Capitolo 13

Beth – Adesso

Guardo il viso arrossato di Deborah e mi domando a cosa diavolo stessi pensando. Cosa mi aspettavo che succedesse? Che la chiudessimo qui? Che avremmo telefonato a Carol e, tra le lacrime, avremmo deciso di andare alla polizia? Che avremmo affrontato il nostro passato? Esorcizzato i nostri demoni? Lavato il sangue versato?

Siamo in uno squallido snack-bar dietro la High Street. Deborah ha bevuto un caffè e abbiamo ordinato da mangiare. La madre di Carol è ancora ansimante e disorientata, paurosamente pallida.

Non ha detto nulla a proposito di ipotetiche brutte notizie riguardo a Carol, ma è proprio questo il problema. Non ha proprio parlato di Carol. Ed è molto più che strano. È inquietante.

Deborah non ci ha fornito nessuna informazione, ha continuato a eludere le mie domande interrogandoci sulle nostre vite.

Guardandola, mi accorgo di quanto sono stata indelicata, per di più trascinandomi dietro la riluttante Sally. Egoisticamente, non ho preso in considerazione l’impatto che tutto questo avrebbe avuto su Deborah.

Vederla in queste condizioni mi fa stare male. Nella sala bingo sono rimasta così colpita dalla reazione di Deborah, che è stata Sally a suggerire di andare in un ristorante, in un bar, in un posto dove lei potesse riprendere fiato.

Penso a Matthew nella sua camera d’albergo. Avrei dovuto dargli retta fin dall’inizio. «Lasciate che sia io a trovarla, poi vi contatterò per lettera o al telefono. Dobbiamo procedere con cautela… Sono passati molti anni».

«Pensi sia asma?», sussurra Sal quando Deborah si alza per andare alla toilette.

«Non lo so. Non capisco cosa stia succedendo. Non vuole rispondere a nessuna domanda su Carol…». Guardo il telefono di Sally sul tavolo. «A chi stai scrivendo?»

«Sto solo aggiornando Matthew».

«Devi stare molto attenta a quello che gli dici, Sally».

«Pensi che non lo sappia?». Ha l’aria tesa. Si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Gli ho scritto soltanto che sono preoccupata. Che Deborah è molto strana».

«Fantastico! L’avrai insospettito».

«Non fare così, Beth. Ricorda che io non volevo venire. Questo viaggio è stato una tua idea».

E poi, troppo presto, Deborah ritorna al tavolo e ordina un doppio gin tonic che beve a grandi sorsate. Le ripeto quanto ci dispiace di avere perso i contatti con Carol e che fortuna abbiamo avuto a trovare una traccia di lei a Brighton. Mi invento che eravamo lì per visitare una mostra nel museo accanto al Royal Pavilion sulla quale ho letto qualcosa online.

«Chi vi ha detto che mi sono trasferita qui?»

«Oh, non me lo ricordo più. Qualcuno nell’ufficio postale vicino a dove abitavate, credo». Il tavolo è cosparso di briciole che raccolgo schiacciandole con i polpastrelli. «Allora, come sta Carol? È ancora all’estero?».

C’è una lunga pausa e Deborah guarda alternativamente me e Sally picchiettando le unghie sul bicchiere. «Oh, sta bene. E cosa mi dite di voi due? Stai nel Devon, Beth?».

Sally mi lancia un’occhiata. «St Colman sta chiudendo, Deborah. Vendono il terreno per un nuovo progetto edilizio e ci sarà una grande festa d’addio. Le riunioni di ex compagne di classe non sono la nostra passione, ma questa è l’ultima possibilità di rivederci e volevamo contattare Carol per farglielo sapere».

«Il convento sta chiudendo?». Deborah allunga una mano per prendere la borsa, che è di tessuto vecchio stile, con un gancio di metallo, come un gigantesco borsellino. La apre, tira fuori un fazzoletto e si soffia il naso. «Mio Dio! È da anni che non penso a quel posto. Dopo che se n’è andata, Carol non l’ha più menzionato».

Il cameriere arriva con i piatti e mi scosto di lato mentre mi serve il mio salmone affumicato, secco e poco appetitoso, con sopra una fetta di limone raggrinzito. C’è anche una ciotola di insalata ammosciata, come se fosse stata condita da tempo. Sono tentata di protestare, ma poi decido di lasciar perdere.

