Capitolo 51

Beth – Adesso

Prima del processo di Ned passano sei mesi. Mi hanno detto che è insolitamente rapido. Davvero? Chi stanno prendendo in giro? Questa lunga attesa è stata una pura agonia.

Non sono molto pratica di processi e detesto non poter entrare in aula fino al momento della mia testimonianza. Questo significa che non so cosa è stato detto prima. Come stanno andando le cose.

Il pubblico ministero mi ha avvisata che gli interrogatori incrociati non saranno facili. La versione di Ned è che Carol e io lo abbiamo aggredito, che si è soltanto difeso mentre cercava di liberare il bambino che noi avevamo rapito.

Ha dichiarato che adorava Carol e che era lei la violenta. Lo provocava. Lo derideva. Era ossessionata dai medium e dal passato.

«Devi cercare di non arrabbiarti e conservare la calma», mi ha suggerito una giovane e affascinante donna del team legale. «Lui è arrogante e totalmente illuso. Si dichiara del tutto non colpevole. Cerca di dipingersi come un eroe, quello che cercava di riportare il bambino alla madre. La sua tesi è che Carol e tu avevate perso il controllo e lui ha agito per autodifesa…».

«Come ti senti?», mi chiede Adam stringendomi la mano. Siamo seduti su una panca fuori dall’aula.

«Sono nervosa. Vorrei che tu potessi entrare con me».

«Anche io», risponde accarezzandomi il dorso della mano. Deve testimoniare anche lui. Ci sono molti capi d’accusa e molti testimoni…

Mi volto verso il corridoio e riconosco altre persone che saranno chiamate a testimoniare come noi. La ragazza della reception dell’albergo è seduta in disparte, con lo sguardo abbassato, e non mi vede.

E poi finalmente la porta si apre e un usciere chiama il mio nome.

Nell’aula fa caldo e rimpiango di non essermi messa in maniche corte. La cosa peggiore è l’aria strafottente di Ned nel suo completo di sartoria. Guardo la giuria, soffermandomi sulle giovani donne, chiedendomi se si lasceranno incantare dai suoi occhi dolci e dal suo fascino come Sally e io avevamo creduto alle sue bugie quando diceva di volere che Carol vedesse più spesso noi e sua madre.

Mentre mi scortano al banco dei testimoni, cerco di ricordare quello che mi ha detto Matthew. Che le prove contro Ned sono fondate, che hanno trovato le sue impronte digitali nei diari di Carol. Li leggeva di nascosto tutte le sere e conosceva tutti i pensieri e i progetti di Carol. Hanno recuperato tutti i certificati medici per dimostrare anni di abusi. Hanno la moto di Ned.

Ma nonostante tutti gli avvertimenti, è più dura di quanto mi aspettassi. Quando concludo la mia testimonianza, l’avvocato di Ned si alza.

«Non è vero che ha aggredito il mio cliente? Che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di aiutare la sua amica? Per coprire il suo crimine… Il rapimento di quel bambino…».

«No, no», rispondo, «non è vero. Lui stava cercando di strangolarla. Non sapevo cosa aveva fatto Carol finché non l’ho sentito al telegiornale. Pensavamo che il bambino fosse adottato».

«Davvero?»

«Sì».

«Non vi è passato per la mente che un bambino appena adottato sarebbe stato monitorato dalle autorità? Che la vostra amica non avrebbe potuto portarlo all’estero? Che non poteva essere un bambino adottato?»

«No, no. Non ci ho pensato. Non ho pensato alle regole. Lei sembrava così felice con lui. E il bambino era contento. Pensavo davvero che fosse suo finché non ho visto il telegiornale». Il cuore mi martella nel petto, temo di sembrare ingenua, ma è la pura verità.

Guardo Carol. Indossa un vestito verde scuro e sembra così minuscola e fragile. Non sopporto che debba subire tutto questo.

In ospedale abbiamo rischiato di perderla. Il cuore le si è fermato due volte e avevano dovuto portarla in rianimazione. Nella vita reale è molto più scioccante che nelle serie televisive.

«Vi chiedo per favore di uscire. Abbiamo bisogno di spazio…», aveva detto il medico.

«Carol ne ha passate tante. Non stava bene quando aveva preso quel bambino».

«Sì, ma non siamo qui per parlare della motivazione di un altro caso. Siamo qui per ribadire che il mio cliente stava cercando di salvare il bambino. Di farlo uscire dalla stanza mentre lei e Carol lo stavate aggredendo».

«Non è vero! Aveva messo un cuscino sopra la culla».

«L’ha visto con i suoi occhi?»

«No, ma sapevo che l’aveva fatto…».

