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L’uomo di Mahmeini aveva paura. Era andato in giro per venti minuti senza incontrare anima viva, poi era arrivato a una casa con una cassetta della posta bianca con su scritto DUNCAN, che spiccava nel buio tutta fiera e illuminata. La casa era decorosa, ristrutturata in modo dispendioso. Il quartier generale, aveva supposto. Invece no. Dentro c’era solo una donna che sosteneva di non sapere nulla. Era abbastanza giovane. Era stata picchiata di recente. Aveva detto che c’erano quattro Duncan, un padre, un figlio e due zii. Lei era sposata con il figlio. Al momento erano tutti da qualche altra parte. Gli diede le indicazioni per raggiungere un gruppetto di tre case che aveva già visto e cancellato dalla mente. Dalla strada gli erano sembrate costruzioni anonime, circondate da un vecchio e modesto recinto di pali. Abitazioni improbabili per uomini importanti.
Era tuttavia partito a gran velocità in quella direzione, per poco non aveva investito un idiota a piedi che gli era sbucato davanti al buio e poi dalla strada a due corsie aveva visto divampare un incendio a nord. Aveva ignorato le tre case e si era diretto in fretta verso l’incendio scoprendo che era localizzato nel parcheggio del motel. Era un’auto. O meglio, lo era stata. Adesso era solo un guscio surriscaldato rosso ciliegia in un inferno di fuoco. A giudicare dalla forma era la Ford degli uomini di Safir. E loro erano ancora dentro. O meglio, ciò che restava di loro era ancora dentro. Adesso erano solo sagome orrende, rattrappite, che ancora bruciavano, si liquefacevano, si sfaldavano. I legamenti si accartocciavano, le mani erano state trasformate dal calore in spaventosi artigli, l’aria che turbinava furiosamente dava l’impressione che oscillassero e ondeggiassero sui sedili.
Li avevano uccisi gli uomini di Rossi, era ovvio. Il che significava che quasi certamente avevano ucciso anche Asghar ore prima. Il piano di Rossi era chiaro. Aveva già un solido legame con i Duncan in fondo alla catena. Ora aveva intenzione di scavalcare sia Safir sia Mahmeini per trattare direttamente con i sauditi, in cima alla catena. Una scelta che denotava un buon senso degli affari. Evidentemente Rossi aveva ordinato ai suoi di anticipare le mosse. Avevano preso l’iniziativa. Un vero colpo da maestro. La tempistica di quei due era straordinaria, come del resto le loro capacità. Avevano teso un’imboscata ad Asghar, lo avevano fatto fuori e avevano eliminato l’auto, il tutto in trenta minuti soltanto. Una performance eccezionale. Asghar era un tipo duro e sospettoso, sempre sul chi vive, non facile da battere. Un buon gregario. Un buon amico anche, che ora gridava vendetta. L’uomo di Mahmeini ne avvertiva molto intensamente la presenza, come se fosse ancora vicino. Il che lo faceva sentire solo e alla deriva in un territorio ostile, nonché molto, molto sulle difensive. Tutti sentimenti inconsueti per lui, che gli scatenavano un po’ di paura e che lo indussero a cambiare piano. All’improvviso aveva nuove priorità. Il forestiero grande e grosso poteva aspettare. Ora il bersaglio principale erano gli uomini di Rossi.
Partì proprio da lì, dal motel. In precedenza, quando si era fermato a discutere con gli altri, aveva notato qualcuno che sbirciava dalla finestra. Un uomo con i capelli strani. Un locale. Forse il proprietario. Almeno avrebbe saputo in che direzione erano andati gli uomini di Rossi.
Roberto Cassano e Angelo Mancini erano parcheggiati sette chilometri più a nord con le luci spente e il motore acceso. Cassano era al telefono con Rossi. Erano quasi le due del mattino, ma c’erano questioni importanti da discutere.
«Tu e Seth Duncan avete stretto questo accordo, giusto?» domandò Cassano.
«Era il mio contatto iniziale all’epoca. Subito dopo si è trasformato in un affare di famiglia. Sembra che lassù accada ben poco se non c’è un consenso unanime», disse Rossi.