«Il fatto è, Deborah, che ormai manca poco alla festa e dobbiamo contattare Carol il più presto possibile».

Arriva un altro cameriere con il resto delle ordinazioni e rimaniamo in silenzio finché non si allontana.

Deborah spiega il tovagliolo, se lo posa in grembo e comincia a spalmare il pâté sul pane tostato. «È ancora all’estero, e anche per me è difficile seguire le sue tracce. In quale parte del Devon hai detto che stai, Beth? Quando ero giovane andavamo in vacanza vicino a Torquay, c’erano un sacco di palme, era molto esotico. Era lì che Agatha Christie scriveva i suoi romanzi. Mi è sempre piaciuta Agatha Christie. Mi sembra di avere letto da qualche parte che la sua casa è diventata patrimonio nazionale. Ci sei mai stata? Non è adorabile?». Sgranocchia il toast, che è troppo croccante e si sbriciola sul piatto.

«Il tuo toast sembra bruciato, Deborah».

«A me piace così. È perfetto».

Ci scambiamo di nuovo uno sguardo imbarazzato e un falso sorriso.

«Quindi, Carol è ancora in Francia?». Ho preso una penna dalla borsa nella speranza di scrivere un indirizzo o un numero di telefono. Qualsiasi cosa. Ma per il momento devo rinunciare, poso la penna e giocherello con la fetta raggrinzita di limone.

«A volte».

Sally e io evitiamo accuratamente di guardarci. Dopo l’incidente del padre, Carol e sua madre hanno potuto contare soltanto l’una sull’altra. Quando lui è morto, lei aveva cinque o sei anni e non c’erano altri parenti.

Dall’altra parte della stanza un cliente sta protestando per il conto e io ne approfitto per nascondere discretamente il salmone sotto l’insalata.

«E come stanno le vostre famiglie? Raccontami dei tuoi figli, Beth». Continua a evitare i nostri sguardi e così tiro fuori il telefono per mostrarle le ultime fotografie, parlandole a raffica del caos che regna in famiglia e di mia madre che vive da sola dopo la morte di papà. Deborah è molto gentile e sorprendentemente a suo agio su questo argomento – il cancro – e mi fa promettere che le porterò i suoi saluti.

Mi torna in mente che Deborah è rimasta vedova quando era molto più giovane. Ai tempi della scuola, per noi tutti gli adulti erano vecchi e soltanto ora mi rendo conto di quanto deve essersi sentita sola Deborah. Quando incontrai Sally e Carol, aveva probabilmente la nostra età.

«Siamo rimaste sorprese quando non abbiamo trovato Carol sui social media. Sta ancora con Ned? Si sono sposati? Hanno figli?»

«No, non sono sposati. Ma sta ancora con lui, grazie a Dio. Un uomo adorabile». Per la prima volta mi guarda negli occhi, ma poi si volta subito verso Sally. «E tu hai figli, Sal?»

«No, ho divorziato. Parecchi anni fa. Adesso sto molto meglio, ma il divorzio non è stato facile».

«Oh, mi dispiace». Il suo tono è ora più gentile. Scuote nel piatto le briciole di toast cadute sul tovagliolo e poi se lo rimette in grembo. «Carol e Ned non sono riusciti ad avere figli. Hanno cercato di adottarne uno, ma è molto difficile, molto stressante».

Evito deliberatamente di guardare Sally.

«Puoi darci il numero e l’indirizzo di Carol?», chiedo tirando fuori di nuovo la penna.

Una pausa più lunga.

«È così impegnata… Gli affari di Ned e tutto il resto. E lo stress dell’adozione. È stata una dura prova». Deborah comincia a scuotere altre briciole immaginarie dal tovagliolo e poi si mette ad armeggiare con la borsa. Sono tentata di allungare un braccio per bloccarle la mano.

La discussione sul conto dall’altra parte della stanza è diventata più accesa, ma noi fingiamo di ignorarla. Alzo la voce e mi metto a raccontare storielle sul lavoro e i figli che suscitano false risate.