«Quindi lei ha riportato danni psichici?»

«Obiezione!». L’avvocato dell’accusa si alza.

È stato interminabile, alla fine non ero nemmeno sicura dell’utilità della mia testimonianza. Sulla carta, la versione di Ned non stava in piedi, ma il crimine di Carol – il rapimento del bambino – complicava le cose. C’era stata una discussione su quale capo d’accusa sarebbe stato affrontato per primo. Poiché Ned aveva deciso di usare il crimine di Carol come fondamento della propria difesa, la sua ammissione di colpa doveva essere discussa per prima in un’udienza separata.

La difesa di Ned aveva avuto gioco facile e ne aveva approfittato.

Orribile.

Soltanto alla fine del processo, quando l’accusa aveva elencato tutte le prove – molte delle quali ancora ignoravo – mi ero sentita più rassicurata. Matthew aveva ragione. Il team aveva fatto un buon lavoro. Mi sembrava incredibile che Ned avesse avuto la faccia tosta di dichiararsi non colpevole.

L’accusa aveva raccolto la documentazione di tutti i ricoveri di Carol nel corso degli anni. In pronti soccorsi di diversi dipartimenti e sotto nomi falsi. Le costole rotte. Le misteriose “cadute”.

Per Ned, amare significava controllare, disse l’avvocato camminando su e giù davanti alla giuria. La sua paura più grande era che Carol lo lasciasse. Che se sua madre o noi – le sue vecchie e vere amiche – fossimo venute a sapere delle sue violenze, l’avremmo convinta a lasciarlo. Così aveva fatto leva sulla vulnerabilità di Carol. Fingeva di incoraggiare i suoi contatti con noi e poi la puniva per averci contattate. E mentre la manipolava con i suoi abusi, a noi diceva di essere preoccupato per lei perché non mangiava abbastanza.

In realtà leggeva il suo diario e spiava il suo telefono. Aveva seguito tutti i post sui social media che parlavano della festa della scuola ed era terrorizzato all’idea che Carol ci contattasse. Lei gli aveva raccontato della bambina che aveva perso e delle campanule. Era stato lui ad aprire il falso account Facebook per spaventarci. Metterci in guardia.

E quando il messaggio non aveva dato il risultato che sperava, aveva fatto chiamare la scuola dei miei figli dalla sua segretaria. La povera donna non aveva idea di cosa si trattasse.

E alla fine, disperato, aveva preso di mira il mio povero Adam. Non riesco ancora a capire il motivo. Perché? Urla una voce nella mia testa ogni volta che lo vedo zoppicare.

Quando Carol si era allontanata due giorni senza il telefono, Ned era uscito di testa. Aveva pensato che fosse venuta a trovarmi. Aveva portato la sua moto sul ferry e per un po’ ci aveva seguiti tutti, con la rabbia che gli montava dentro. Aveva seguito Adam dalla scuola…

Quel giorno, quando Ned mi aveva telefonato, i tabulati hanno dimostrato che in realtà era in Inghilterra. Si era inventato che Carol andava in giro in moto per sviarmi. Carol non aveva mai guidato una moto in vita sua. Era lui.

Non riesco ancora ad accettarlo. Cosa aveva fatto Adam a Ned? La notte scorsa ho fatto la stessa domanda a Matthew.

«Ma perché?», continuavo a ripetere.

«È stato un gesto di pura follia, Beth. L’aveva fatta franca così a lungo con le sue violenze su Carol che si credeva invincibile. Pensava che tutto gli fosse permesso».

Quando la giuria si ritira sta calando la sera e la seduta viene aggiornata alla mattina successiva. Nessuna di noi ha dormito. Carol, in libertà su cauzione e in attesa della sua sentenza, è bianca come un lenzuolo.

Soltanto quando la giuria ritorna in aula e lo dichiara colpevole di tutte le imputazioni, Ned rivela la sua vera natura e si mette a urlare e imprecare come un forsennato.

«Sei stata tu a farmelo fare! È tutta colpa tua!», urla puntando il dito contro Carol. «Stavi sempre a scrivere sul tuo stupido diario di “Beth e Sally”, “Beth e Sally”», dice, pronunciando i due nomi in quel suo irritante tono canzonatorio. «Puttane, tutt’e due! Me l’avrebbero portata via. L’avrebbero aizzata contro di me!».

Il giudice ordina di portarlo fuori dall’aula, ma lui continua a sbraitare mentre gli addetti alla sicurezza lo immobilizzano. Poi lancia un’occhiata a Carol, che si tiene la testa tra le mani. «Se soltanto avessi trovato qualcuno come Adam. “Gentile come Adam”. Ricordi quando l’hai scritto? “Adam e Beth” qui, “Adam e Beth” là».

