena la frustrazione avesse preso il sopravvento.

Era ora di muoversi.

Reacher scese dalla parte opposta del masso e s’immerse tra i cespugli spinosi. Udì il furgone indietreggiare e aggirare il sasso per raggiungerlo. Comparve alla sua destra tra gli scricchiolii dei rovi: aveva tracciato una curva stretta come se affrontasse una rotatoria, avanzava lento e cauto. Reacher finse di correre verso il terreno aperto, il guidatore ci cascò e si allontanò di una decina di gradi dal cerchio; a quel punto Reacher si ributtò verso la roccia, scivolando lungo la circonferenza di granito e infilandosi nella piccola cavità triangolare, proprio nella punta della V, con le spalle ben premute contro le pareti convergenti. Il furgone si fermò per un istante, balzò in avanti, sterzò brusco e puntò di nuovo verso di lui con la stessa marcia bassa e la stessa velocità, lento e minaccioso. Si avvicinò sempre più, tre metri, un metro e mezzo, un metro, mezzo.

Poi le estremità del paraurti sbatterono contemporaneamente contro le pareti convergenti della roccia e il furgone restò immobile proprio dove Reacher voleva restasse, con il gigantesco paraurti cromato che segnava un nuovo confine chiudendo l’ampio triangolo a una trentina di centimetri dalle sue cosce. Percepì il calore del radiatore e il battito del motore in folle gli risuonò nel petto. Sentiva odore d’olio, di benzina, di gomma e di fumi di scarico. Posò le mani sul metallo cromato bombato e iniziò a mettersi seduto con l’intenzione di infilarsi sotto il veicolo e di allontanarsi strisciando sulla schiena.

Non funzionò.

Il guidatore voleva Reacher più di quanto volesse un paraurti integro.

Reacher era a metà quando udì un colpo e uno scricchiolio mentre nella scatola del cambio s’innestava una marcia bassa. Ideale per estirpare ceppi. O per schiacciare metallo cromato. Il motore rombò, tutte e quattro le gomme fecero saldamente presa e il furgone spinse in avanti incontrando solo la resistenza della lamiera. Le estremità del paraurti stridettero, si deformarono, si accartocciarono e si schiacciarono. Il furgone continuò ad avanzare, due centimetri, quattro, sei. Le gomme giravano lente ma inesorabili, un tassello del battistrada alla volta. Il paraurti si appiattì dall’esterno verso l’interno stridendo e grattando mentre la coppia motrice del potente V-8 trasformava il metallo bombato della finitura estetica in un pezzo di lamiera piatta, da buttare.

Adesso il centro del paraurti era a quindici centimetri dal petto di Reacher.

E continuava ad avvicinarsi. Il paraurti si appiattì fino all’altezza dei sostegni di acciaio che lo fissavano al telaio. Quella era roba più resistente. Il motore rombò più forte, il furgone fece maggior presa, si abbassò e sforzò sulle sospensioni. Una gomma anteriore perse aderenza per un attimo e ruotò frenetica sollevando terra, sassolini e pezzi di rovi che schizzarono nel vano ruota. L’intero furgone ondeggiò, sobbalzò e sussultò, poi la gomma fece di nuovo presa, i tubi di scarico emisero un boato, i sostegni d’acciaio cedettero di un paio di centimetri e il furgone balzò in avanti.

A dieci centimetri dal petto di Reacher.

Poi a otto.

A quel punto i sostegni cedettero un po’ di più e il metallo caldo toccò la giacca di Reacher.

Era ora di muoversi.

Girò la testa di lato, fece forza con le mani sul metallo cromato e si spinse in basso come se s’immergesse in acqua. Era a metà quando la lamiera dietro il paraurti iniziò a cedere stridendo, a piegarsi e a schiacciarsi. Le curve si invertirono, i contorni si appiattirono. Il motore rombò, i tubi emisero un boato ancor più forte e il furgone avanzò di un altro paio di centimetri. Il centro del paraurti colpì leggermente Reacher di lato sul volto. Continuò a strisciare in basso con un orecchio sul cromo caldo e l’altro sul granito freddo. Scalciò, grattò con i talloni e riuscì ad allungare i piedi, a spingersi tra i rovi e a mettersi di schiena. L’ultimo, minuscolo triangolo di cielo gli scomparve davanti al viso quando i parafanghi cedettero e quello che restava del paraurti si piegò bruscamente in avanti colpendo il granito.