Finché, davanti un cheesecake stantio che mi si incolla al palato, Deborah ammette: «Vi sembrerà un po’ strano, ma non ho l’attuale indirizzo di Carol e nemmeno il suo numero di telefono». Arrossisce e poi mi fissa, come per provocare la mia reazione. Sono così sconvolta che non so cosa dire.

«Affittano sempre un appartamento diverso e lei si sposta molto. Sapete come sono i giovani di oggi, sempre incollati al cellulare e al laptop. Io non frequento molto la rete. Ho paura delle truffe. Ma da qualche parte devo avere il suo numero di cellulare. Per le emergenze. Il più delle volte, però, preferisce essere lei a contattarmi. Pensiamo tutte e due che sia meglio così. Potete venire da me per un caffè, se volete. Io intanto vedrò se riesco a trovare il suo numero».

Prendiamo un taxi. Durante il tragitto parliamo del più e del meno. Il tempo. Il bingo.

La casa è proprio come temevo. Se la solitudine può avere un odore, è quello che ristagna tra queste pareti, un misto di cera per pavimenti e deodorante per ambienti intriso di bisogno di compagnia. Ritratti di una giovane Carol sorridono dalle pareti. Su una spiaggia o una montagna. Su una funivia e con gli sci ai piedi.

Mentre mi guardo attorno nella stanza, Deborah appare con un vassoio coperto da una tovaglietta di lino sul quale ci sono tre tazzine e piattini e un bricco di caffè. Sotto il braccio porta una rubrica degli indirizzi dal dorso sdrucito e noto che l’angolo della tovaglietta è ingiallito dal sole, come se fosse rimasta accanto a una finestra. In attesa.

«Allora, eccoci qui. Mi ha dato soltanto il numero del cellulare perché si sposta in continuazione. Il lavoro di Ned, sapete. Scusatemi… l’avevo già detto. Comunque, lui è sempre impegnato in qualche progetto. In ogni parte del mondo. È per questo che prendono solo appartamenti in affitto. Bene, eccolo qui. Ma il problema è che potrebbe non essere il suo numero attuale. Lo cambia in continuazione». Tossisce. «Preferisce che la chiami solo per le emergenze. Altrimenti la interrompo sempre mentre sta lavorando. Sapete com’è… dirigere un’azienda».

Deborah mi ricorda all’improvviso mia madre con il suo vassoio e le sue tazzine.

«Proviamolo adesso».

«Oh, no, no, Beth. Non è affatto una buona idea. È tardi. E, come vi ho detto, di solito preferisce essere lei a chiamarmi. Funziona meglio così. Davvero. Potete provare domani. Bevete il caffè, adesso. Latte?»

«Forza, dammi il numero. Pagherò io la chiamata. Lei non se la prenderà… è una sorta di emergenza. Per favore, Deborah».

Con il bricco del caffè in mano, la sua espressione mi uccide. Il suo sguardo passa dalla rubrica degli indirizzi al vassoio. Posa il bricco e sorride nervosamente. Una madre che sembra avere bisogno di una scusa per chiamare la figlia.

«Allora chiamiamola. Non crederà che voi due siete qui».

Sfoglia la rubrica in cerca del numero, posa il telefono sul bracciolo della poltrona e digita sollevando le spalle come un bambino che sta facendo uno scherzo. Mentre aspetta la linea, ci indica il caffè e Sally si china a versarlo.

«Pronto. Pronto. Carol? Sono la mamma».

Trattengo di nuovo il respiro fissando il telefono. La mano di Deborah sta tremando.

«No, no, sto bene, tesoro. Nessun problema. Lo so che è tardi, amore. Sì. Mi dispiace. Non volevo che ti preoccupassi. Sì. Sì. Ma… ascoltami, ho una sorpresa per te. Non immagineresti mai chi c’è qui. Proprio davanti a me». Deborah fa una smorfia e ci guarda. «No, no. Sally e Beth, le tue vecchie compagne di scuola».

E poi cala il silenzio. Un lungo, imbarazzante silenzio durante il quale Deborah mi guarda e io guardo Sal. E all’improvviso Deborah cambia espressione.

«Ci sei ancora, Carol? Pronto? Mi senti, tesoro? Sì, Sally e Beth. No. Sono venute a trovare me. Per farti una sorpresa, amore. Aspetta. Hanno delle notizie da darti. Te le passo?».