Sentirlo pronunciare il nome di Adam mi sconvolge. Sally, seduta accanto a me, mi stringe forte la mano per farmi coraggio. Ned sta ancora urlando e cerca di liberarsi. Folle di gelosia, adesso sta fissando me.

«Quando l’ho investito, sarei dovuto andare più veloce!».

«Fate subito uscire quest’uomo dall’aula», tuona il giudice. Ma Ned continua a fissarmi, sgomitando e scalciando, finché non riescono finalmente a mettergli le manette e lo trascinano fuori.

«Volevo che tu sapessi cosa si prova. La paura di perdere qualcuno che si ama…».

Quella sera Carol rimane a casa nostra. Si siede in veranda e fissa il vuoto. È ancora molto pallida. Le porto un vassoio con tè e biscotti che so che non mangerà.

Restiamo a lungo sedute in silenzio e poi lei si volta verso di me.

«Ho scritto sul mio diario di te e Adam perché volevo davvero essere come voi. Che Ned assomigliasse di più a Adam, voglio dire. Non immaginavo che lui l’avrebbe letto e sarebbe venuto a cercarmi da voi. Mi dispiace tanto, Beth…».

«Non è colpa tua. Tu non hai fatto nulla di sbagliato. È la mente di Ned che è…». Non riesco a trovare la parola giusta. Vorrei dire… malata, malvagia. «… contorta».

«Ma uno sbaglio l’ho fatto, vero? Quel bambino…», dice in un sussurro. «Non volevo prenderlo, Beth… Non è stato un gesto consapevole».

«Lo so, Carol. È per questo che ti fanno le perizie psichiatriche e controllano il tuo stato di salute. Prima di emettere una sentenza dovranno tenere conto di tutto quello che hai passato in questi anni. Ormai è quasi finita, Carol».

E poi lei mi spiega qualcos’altro, l’ultimo pezzo mancante di questo triste puzzle. «È stato lo spiritualismo, tutte quelle letture, i tarocchi, i medium e tutta quella roba a far uscire di testa Ned». Lascia andare le mie mani e guarda fuori, in giardino, dove la brezza fa sbattere il ramo più lungo della magnolia contro il tetto della veranda.

Tap, tap…

Gli avvocati della difesa di Ned le avevano chiesto più volte perché era così ossessionata dallo spiritualismo, ma Carol non l’aveva mai spiegato veramente,

«La verità è che sono convinta che ci sia qualcosa dopo questa vita, Beth. Non proprio il paradiso. Non intendo quello. Ma qualcosa». Si volta di nuovo a guardarmi. «Le avevo dato un nome, Beth», sussurra.

«Come?», non la sto seguendo e faccio fatica a sentirla.

«La mia bambina… Le avevo dato un nome».

Non riesco a trattenere un ansito di sorpresa. Quando, dopo avere sepolto la borsa, avevamo acceso le candele nella cappella, Sally aveva detto che dovevamo darle un nome, così sarebbe andata in paradiso e non nel limbo. Ma Carol, in lacrime, aveva insistito: «No, nessun nome. Nessun nome».

Mi confessa che all’epoca aveva avuto paura che dandole un nome per lei sarebbe stato ancora più insopportabile, più reale. Ma in seguito aveva continuato a sognare la bambina e così aveva cambiato idea…

«L’ho chiamata Rebecca». Le lacrime le stanno rigando le guance. «E ho cominciato a pensare sempre più alla vita dopo la morte… il paradiso, l’inferno, il limbo, gli spiriti e tutte quelle cose. Era cominciato con la tavola Ouija, quando avevo creduto che mio padre stesse cercando di parlarmi».

«Ma lo sai che non era reale, che era soltanto un trucco di Melody».

«Sì, ma sembrava reale. Volevo sapere cosa aveva da dirmi. E in seguito, dopo la morte della bambina, è diventato sempre più importante. Non l’ho detto in tribunale perché mi avrebbe fatta sembrare folle come Ned».

Si asciuga le lacrime con i palmi delle mani e mi fissa negli occhi. «Ma a te posso dirlo, vero, Beth?»

«Certo che puoi. A me puoi dire tutto».

«Volevo credere che fosse possibile entrare in contatto con mio padre…». Sta parlando molto lentamente e allunga di nuovo una mano cercando la mia. «Volevo chiedergli una cosa…». La sua voce è così bassa che la sento a malapena.

Mi avvicino. «Chiedergli cosa, Carol?»

«Di prendersi cura della mia bambina», risponde stringendomi la mano.

Una pausa.

«Volevo chiedere a mio padre di prendersi cura di Rebecca».