Capitolo 36

Beth – Prima

Carol partorisce subito. È una bambina. Minuscola. Per qualche istante mi sembra di vederla respirare, ma poi mi dico che non è possibile. È nata troppo presto. È troppo piccola.

Sally è isterica e la faccio uscire dal bagno. Le urlo di prendere dall’armadio un asciugamano pulito. «Fa’ presto, Sal. Muoviti!».

Ma appena esce singhiozzando, crolla a terra con un tonfo. All’inizio temo che si sia fatta male perché ha battuto la testa contro il muro. «Sally! Sally? Mi senti?». Esco sul pianerottolo e la schiaffeggio per farla rinvenire. «Apri gli occhi, Sally! Per l’amor di Dio! Guardami!». Lei rinviene e l’aiuto a rialzarsi, dicendole di piegarsi in avanti e infilare la testa tra le ginocchia. «Forza, Sally! Rimani seduta lì. Carol ha bisogno di me…».

Quando ritorno in bagno, la prima cosa che mi colpisce è il silenzio. Carol sta stringendo contro lo stomaco il minuscolo fagottino come una bambina con la sua bambola rotta. Non dice nulla. La piccola è blu. Non respira e non si muove.

Fisso la bocca della neonata pregando che si muova, ma non succede nulla. E io non faccio nulla. Non controllo né il suo polso né il suo respiro.

«Penso di averle messo la mano sulla bocca», dice Carol fissandomi. «Penso di averla soffocata…».

«Non dirlo. Non pensarlo nemmeno. Non avresti mai fatto una cosa simile».

E per un istante è come se il tempo si fermasse, la stanza fosse piena d’acqua e io nuotassi in cerchio. Una sirena incapace di sentire, che può solo vedere.

Vedo Carol cullare dolcemente la neonata – blu e rigida, ora – e mi volto a guardare Sally, che è ancora seduta sul pianerottolo con la testa tra le ginocchia.

E io giro e rigiro, continuando a nuotare in cerchio per assicurarmi di non dimenticare nulla. Le quattro piccole conchiglie che abbiamo trovato in spiaggia durante le vacanze allineate sullo scaffale blu sotto lo specchio. Ricordo come eravamo felici il giorno in cui le avevamo portate a casa, mentre mia madre, brontolando per la polvere che avrebbero raccolto, mi aveva detto: «Non possiamo gettarle, Beth? Ne prenderai altre l’anno prossimo».

La tendina alla finestra, perennemente abbassata perché il meccanismo si era rotto. Siete state voi, ragazze. La tirate troppo forte. Dovete fare più piano… Lo specchio sopra il lavandino che durante le vacanze dovevo pulire per avere la paghetta. Guardo il mio riflesso sorridendo, con il detersivo per pavimenti e lo strofinaccio giallo in mano, con mia madre dietro di me, e sento l’odore della normalità. Il desiderio di normalità.

Ma la cosa peggiore è l’espressione di Carol, oltre il dolore.

Ed è in quel preciso istante, mentre cerco di interpretare lo sguardo di Carol, che la vita come la conoscevo si è fermata e ne è cominciata un’altra. Una vita in cui ogni giorno devo lottare per tenere questa orribile immagine in fondo all’oceano e poi tornare in superficie per respirare. E vivere. È l’immagine in quello specchio. L’espressione del viso di Carol. La scena che registra quello che era successo. Non per gli altri, ma soltanto per noi.

Andrò all’inferno? Brucerò nelle fiamme eterne?

La cosa che rimpiango di più è non avere chiamato un’ambulanza. E mia madre e quella di Carol. Forse, se l’avessi fatto, ora le nostre vite sarebbero completamente diverse.

Ma non l’avevo fatto.

Restammo a lungo in silenzio, scioccate. Carol tornò in bagno e Sally avanzò verso di noi strascicando i piedi. E poi Carol cominciò a farfugliare qualcosa sulla polizia. «Non dovremmo chiamarla?». Disse che sarebbe finita in prigione. No. In un centro di detenzione. Avrebbe spiegato che non era colpa nostra – mia e di Sally – ma soltanto sua. Che le dispiaceva molto, ma doveva avere confuso le date. Non si era resa conto di essere così avanti nella gravidanza e ci chiese di perdonarla. Saremmo mai riuscite a perdonarla?

E più il suo tono diventava patetico, più mi convincevo che dovevamo aiutarla. Dissi che la colpa non era soltanto sua ma di tutte noi tre. Eravamo state stupide. Non cattive, soltanto stupide. La mia colpa era stata quella di non telefonare a mia madre. Avremmo dovuto capire che mancava così poco al parto. E comunque Carol non sarebbe andata all’inferno. Avremmo pregato e acceso candele per lei.

Carol aveva detto qualcosa a proposito del limbo. Non era lì che finivano i bambini non battezzati? Ricordo di averle risposto che non credevo al limbo e che sua figlia adesso era in paradiso. «In paradiso, Carol». Ma lei continuava a farfugliare e tremare, così le chiesi se dovevamo chiamare sua madre. Ma lei era terrorizzata e ci pregò di non farlo perché le si sarebbe spezzato il cuore. Allora Sally e io le facemmo un bagno e la convincemmo a lasciarci avvolgere la neonata in un asciugamano a righe. Poi lo nascondemmo in una borsa nella mia camera, comprammo un grande pacco di assorbenti e la sera dissi a mia madre che Carol aveva avuto delle mestruazioni particolarmente copiose.

Carol rimase a letto due giorni e io volevo che mia madre ci scoprisse, mi abbracciasse e mi rassicurasse. Ma non lo fece. Così, quando Carol fu di nuovo in forze, facemmo qualcosa di veramente orribile. Infilammo il fagottino in un sacco di plastica e lo portammo al convento, dove lo seppellimmo.

Una minuscola bambina sepolta tutta sola nel bosco. Sally vomitò. Io piansi. Carol non disse nulla, continuò a fissare il vuoto con un’espressione assente. Ci mettemmo un’ora per convincerla a lasciare il bosco e poi andammo tutte nella cappella della scuola, dove accendemmo tre piccole candele e le guardammo in silenzio consumarsi lentamente nelle tenebre.

Fu a quel punto che facemmo la promessa. Tenendoci per mano davanti alle fiammelle delle candele. Non l’avremmo detto a nessuno. Mai. Sarebbe rimasto un segreto tra noi tre. Avremmo fatto finta che non fosse mai successo.

Prometto.

Prometto.

Prometto.