Capitolo 47
Beth – Adesso
Siamo tornate in albergo e tra due ore arriverà il taxi per riportarci alla scuola. Il mio primo impulso è quello di tornare dritte a casa. Ma non posso farlo per via di quelle stupide riprese. Ed, il mio cameraman freelance, è già arrivato e mi ha inviato cinque messaggi.
Due lunghe ore che Sal trascorre in gran parte nella sua camera, parlando di questa follia con Matthew, e io nella mia, parlandone con Adam.
Non riusciamo ancora a crederci. Tutto questo tempo. Tutti questi anni in cui abbiamo guardato i notiziari con il terrore di sentire uno speaker annunciare che il corpo di un neonato era stato rinvenuto in un bosco…
E in tutti questi anni non era lì.
Non era lì.
«Non posso crederci, Adam. Non ci riesco».
Lui cerca di tranquillizzarmi. Dice che adesso possiamo decidere cosa fare in tutta calma, e possiamo anche non fare nulla.
Ma io non mi sento ancora sollevata. Sono soltanto scioccata dal modo freddo e distaccato in cui suor Joanne ce l’ha detto. Continuo a camminare su e giù per la stanza, non riesco a stare ferma, e mentre parlo al telefono cerco di mettere insieme tutti i pezzi.
Suor Joanne ci ha concesso solo qualche minuto. Un resoconto freddo e distaccato. Clinico. Sì, avevano trovato la borsa con il suo macabro contenuto. No, non avevano contattato la polizia o cercato di scoprire chi fosse la responsabile.
«Perché mai non hanno cercato di scoprire chi si era macchiato di una colpa così orribile, Adam?».
Scopriamo che suor Veronica ci aveva viste la sera in cui avevamo sepolto la borsa. All’inizio aveva pensato che fosse una birichinata da adolescenti – una scorta di alcol o di sigarette – e, memore della storia di Melody, aveva lasciato perdere, temendo che la cosa ci sarebbe costata l’espulsione. Si sentiva ancora in colpa per la nostra sospensione e per avere messo Melody in camera con noi.
Ci aveva tenute costantemente d’occhio, forse credendo che fumare e bere fosse una cosa passeggera. Non aveva mai sospettato che si trattasse di qualcosa di ben più grave. E poi, quando avevamo smesso di andare nel bosco, se n’era completamente dimenticata. Finché, qualche anno dopo che ce n’eravamo andate, aveva fatto un sopralluogo con degli arboristi per curare gli alberi malati. Gli arboristi avevano deciso di sanare le radici e piantare nuovi alberi, e a quel punto suor Veronica si era ricordata all’improvviso della borsa sepolta e aveva cominciato a preoccuparsi. I giornali parlavano in continuazione di droghe e la suora si era chiesta se in quella borsa non ci fosse qualcosa di peggio dell’alcol e delle sigarette.
Se ci fosse stata della droga, e se qualcuno estraneo al convento l’avesse scoperta, sarebbe scoppiato uno scandalo che avrebbe inevitabilmente coinvolto la scuola, le cui finanze erano già dissestate. Decise così di controllare di persona.
E quando scoprì cosa c’era nella borsa, ne rimase sconvolta e corse a dirlo a suor Joanne. «Pensava che dovessimo informare la polizia, le autorità. All’epoca ero io la responsabile, e quella decisione spettava a me». E così suor Joanne aveva persuaso Veronica che dovevano pensare prima di tutto al convento e alla Chiesa. Lo scandalo. «Devi darti una calmata, Veronica, e ascoltarmi. Abbiamo bisogno di essere pratiche. Se la notizia si diffonderà, i media ci distruggeranno».
Suor Joanne l’aveva quindi convinta a trasferire la borsa con i suoi orribili resti nel giardino della cappella, dove fu seppellita sotto un muro a secco, per essere sicure che nessuno l’avrebbe trovata, visto che la cappella e il suo giardino non sarebbero stati venduti insieme al resto del terreno. E a suor Veronica fu intimato di non dire nulla, nemmeno alle altre sorelle.
«È così è finita. E confido che voi non vorrete spingervi oltre e non parlerete mai più di questa storia», aveva detto suor Joanne alzandosi e spolverandosi la tonaca, come se avesse parlato del tempo.
Aggiunse che suor Veronica era rimasta molto scioccata, aveva avuto una sorta di crollo nervoso che aveva reso necessario il suo trasferimento all’estero per aiutarla a riprendersi.
«E il resto dell’ordine? Nessuna l’ha mai saputo?», avevo chiesto, sconvolta.
«No, è stata una mia decisione per il bene della Chiesa».
Suor Joanne ci aveva guardate entrambe negli occhi e poi se n’era andata. Nessun dramma. Nessuna scenata. Nessuna simpatia. Assolutamente nulla.
Penso sia stato questo a farmi più male. La sua indifferenza. Si era spolverata la tonaca, con assoluta noncuranza, evitando di menzionare il dramma che avevamo vissuto da ragazzine.
«Riesci a crederci, Adam? In tutti questi anni non l’abbiamo saputo».