Deborah mi porge la cornetta.

«Ciao, Carol». Per un istante sento solo il suo respiro, pesante e rumoroso, ma riesco a immaginarmela perfettamente, con il piccolo neo sotto il sopracciglio che si muove quando aggrotta la fronte. Resto in attesa e alla fine sento la sua voce falsamente allegra.

«Beth, mio Dio. Che sorpresa!».

Carol, guardami, per favore.

«Cosa ci fai a casa di mia madre?»

«St Colman sta per chiudere, Carol. Abbatteranno la scuola per costruire un nuovo complesso edilizio. Ci sarà una grande festa d’addio e vogliamo che venga anche tu».

«Il convitto chiuderà?». Sembra disorientata. Scommetto che sta pensando esattamente a quello che penso io.

A quell’orribile stanza, le conchiglie sullo scaffale, il sangue…

«Mi dispiace chiamarti così all’improvviso. Immagino che per te sia davvero una sorpresa».

«Dispiace anche a me, ma non è il momento giusto. Aspetta, prendo una penna e mi segno il tuo numero».

Riconosco il tono. È quello che usa quando mente.

«Resta in linea. Prendo una penna».

La odio quando parla così. È il tono che aveva a Parigi, quando aveva saputo che ero incinta di Sam. Era pochi anni prima della disastrosa festa del mio trentesimo compleanno. Avremmo dovuto trascorrere tre splendide giornate insieme. Avevo persino pensato che avremmo potuto affrontare il passato. La promessa. Ma no, non andò affatto così. Lei si estraniò da noi, proprio come sta facendo con me adesso…

«Mi dispiace tanto. Aspetta un attimo, Beth. Non posso parlare adesso».

Lo stesso tono di Parigi, dove schivava i nostri sguardi ed entrambe sapevamo che stava mentendo, accampando scuse.

Il telefono di Deborah è caldo e appiccicoso nella mia mano. Carol sta parlando con qualcun altro nella stanza dove si trova. Spero sia Ned, e che si stia schierando a nostro favore come aveva fatto a Parigi. Ma poi lei ritorna e ci scambiamo rapidamente i numeri, o piuttosto lei annota i nostri, il mio e quello di Sal, che sta cercando di origliare.

Vorrei parlarle più a lungo, ma Carol mi chiede di ripassarle la madre, scusandosi di nuovo perché in questo momento è impegnata. Deborah ha un’aria più seria, adesso. Si limita ad ascoltare e annuire, scusandosi per averla disturbata.

Alla fine mi porge di nuovo il telefono e Carol promette di richiamarci appena avrà un po’ di tempo. Che ci penserà e ci farà sapere se verrà alla festa della scuola. «Sì, prendo nota della data e poi vi dico. Certo».

La voce di Carol trema e io non oso dire nient’altro di fronte a Deborah. Ci salutiamo frettolosamente.

Restituisco il telefono a Deborah, che lo posa con delicatezza come se fosse di vetro.

«Bevete il caffè, ragazze. Sta diventando freddo».

Sfoggiamo tre sorrisi gelidi, come se fossimo in posa per una foto di matrimonio. Nessuna di noi sa cosa dire finché Deborah non scompare in cucina per fare un altro caffè.

Aspettiamo in silenzio per quella che ci pare un’eternità, e alla fine decido di seguirla per chiederle se posso darle una mano.

Deborah non mi sente avvicinarmi e la vedo versare della vodka in una tazza da caffè rosa e scolarla tutta d’un fiato. Poi si pulisce le labbra con il dorso della mano e ripete l’operazione. Tappa quindi la bottiglia e, mentre torno in soggiorno facendo cenno a Sally di restare seduta, sento il clic dell’anta dell’armadietto che si chiude.

Dopo qualche minuto mi avvio di nuovo verso la cucina e tossisco prima di entrare. Deborah è davanti al lavandino e si sta asciugando gli occhi con un fazzoletto.

«Ehi, Deborah, cosa c’è?», le chiedo cingendole le spalle con un braccio mentre lei si soffia il naso. «Mi dispiace. È tutta colpa nostra».