«Ma per quel che ti risulta l’accordo è sempre valido?»
«In che senso?»
«Nel senso che non sia subentrato qualcun altro.»
«Ma no, l’accordo è sempre valido», ribadì Rossi. «Non ci sono dubbi. Le cose non sono cambiate. Perché me lo chiedi? Che diavolo succede?»
«Seth Duncan ha prestato la sua auto all’uomo di Mahmeini, ecco che succede.»
Al telefono ci fu silenzio.
«C’era una Cadillac al Marriott quando siamo arrivati questo pomeriggio. Troppo vecchia per essere a noleggio. Poi abbiamo visto l’uomo di Mahmeini che la usava. All’inizio abbiamo pensato che l’avesse rubata, ma pare che non sia così. I locali quassù dicono che è l’auto di Seth Duncan. Quindi Seth Duncan deve avergliela data, facendola arrivare in qualche modo fino a laggiù. Inoltre, dopo il contatto iniziale, l’uomo di Mahmeini opera da solo. All’inizio abbiamo pensato che gli uomini di Safir gli avessero fatto fuori il socio o che lui fosse semplicemente scappato, ma adesso ci sembra più verosimile che sia arrivato qui con l’auto a noleggio. Probabilmente in questo momento è con i Duncan. Forse sono là tutti e due, grandi amici per la vita. Capo, qui ci stanno fottendo alla grande. Ci stanno tagliando fuori.»
«Non è possibile.»
«Capo, il tuo contatto ha prestato la sua auto al tuo rivale. Se la fa con lui. Che altra spiegazione c’è?»
«Non posso avvicinare il compratore finale.»
«Devi tentare.»
Al telefono ci fu un altro silenzio. Poi Rossi disse: «Ok, nulla è impossibile. Perciò procedete e occupatevi degli uomini di Mahmeini. Subito. Fate in modo che non resti traccia di quei due. Poi spiegate a Seth Duncan che si è comportato male. Trovate il modo di impressionarlo. Magari tirando in mezzo la moglie. Poi passate ai tre vecchi. Devono capire che, se sgarrano un’altra volta, rileveremo noi l’intera attività fino a Vancouver. Tra un’ora voglio che se la facciano addosso dalla paura».
«E Reacher?»
«Trovatelo, tagliategli la testa e mettetela in una scatola. Mostrate ai Duncan che possiamo fare tutto ciò che vogliamo. Che possiamo arrivare a chiunque, dappertutto, in qualsiasi momento. Accertatevi che comprendano che potrebbero essere i prossimi.»
Reacher si svegliò per la seconda volta e capì subito che erano le due del mattino. L’orologio nella sua testa aveva ripreso a funzionare. E capì subito che si trovava nel seminterrato di una casa. Non in una piscina in costruzione o in un bunker sotterraneo. Il cemento era liscio e resistente perché il Nebraska era un paese flagellato dagli uragani e le normative edilizie, gli standard di costruzione, i requisiti delle assicurazioni o un architetto coscienzioso avevano richiesto un rifugio appropriato. Il che significava quasi certamente il seminterrato della casa del dottore, perché era l’unica abbastanza nuova da essere stata progettata da un architetto e soggetta a particolari vincoli. Una volta la gente costruiva tutto in proprio, incrociava le dita e sperava in bene.
Quindi le condutture a vista erano per l’acqua potabile, le fognature e il riscaldamento. Le scatole metalliche verdi e macchiate custodivano la caldaia e il boiler. C’era un quadro elettrico, presumibilmente pieno di interruttori. Le scale scendevano dall’alto e la porta in cima probabilmente si apriva sull’atrio, verso l’esterno. Non verso l’interno. Nessuna porta in cima alle scale si apre verso l’interno. Un tipo sbadato potrebbe ruzzolare giù come nelle comiche. E i tornando soffiano a cinquecento chilometri all’ora. Perciò è meglio che la porta di un rifugio resti ben chiusa e non si spalanchi.