Il guidatore non mollò.

Continuò a premere con forza l’acceleratore. Non sapeva con precisione dove si trovasse Reacher perché non riusciva a vederlo. Sperava di avergli schiacciato il petto. Il furgone sobbalzava, si abbassava e spingeva. Reacher era steso di schiena sotto di esso, con le gomme che sforzavano alla sua destra e alla sua sinistra, i tubi di scarico che vibravano sopra di lui e ogni sorta di componenti metallici sporchi e pieni di nervature a pochi centimetri dalla faccia. Tutto si muoveva, turbinava e girava. C’erano dadi, bulloni, tubi e cinghie. Reacher non era molto esperto di auto. Non sapeva come ripararle né come romperle. In ogni caso, non aveva attrezzi.

O invece sì?

Si tastò le tasche, per abitudine e per disperazione, e sentì un metallo duro. Le posate di Dorothy. Il coltello, la forchetta, il cucchiaio. Vecchi oggetti pesanti nascosti in fretta e mai restituiti. Li tirò fuori. Avevano manici lunghi e spessi di un acciaio inossidabile di prima generazione.

Proprio sopra il suo naso c’era una sezione ampia e piatta sul fondo del blocco motore. Simile a un contenitore quadrato poco profondo visto da sotto. Nera e sporca. La coppa, suppose. Per l’olio del motore. Vide la testa esagonale di un bullone proprio nel centro. Per cambiare l’olio. L’addetto della stazione di servizio lo svitava e l’olio usciva. L’olio nuovo veniva versato dall’alto.

L’addetto della stazione di servizio aveva una chiave.

Reacher no.

Il motore rombava e sforzava. Il furgone vibrava e sussultava. Reacher indietreggiò svelto di un metro, allungò le mani sopra la testa, mise il manico del coltello contro un lato del bullone e quello della forchetta contro l’altro. Li tenne fermi con i pollici e gli indici; usò parte della forza per bloccarli, parte per ruotarli in senso antiorario.

Niente.

Fece un respiro, strinse i denti, ignorò il dolore alle braccia e riprovò. Ancora niente. Cambiò tecnica. Serrò il bullone con le estremità dei manici che teneva tra l’indice e il pollice destro, poi con la sinistra ruotò il tutto.

Il bullone si mosse.

Solo di poco. Reacher fece un altro respiro, lo trattenne e fece presa con maggior forza finché la carne delle dita gli divenne bianca tanto era compressa e schiacciata, quindi ruotò coltello e forchetta. Il bullone era avvitato bene: girò stridendo a fatica e la sporcizia nella filettatura minacciava di bloccarlo, ma Reacher continuò a svitarlo a ritmo costante, ansimando, tutto concentrato. Dopo due giri e mezzo l’olio all’interno doveva aver iniziato a filtrare e a bagnare la filettatura perché d’un tratto la resistenza cessò e il bullone ruotò velocemente e facilmente. Reacher gettò via le posate, si tolse rapido di mezzo e allungando le dita lo estrasse. Il motore era sempre su di giri e non appena il bullone fu estratto dal foro, l’enorme pressione all’interno fece fuoriuscire l’olio sul terreno con un grosso getto. Sibilò, schizzò e zampillò sul suolo congelato, rimbalzando e investendo i rovi vicini, lucido e nero, caldo e fumante.

Reacher mise le braccia lungo i fianchi e uscì di schiena da sotto il retro del furgone. La vegetazione lo ostacolava, gli strappava i vestiti, lo graffiava. Si afferrò al paraurti posteriore, si tirò, si issò e si contorse fino a mettersi accovacciato. Voleva trovare un sasso grande quanto un pugno per spaccare il lunotto posteriore ma non vi riuscì, perciò si accontentò di picchiarci sopra con la mano una, due volte, con forza, poi con più forza ancora, dopodiché si girò e corse via.

Child Lee - 2013 - Una ragione per morire: Un'avventura di Jack Reacher
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