Capitolo 9

Beth – Adesso

Rimango seduta per un po’, in uno stato quasi catatonico, nella mia auto parcheggiata dietro l’ufficio di Matthew. Fisso la gente che passa cercando di aggrapparmi alla normalità della vita di tutti i giorni. Guardo una donna con un piccolo Jack Russell che si rifiuta di muoversi e tira indietro il guinzaglio, come se fosse in sciopero. Alla fine si siede e la guarda come per dire: “Basta così. Oggi ho camminato abbastanza”.

Controllo l’orologio. L’ufficio di Matthew è nella periferia di Exeter e manca un’ora alla fine della scuola. In teoria mi basta, ma sono sempre preoccupata per il traffico. Mi volto a guardare il cane, che ancora non ne vuole sapere di muoversi, e mi rendo conto che devo darmi una mossa e scuotermi da questo stordimento, ma ho anche bisogno di una piccola pausa, un momento di pace per digerire quello che è appena successo. Non è soltanto il fatto surreale che io, Beth Carter, abbia ingaggiato un detective privato, ma anche la sorpresa di quel bizzarro piccolo impasse finale. Il caffè rovesciato. La reazione inattesa di Matthew Hill quando gli ho mostrato la foto dei miei ragazzi. La fretta con cui mi ha sbattuto fuori dall’ufficio. Cosa diavolo significa tutto questo?

Alla fine la donna solleva dal marciapiede il Jack Russell e io le strizzo l’occhio, ammettendo che la stavo osservando. Poi abbasso lo sguardo e apro la borsa per cercare la cartolina. E mentre la guardo più da vicino, mi sfugge un sospiro.

La mia copia del quadro di Whistler è un po’ sbiadita e stropicciata perché, a differenza di Sally, che la tiene incorniciata sul comodino, io la porto con me ovunque vada, infilandola nella borsa o tra le pagine di un libro.

Fisso l’immagine e penso a lei: Carol. L’altra versione di lei.

Era stata Carol a individuare per prima il Whistler mezz’ora prima che lasciassimo la Tate Gallery. Una visita scolastica durante il secondo trimestre. Ricordo che la suora che ci accompagnava era nel panico. «Non perdete tempo, ragazze. Il pullman non aspetta. Muovetevi. Tra dieci minuti al massimo dovete essere fuori». Alcune di noi erano nel negozio, altre facevano la coda ai gabinetti. Il solito caos che regna alla fine di una gita scolastica.

Quando la vedemmo, Carol era davanti a noi che fissava come ipnotizzata il quadro. «Mio Dio… Guarda, Beth. Siamo noi». Parlò sottovoce, come se fossimo in una chiesa o in un luogo che ispirava silenzio e rispetto, ed è così che ricordo la prima volta che vedemmo quel quadro. Ti faceva sentire come una piccola persona in uno spazio molto più vasto e sembrava alludere a un significato più profondo. Avemmo tutte l’impressione che quel quadro fosse rimasto lì, sospeso nel tempo, aspettando soltanto noi. Tre figure. Sinfonia in rosa e grigio ritrae tre giovani donne in un giardino in tutte le tonalità di grigio e rosa.

«Proprio come le nostre coperte, Beth. Mio Dio… Sono i nostri colori. Rosa e grigio. Siamo noi…».

Per un po’ restammo a fissarlo senza parole, come se tanti anni fa Whistler avesse dipinto quelle tre donne, così felici, graziose e serene, apposta per noi. Per i nostri sogni.

Il quadro era riprodotto in cartoline e grandi poster in vendita nel negozio. Il commesso ci disse che non era sempre esposto in quella galleria, ma che le stampe erano disponibili. Non potevamo permetterci la versione più grande, ma Carol trovò in fondo allo scaffale tre cartoline e così, stringendo al petto le buste con i nostri piccoli souvenir, ci precipitammo verso il pullman come se avessimo trovato un tesoro.

Il nostro ritratto. Beth, Sally e Carol. Tre figure… rosa e grigio.

Guardo un’ultima volta il palazzo dell’ufficio di Matthew Hill domandandomi cosa diavolo ho fatto. Accendo il motore, rimetto la cartolina di Whistler nella borsa e tiro fuori il telefono per chiamare Sally.

Quando mi risponde, in sottofondo c’è uno strano boato, come un tuono.

«Beth? Scusami, sono ai cottage e gli operai stanno scaricando le pietre. Un incubo. Posso richiamarti tra un po’?»

«Certo. Non ho molto tempo neanche io. Devo correre a scuola a prendere i ragazzi. Volevo solo dirti che ho ingaggiato il detective privato».

Un altro boato prima che risponda.

«D’accordo. Mio Dio! Ti ha fatto molte domande?»

«Sì, certo che me le ha fatte. È un tipo sveglio. Ma penso che questo significhi che è anche bravo».

«Ha avuto qualche sospetto? Ti è parso poco convinto?»

«Non credo».

«Non credi? Vuoi dire che non ne sei sicura?». Il suo tono adesso è più nervoso.

«Va tutto bene, Sally. Davvero. È bravo, e anche gentile. Ci aiuterà. E visto che lo paghiamo, farà quello che gli chiederemo. Ti chiamo più tardi». Sto quasi per aggiungere che è anche molto attraente e ha uno sguardo magnetico. Ma perché dovrei dirlo?

Sally chiude la comunicazione e io mi allaccio la cintura e mi pongo una serie di domande. Mi chiedo perché un uomo in apparenza brillante e competente come Matthew Hill ha lasciato la polizia. E perché ha reagito in modo così strano quando ha visto la fotografia dei miei due ragazzi. E, soprattutto, come troverò il coraggio di dire a Sally che il nostro nuovo investigatore privato ha notato subito il cambiamento negli occhi di Carol.

Il cambiamento che Sally e io pensiamo sia visibile soltanto a noi.