Quando la reception dell’albergo mi trasmette il messaggio di suor Maurice – che vuole sapere a che ora inizieremo le riprese – voglio rispondere che mi lascino in pace, ma è troppo tardi. Ed, il cameraman, è già al convento e mi sta aspettando.
«Diciamogli che non stiamo bene».
«Non possiamo, Sally».
Ne discutiamo e alla fine Sally accetta di fare il minimo indispensabile: un’ora di riprese e poi io fingerò di stare male e torneremo a casa.
Quando arriviamo alla scuola, ancora sconvolte, suor Maurice ci aspetta davanti alla cucina, terrea in volto.
«C’è un problema sotto il tendone. Penso che dovremmo chiamare la polizia».
Attraversiamo di corsa il patio precipitandoci verso la tenda, dove si è già riunito un capannello di persone, ex allieve ed ex membri dello staff che stanno urlando contro due persone in sella a una grossa motocicletta. Sembra ci sia stata una rissa. Il centauro manda su di giri il motore e avanza verso la folla. Si leva un coro di urla e tutti si disperdono in direzioni opposte. In lontananza scorgo Ed che sta filmando. Il motociclista si ferma a pochi centimetri da un gruppetto di persone e fa rombare di nuovo il motore, come se fosse una minaccia. Poi si toglie il casco, posa un piede a terra e scoppia a ridere. Ha lunghi capelli raccolti in una coda di cavallo. Non lo riconosco. Grazie a Dio non si è accorto di Ed che lo sta riprendendo. Poi anche la persona sul sellino posteriore si toglie il casco, e scuote i lunghi capelli unti. Mi ci vuole un po’ per riconoscere la faccia.
«Melody Sage!». Sal, alle mie spalle, è la prima a dirlo. «Mio Dio, penso sia Melody».
Se non fosse per i capelli biondo fragola sarebbe difficile crederlo. Il suo viso scarno e rinsecchito è una pallida ombra della Melody di un tempo. I suoi occhi sono stralunati e sporgenti, e sta urlando alla folla: «Non siete altro che degli spocchiosi perdenti!».
Il motociclista fa rombare di nuovo il motore, questa volta schiva la folla e segue il sentiero che porta al tendone.
Avanza a zig zag, con Melody che urla alle sue spalle come se fosse una sorta di rodeo. Per un istante sembra che voglia entrare con la moto nel tendone per distruggere i tavoli, i pannelli della mostra e investire la gente che è già lì dentro. Continuo a pregare che non si accorga che Ed lo sta filmando.
Sal ha tirato fuori il telefono e molte altre persone stanno già chiamando la polizia, ma all’improvviso appare una figura che blocca l’ingresso del tendone allargando le braccia.
«Matthew!», urla Sally mentre il centauro punta dritto contro di lui, frenando all’ultimo momento. Matthew afferra con una mano il manubrio della moto e con l’altra le spalle del motociclista.
«Scendete tutti e due. Polizia!».
E quando loro non si muovono, c’è una breve colluttazione, la moto si rovescia e per qualche istante Melody e il suo partner rimangono bloccati. Il motociclista cerca di allungare un pugno a Matthew, ma lo manca e lui gli piega il braccio dietro la schiena mentre Melody si rialza a fatica e gli punta contro un dito minaccioso.
«Mi hai aggredita. Io ti denuncio…».
Sally è corsa davanti a me e quando la raggiungo, Matthew, che sta ancora trattenendo il motociclista, è anche lui al telefono con la polizia e sta sollecitando il loro intervento.
«Sono tutti e due strafatti», dice. «Fate presto, per favore. E venite con un mezzo per portare via la motocicletta. Potrebbe essere coinvolta in un altro caso».
Melody si è seduta a terra, piegata in avanti come se stesse per svenire. Poi mi dà le spalle e vomita. Quando ha finito, si pulisce la bocca con la manica e mi guarda mostrandomi il medio. «Cosa c’è da guardare?».
Dopo circa cinque minuti udiamo le sirene e arrivano due auto della polizia. Matthew parla con gli agenti e dice a tutti gli altri di allontanarsi.
Poi spiega a Sally che non gli piaceva l’idea che tornassimo alla scuola da sole e così aveva deciso di venire a controllare. Fotografa la motocicletta e la sposta nel parcheggio, promettendo di collaborare con la polizia locale. Non pensa sia la stessa motocicletta che aveva visto a casa di Melody. Chiederà alla sua amica Melanie Sanders di controllare se il ragazzo di Melody ha un’altra moto e di verificare di nuovo il suo alibi. Sta cominciando a sospettare che sia coinvolto anche nell’investimento di Adam.
Per una buona mezz’ora sono tutti sotto shock. La polizia si mette d’accordo con Ed per avere una copia delle sue riprese e prende i nomi dei testimoni che saranno convocati in seguito. Matthew rimane finché non sono finite tutte le procedure ufficiali.
E poi, quando la polizia se ne va, c’è una decisione da prendere. La festa si svolgerà lo stesso?
«Certo che ci sarà», annuncia suor Maurice, battendo le mani come se fosse una domanda ridicola. «Avete idea di quanto cibo ho preparato?».