Reacher si mise a sedere. Era accasciato nell’angolo tra il muro e il pavimento con la testa china. Il collo gli faceva un po’ male, cosa che interpretò come un ottimo segno. Significava che il dolore al naso era stato relegato a rumore di sottofondo. Sollevò la mano e controllò. Il naso era ancora molto dolente, aveva dei tagli aperti e un grosso rigonfiamento molle, ma il frammento d’osso era tornato a posto. In sostanza. Quasi. Più o meno. Non sarebbe stato bello, ma in fondo non lo era mai stato. Sputò sul palmo e cercò di pulirsi il sangue secco dalla bocca e dal mento.
Poi si alzò. Il seminterrato non veniva usato come magazzino o laboratorio. Niente scaffali stipati, niente mucchi di scatoloni impolverati, banchi da lavoro o tavole cariche di attrezzi. Reacher immaginò che tutta quella roba fosse in garage. Da qualche parte doveva essere. Succedeva in ogni casa. Ma il seminterrato era un puro e semplice rifugio in caso di uragano. Nient’altro. Non era neanche una taverna. Non aveva divani scassati, televisore di ultima generazione, vecchi frigoriferi, tavoli da biliardo, bottiglie di bourbon nascoste. Laggiù non c’era niente, tranne le apparecchiature indispensabili per il funzionamento della casa. La caldaia funzionava al massimo e faceva rumore. Tanto da coprire qualunque altro suono. Reacher salì allora piano le scale e accostò l’orecchio alla porta. Udì voci basse e indistinte, prima una poi un’altra, dal ritmo regolare, costante. Domanda e risposta. Un uomo e una donna. Seth Duncan, pensò, che faceva domande e Dorothy Coe o la moglie del dottore che rispondevano a monosillabi, senza sibilanti. Risposte negative. Non si percepiva una tensione reale, né dolore né panico. Solo rassegnazione. Dorothy Coe o la moglie del dottore stavano ripetendo No con molta calma, pazienza e decisione, più e più volte, a ogni nuova domanda. Al di là di chi delle due fosse a rispondere, in ogni caso lo faceva davanti a un pubblico. Reacher percepiva la sommessa vibrazione di altre persone che respiravano nella casa, si muovevano, spostavano i piedi. Il dottore, pensò, e due giocatori di football.
Provò a girare la maniglia lentamente, con circospezione. La porta non si aprì. Era chiusa a chiave, come previsto. Ed era robusta, incassata perfettamente in una parete dall’aria solida e resistente. A causa degli uragani, delle normative, degli standard, dei requisiti e degli architetti coscienziosi. Tolse la mano dalla maniglia e ridiscese piano le scale. Per un istante si chiese se le normative, gli standard, i requisiti e gli architetti coscienziosi avessero previsto una seconda via di accesso. Forse una botola dalla camera da letto principale. Sarebbe stato logico. Gli uragani si spostavano rapidamente e una coppia addormentata poteva non avere il tempo di attraversare l’atrio per raggiungere le scale. Perlustrò tutta la stanza con lo sguardo rivolto in alto e il collo dolente che protestava, ma non vide botole. Non c’era una seconda via d’accesso e quindi neanche una seconda via d’uscita. Solo assi robuste ininterrotte, disposte con cura su travetti resistenti di multistrato.
Si fermò nel centro. Aveva numerose alternative, nessuna delle quali gli garantiva il successo, alcune del tutto senza speranza. Avrebbe potuto chiudere l’acqua calda, ma sarebbe stata una provocazione lenta. Presumibilmente nessuno aveva intenzione di farsi una doccia nelle ore successive. Avrebbe potuto spegnere il riscaldamento, il che sarebbe stato un evento più grave data la stagione, ma il tempo di risposta sarebbe sempre stato lento e avrebbe punito degli innocenti oltre ai colpevoli. Avrebbe potuto spegnere tutte le luci con il clic di un interruttore del quadro elettrico, ma di sopra c’era almeno un fucile da caccia, forse anche delle torce. Si trovava dalla parte sbagliata di una porta chiusa, disarmato e costretto ad attaccare dal basso.
Non andava bene.
Non andava bene per niente.