Lei si volta dall’altra parte, si soffia di nuovo il naso e si asciuga le lacrime con il dorso della mano. «Non verrà a quella festa, e sono sicura che non vi chiamerà nemmeno». Sally ci raggiunge e ascolta con gli occhi sbarrati. «In verità, è da tre, forse anche quattro anni che non la vedo. Promette di venire, ma poi per un motivo o per l’altro non si fa viva. Ned cerca sempre di convincerla. È un uomo adorabile e fa quello che può. Ma lei…».

«Immagino sia molto occupata. Come hai detto prima…».

«Anche voi siete troppo occupate per vedere le vostre madri?», chiede guardandoci per la prima volta negli occhi. Non so cosa rispondere. Sally si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Comunque pensavo che doveste saperlo. State pur certe che adesso cambierà numero di telefono. Succede ogni volta che le faccio troppa pressione».

«Mi dispiace tanto, Deborah».

«Non voglio che pensiate male di lei. È mia figlia e ne ha passate tante. Dopo la morte del padre ha continuato a trasferirsi da una città all’altra. E poi c’è stato il trauma dell’adozione. Di tanto in tanto dice che ha perso il telefono e cambia numero. Per un po’ non la sento… a volte per anni, e poi all’improvviso si rifà viva. È un comportamento molto strano, non trovate?»

«E Ned? Come la prende?»

«Ve l’ho già detto, lui è una persona adorabile e cerca sempre di mediare. Una volta ha cercato di organizzare un lungo fine settimana a Bruges per il mio compleanno, ma all’ultimo momento Carol ha detto che era malata. Mi ha dato buca. Quindi è lei. È sempre Carol il problema. Non vuole vedermi, mi tiene a distanza e io non ho idea di cosa le abbia fatto…», dice scuotendo la testa con un’espressione cupa in volto.

«Forse è perché le faccio sempre notare che è troppo magra». Parla più in fretta, ora, come se volesse sviscerare tutti gli argomenti. «E poi penso che abbia anche problemi di soldi. Una volta mi ha detto che dovevano trasferirsi in continuazione per evitare le tasse. Mi hanno comprato questa casa e l’hanno intestata al mio cognome da nubile, pagandola tutta in contanti e raccomandandomi di non dirlo a nessuno. Immagino fosse uno stratagemma per evitare le tasse, ma io di queste cose non capisco nulla. A volte lei e Ned mandano denaro direttamente sul mio conto in banca e non mi sembra il caso di fare troppe domande».

Deborah fa un lungo sospiro. «Siamo molto lontane. È un vero peccato, ma le cose stanno così». All’improvviso il suo tono è imbarazzato e lei comincia a rimettere a posto piatti e tazzine, annunciando che è molto stanca e che deve andare a letto. Mi offro di aiutarla, ma è come se rimpiangesse di aver parlato troppo. «Mi dispiace, ma è meglio che ve ne andiate. Non sareste dovute venire. Avreste dovuto lasciar perdere questa storia».

I saluti sono frettolosi e imbarazzati. Mentre torniamo in taxi in albergo, Sally e io rimaniamo in silenzio finché l’autista non si ferma davanti all’ingresso.

«Carol non sta affatto bene», dice Sally. Annuisco, sentendomi in colpa per avere forzato la mano a tutti ed essermi intromessa nel dolore di Deborah.

Così, quando Sally decide di fermarsi a bere qualcosa con Matthew al bar, non ho l’energia per dire nulla, e quando ritorna in camera a notte fonda non sono affatto sorpresa.

Quando entra, fingo di dormire, ma poi lei accende la luce.

«Devi vedere questo, Beth! Subito», dice porgendomi il telefono.

Con la vista annebbiata dal sonno metto faticosamente a fuoco la sua pagina Facebook, ma non riesco a leggere. Un messaggio. Sì, sembra un messaggio diretto alla sua pagina Facebook, ma lo schermo è troppo piccolo per i miei occhi stanchi.

«Non riesco a leggere».

Sal armeggia con lo zoom e mi mette di nuovo il telefono davanti agli occhi. È terrea in viso e la sua espressione è allarmata. L’immagine del profilo è una campanula.

È meglio che lasci perdere…

Fisso il display e mi metto una mano davanti alla bocca. Non è solo il messaggio. È l’immagine. Sollevo lo sguardo su Sally e le chiedo con gli occhi: “Chi diavolo può sapere delle campanule?”.