Capitolo 1

Beth – 2008

Conoscete quella strana sensazione che si prova quando un suono del mondo reale si infiltra in un sogno?

Sto fissando un enorme telefono di plastica rossa che suona nel mio sogno e so che si tratta di un sogno perché quell’apparecchio è troppo ridicolo. All’inizio non riesco a svegliarmi e così sollevo la cornetta. Il telefono, però, continua a squillare. Riaggancio e provo di nuovo, ma il suono non smette.

Alla fine apro gli occhi e sento il telefono reale che squilla accanto al letto. La sveglia segna le tre di mattina. Mi sento assalire dal panico. È morto qualcuno?

Guardo Adam che russa pacatamente accanto a me. Penso a Sam nella stanza accanto – con le braccia che pendono da un letto di stelle e pianeti – e a Harry nella sua culla. Ma ci sono altre persone che amo e, tremando di paura, accosto il telefono all’orecchio.

È Richard che mi parla a bassa voce e in tono concitato. «È per Sally. Puoi venire, Beth? Ha perso il bambino». Fa una pausa, in caso non avessi sentito. «Ha perso il bambino».

Il letto scricchiola mentre mi metto a sedere. Mi copro la bocca con una mano, ma è troppo tardi, mi è già sfuggito un suono così strano che perfino Adam si sveglia e sgrana gli occhi, terrorizzato. Harry si stiracchia e poi si gira nella culla tirando su con il naso.

Scosto il telefono dall’orecchio e ripeto sussurrando: «Sally ha perso il bambino. È Richard».

Adam chiude gli occhi e trasalisce. L’empatia per il dolore di Sally cede subito il posto al senso di colpa. Il fugace sollievo che si prova quando la perdita non è nostra, non è uno dei nostri figli a essersene andato.

Riaccosto il telefono all’orecchio e chiudo gli occhi. «Cosa è successo? Dove sei? All’ospedale?»

«Siamo ancora a casa. Sta arrivando l’ambulanza, ma lei si è chiusa in bagno. Non mi lascia entrare. Vuole te, Beth. Non aprirà la porta a nessun altro».

Borbotto che sto arrivando, sbatto giù la cornetta e salto fuori dal letto. Prendo i pantaloni da jogging e il pullover che avevo lasciato sulla sedia, non indosso nemmeno l’intimo e dico a Adam che devo andare da lei. Lui non obietta, mi raccomanda soltanto di guidare piano.

Cosa che io non faccio. Corro come una pazza, con le lacrime che mi fanno bruciare gli occhi, picchiando sul volante per sfogare la rabbia.

Quando parcheggio dietro la macchina di Sally, sul vialetto, mi dimentico di tirare il freno a mano e l’auto comincia a indietreggiare, costringendomi a saltare di nuovo dentro per fermarla. Scendendo per la seconda volta, mi graffio una gamba contro la portiera e sento il calore vischioso del sangue sulla caviglia, ma non provo dolore. Non provo nulla.

Salgo gli scalini davanti all’ingresso e suono una, due, tre volte. Oh, mio Dio! Dove si sarà cacciato? Mentre, come un drago, esalo nuvolette di vapore nell’aria della notte, Richard apre finalmente la porta e scopro che il drago non riesce a parlargli. Vorrei sputare fuoco e ruggire la mia rabbia, riducendolo in cenere e calpestandolo. Per me, ora come ora, questa tragedia non ha nulla a che vedere con lui. Lo odio. Lo odio per la sua infedeltà, la sua arroganza e per non avere voluto quel bambino che ora se n’è andato.

Entro in casa, lo spingo da parte e mi precipito sulle scale. Nello specchio sul pianerottolo vedo il riflesso di Richard che apre la porta agli infermieri dell’ambulanza e le luci d’emergenza che lampeggiano nel vialetto. Cerco di aprire la porta del bagno, ma è ancora bloccata.

«Sal, tesoro, sono io, Beth. Fammi entrare».

Sento i suoi singhiozzi, poi un rumore di passi strascicati.

«Ti prego, Sally!».

Alla fine la chiave gira nella toppa, ma non riesco ad aprire la porta perché lei deve essercisi appoggiata contro. La convinco a spostarsi, ma appena entro Sally torna a barricarsi all’interno e mi chiede di chiudere di nuovo a chiave. Cosa che faccio.

È seduta sul pavimento, con gli occhi sgranati come una bambina dopo un brutto sogno. Indossa una giacca del pigiama di flanella bianca con i cuoricini rossi e al posto dei pantaloni ha avvolto attorno alla vita un asciugamano macchiato di sangue. È pallida e tremante. La stringo a me e mi accorgo che anche io sto tremando. Poi ci stacchiamo e lei mi fissa.

«Se n’è andato, Beth». La sua voce è poco più di un sussurro, ma la parola andato rimane sospesa nell’aria come una mano che si tende senza trovare nulla da afferrare.

Poi arriva il rumore di passi sulle scale e voci alla porta. Gli infermieri. Chiedo loro di aspettare e dico a Sally che dovremmo lasciarli entrare. Ma lei scuote la testa e non mi ascolta.