Sotto il tendone all’inizio il clima è teso mentre le nuove arrivate apprendono cosa è successo. Hanno tutte un piccolo adesivo bianco con i loro cognomi da nubili. Tra la folla serpeggia lo stesso mormorio: «Melody Sage, chi avrebbe mai pensato che sarebbe arrivata a tanto? Che assurdità…».
Ma alla fine l’atmosfera si rilassa e mi guardo attorno come attraverso una nebbia, con il pilota automatico.
Ci sono le gemelle Mayhew. E Maud Sillito. E Jane Parrot, che si scusa perché sua sorella Elaine si è rifiutata di tornare “in quel posto orribile” per l’ennesima riunione. Ma Jane sentiva che questa volta era diverso e avrebbe voluto che anche Elaine facesse lo sforzo. «Un pensionato per studenti? Riuscite a crederci? Raderanno al suolo tutto».
Ci sono anche alcuni membri dello staff: la signorina Fox, che mi ha ispirato durante le lezioni di inglese, e la signorina Hamper, che non è mai riuscita a convincermi che la fisica fosse interessante.
Di tanto in tanto mi volto a guardare Sally, che sta parlando con qualcuno che non riconosco. Tutto è così surreale e frenetico da essere quasi sopportabile, e così ci fermiamo molto più del previsto prima che io accampi la scusa del mal di testa.
Verso le undici ritorno con Sally in cucina per salutare suor Maurice e mi ritrovo a fissare il carrello di acciaio parcheggiato nell’angolo. Ai vecchi tempi veniva usato per portare gli enormi piatti della cena nella mensa. Dopo tutti i ricordi rievocati, riesco quasi a vederli, quei vassoi, e a sentirne l’odore. Cavolo molliccio e carne non identificata. Pudding di riso e marmellata rosa. Continuo a fissare il vassoio, ancora immersa in una strana nebbia, quando suor Maurice mi si avvicina.
«Caspita, Beth! Con il dramma di Melody, la polizia e tutto il resto mi sono completamente dimenticata della tua lettera».
«Quale lettera?», chiedo lanciando un’occhiata a Sally.
Suor Maurice scompare nell’atrio e poi mi passa una busta azzurra della posta aerea. All’inizio penso che sia di Carol e il mio cuore accelera il battito. Ma non è di Carol.
È di Jacqueline Preer. La ragazza che si era tagliata i polsi…
Scorro rapidamente le pagine e poi prendo la fotografia infilata nella busta.
«Mio Dio!», esclamo. Suor Maurice mi fissa con aria torva, ma non riesco a trattenermi. «Mi scusi se ho nominato il nome di Dio invano, sorella, ma guardi… ce l’ha fatta. Jacqueline ce l’ha fatta. Guardi».
Sal mi si accosta mentre suor Maurice tira fuori gli occhiali dalla tasca del grembiule. Passo la fotografia a Sally, una stampa su carta lucida che mostra Jacqueline raggiante accanto a un uomo alto e piuttosto attraente e circondata da cinque bambini.
«Non sono di certo tutti suoi». Sal passa la foto a suor Maurice, la quale accosta alle labbra il crocifisso che porta al collo.
La lettera è scritta a mano, con inchiostro di china, nella sua calligrafia, un po’ inclinata a destra, che ho sempre ammirato. Riesco quasi a immaginare Jacqueline curva sul suo diario con in mano la sua costosa penna. Fatti gli affari tuoi. Scrive di avere saputo tramite Facebook delle riunioni e di questa festa finale, ma che non se la sentiva di tornare. I pettegolezzi. I ricordi. Voleva tuttavia ringraziarmi in forma privata e dirmi che le dispiaceva per quello che era successo quell’orribile notte nei bagni della scuola e farmi sapere come ne era venuta fuori.
La sua storia è sintetizzata in pochi paragrafi.
Dopo l’ospedale, la terapia e il counseling l’avevano aiutata a ritrovare l’equilibrio e alla fine era riuscita ad andare in Francia per un programma di scambio volontario. Era là che aveva incontrato Jean-Pierre, un insegnante francese di ventitré anni. Lo descrive come “pazzamente smanioso di me” e poi elenca i nomi dei loro cinque figli con le rispettive età, tre figlie prima e poi due gemelli maschi. “Sono tanti persino per un cattolico, lo so, ma Jean voleva così tanto un maschio”, ha scritto.
E soltanto ora sento salire una sensazione dentro di me, come una molla che è stata compressa dopo la spaventosa rivelazione di suor Joanne, dopo la scena con Melody e il suo ragazzo, dopo il pilota automatico alla festa.
La spirale di metallo sta ora premendo dentro il mio corpo mentre fisso la fotografia di Jacqueline e dei suoi cinque figli, tre bambine raggianti con i fratellini in prima fila che fanno smorfie sforzandosi di restare fermi. Sento quasi le voci: “Non muovetevi, ragazzi. Per favore, restate fermi per la fotografia. Fatelo per la mamma”.
Mi volto di scatto, con le ginocchia che tremano e il viso contratto, mentre la molla si estende in tutta la sua lunghezza e all’improvviso non riesco più a sopportarlo.