«Datemi un minuto per parlarle, per favore», urlo da dietro la porta. Sally dondola lentamente il busto, poi si dirige verso la vasca e prende un asciugamano azzurro appallottolato e macchiato di sangue.

«C’era qualcosa, Beth. Ho paura di guardare». Dapprima sono confusa, non riesco a seguirla, ma il suo sguardo fisso sull’asciugamano è insistente e all’improvviso sono terrorizzata. Non voglio che lo dica a voce alta, non voglio nemmeno che lo pensi. Il dolore le ha fatto chiaramente perdere la testa.

«Va tutto bene. Non può essere, tesoro. È troppo presto. Non c’è nulla lì dentro. Nulla. Te l’assicuro». Ma lei ha un’espressione tormentata e continua a sgranare gli occhi.

«Non possiamo lasciarlo lì. Nel caso… Possiamo, Beth? Nel caso…?». Le trema la mano, è sconvolta. Ha perso troppo sangue. Ha perso troppo. Si dondola di nuovo avanti e indietro e io decido di non perdere altro tempo cercando di convincerla. Le scosto i capelli dalla faccia, le tolgo delicatamente l’asciugamano e le prometto che nessuno lo lascerà lì, che mi prenderò io cura di tutto se permetterà agli uomini dell’ambulanza di entrare. Sally annuisce e io non so se sono più spaventata dalla salvietta che tengo in mano o dalla fiducia che vedo nel suo sguardo mentre apro la porta del bagno e gli infermieri si precipitano dentro per assisterla come io non posso fare.

Sally si è ormai rassegnata, non protesta nemmeno quando Richard insiste per accompagnarla all’ambulanza. Dico all’autista che li seguirò con la mia macchina e faccio un cenno a Sally, stringendo in mano l’asciugamano macchiato per farle capire che manterrò la mia promessa. E lo farò.

Metto il fagotto in un piccolo beauty-case vuoto che trovo su uno scaffale del bagno, poi, con la nausea che mi sale alla gola, lo infilo nel bagagliaio della mia auto e seguo l’ambulanza. Mi sembra una cosa terribile da fare, anche se sono sicura che Sally dev’essersi sbagliata.

All’ospedale ci attendono una lunga attesa e un sacco di analisi. Rassicurano Sally che non ci saranno complicazioni, ma lei continua a piangere. Le liscio i capelli, vorrei stare con lei, ma mi fanno aspettare in questa orribile sala d’attesa mentre lei parla con Richard. È una stanza fredda, con un forte odore di disinfettanti e sigarette proibite. In un angolo c’è un distributore di bevande ammaccato con sopra un cartello “FUORI SERVIZIO” appiccicato con lo scotch da pacchi. Sono tentata di infilarci una moneta per lasciare anche l’ammaccatura del mio piede. Invece cammino avanti e indietro e penso. Il che non è un bene.

Rivedo lo scatolone, in un angolo della stanza degli ospiti, dove abbiamo già cominciato a raccogliere le cose per il piccolo Sam. Mai sfidare il destino!

Allungo comunque un calcio al distributore delle bevande e poi, dopo due ore, mi permettono di rientrare nella stanza di Sally, dove scopro che Richard se n’è andato. Sally l’ha mandato via, non per la prima volta, ma per l’ultima. Così, alla fine, la riporto a casa io, guidando più lentamente, questa volta, e poiché non c’è nulla da dire, mi limito a tenerle la mano quando non sono impegnata con il cambio.

Non mi sorprende che abbia chiuso con Richard. Sally aveva scoperto il suo ultimo tradimento dopo il test di gravidanza positivo. Non ha più nessun motivo per essere coraggiosa, per riprovarci.

Ricordo benissimo la notte in cui abbiamo scoperto la sua prima tresca: l’ho guardata mentre se ne stava seduta sul tappeto color crema della loro camera da letto a tagliuzzargli i vestiti: il completo Armani, la giacca Hugo Boss. Zac. Zac. Zac.

Sally rimane da me due settimane e compro una magnolia – una forma di consolazione piuttosto scontata – che nel suo vaso di plastica nera non ha un aspetto particolarmente speciale, ma è l’unica cosa che mi è venuta in mente.

Nella scuola dove Sally e io ci siamo conosciute c’era una splendida magnolia. Lei l’adorava e si sedeva sempre contro il suo tronco, all’ombra, per leggere con la luce tra le foglie che danzava sul suo viso.

Scavo un grande buco e lei annuisce: il suo viso, adesso, è in ombra.

Entrambe sappiamo che nel beauty-case non c’è nulla. E, naturalmente, è proprio questo il problema. Il nulla.

Seppelliamo comunque la borsa sotto il nuovo albero del mio giardino, con la consapevolezza che il suo sarà venduto. Poi recitiamo una preghiera e diciamo poco altro.

Adesso l’albero si staglia alto in tutto il suo splendore. La fioritura delle magnolie è breve ma magnifica, come la gioia di Sally per il suo piccolo. Ogni primavera, quando guardo i petali trasportati dal vento, penso alla fragilità dei nostri sogni.

È la cosa più difficile che abbia fatto per Sally, ma non la più difficile che ho dovuto affrontare.

Perché c’è un’altra amica – il fantasma di un’amica – che sta aspettando nell’ombra.

Con altre cose da chiedermi.