Capitolo 2

Beth – Adesso

Trascorrono sette primavere prima dell’arrivo delle lettere: due buste identiche color crema consegnate a due indirizzi diversi. Sally apre la sua nella tranquillità di un appartamento con tappeti e divani bianchi.

Io perdo la mia.

Il postino me la passa attraverso il finestrino dell’auto, nel vialetto davanti a casa, mentre stiamo partendo per le vacanze di fine trimestre. Prima di salire in macchina ci sono volute due ore per fare borse e valigie battibeccando con i ragazzi. Guardo Adam e mi chiedo se pensa quello che sto pensando io.

Prima che avessimo dei figli, amava sorprendermi. «Porta vestiti caldi, Beth», diceva ghignando. Oppure «vestiti da neve», e si rifiutava di dirmi dove stavamo andando finché non arrivavamo all’aeroporto.

E adesso? Guardo la pioggia picchiettare sul parabrezza e ringrazio il cielo che il resort Forests for Families abbia una piscina coperta. Poi prendo il foglio della prenotazione per impostare il navigatore satellitare.

«Oh, mio Dio, Adam… che giorno è oggi?»

«Il sedici».

Fisso il foglio davanti a me come se guardandolo intensamente potessi cambiarlo, ma non succede.

Torniamo a casa e scoppia subito il pandemonio.

«Ci siamo persi la vacanza! Mi stai dicendo sul serio che ci siamo persi la vacanza?». Adesso è Adam a fissare il foglio, pallido in viso, mentre i ragazzi si rotolano sul tappeto, piagnucolando in stereofonia e agitando le gambe in aria come mosconi colpiti dall’insetticida.

«Com’è possibile confondere le date di una vacanza? La settimana sbagliata!».

A dirlo è l’uomo che, da quando sono nati i ragazzi, non ha mai prenotato una vacanza né tantomeno mi ha fatto una sorpresa. Per un nanosecondo sono tentata di farglielo notare, ma poi all’ultimo momento mi trattengo. Sono già abbastanza nei guai.

Il tono della voce di Adam rispecchia l’espressione incredula della sua faccia. Non posso fargliene una colpa perché nemmeno io riesco a crederci. Persino l’impiegata dell’ufficio prenotazioni non ci crede.

«Avete davvero sbagliato… settimana?», dice.

Lo so, lo so. Infilo la cornetta sotto il mento mentre lei controlla al computer e faccio segno ai ragazzi e a Adam di fare silenzio, per favore, così potrò perorare con più efficacia la nostra causa.

Confesso che è colpa mia e che sono piuttosto disperata. Che quando ho prenotato devo avere confuso le date del fine trimestre. Che sono davvero dispiaciuta, ma che troveremo di sicuro un accordo, visto che siamo clienti abituali.

Cala un breve silenzio. Mi è già stato ricordato che durante le vacanze scolastiche i bungalow sono tutti prenotati. Ho cercato di offrire più soldi, ma lei ha gentilmente declinato. Allora ho chiesto in tono lamentoso come mai non avevano notato che la settimana precedente non ci eravamo presentati. Chi ha dormito nella mia lussuosa camera prepagata la scorsa settimana? L’argomento è sembrato valido. I mosconi hanno smesso di agitare le gambe per ascoltare.

Alla fine l’addetta alle prenotazioni mi ha offerto un bungalow con la porta del patio leggermente difettosa. «Tecnicamente è fuori servizio per essere rimodernato».

Le rispondo che ha salvato la mia vita e il mio matrimonio. Annoto il nuovo codice di prenotazione, riaggancio trionfalmente il telefono e sollevo due dita in segno di vittoria.

Dev’essere stato in quel momento che la lettera mi è caduta dietro il radiatore. Il che spiega perché resto all’oscuro dell’evento che cambierà così disperatamente e irrevocabilmente le vite di tutti noi finché non ricevo la telefonata di Sally.

«Cosa hai intenzione di fare, allora?»

«A che proposito?»

«Non è il momento di scherzare, Beth. È una cosa seria».

«Mi dispiace, Sal, ma non ti seguo. Non ho ancora finito di disfare le valigie…».

«La chiusura della scuola, Beth».

Sto mangiando un panino al tonno e maionese in cucina, circondata da una montagna di panni sporchi da lavare, e tra un boccone e l’altro parlo con Sally. Ho ammonticchiato il bucato a forma di Kilimangiaro per rievocare i giorni in cui non sapevo che le mie montagne sarebbero state fatte di biancheria da lavare e cumuli di terra. Non riesco a credere che in quattro giorni abbiamo indossato tutti quei vestiti. Alcuni non li riconosco nemmeno.

Distolgo gli occhi dal Kilimangiaro mentre un calzino giallo che non mi è familiare precipita dalla vetta e mi concentro su Sally. Non ho assolutamente idea di cosa stia parlando, ma in questi giorni è tutto molto strano. Il più delle volte nemmeno lei sa cosa sta dicendo.

«Non ti seguo. Quale scuola?». Penso alla scuola dei miei figli, ma poi mi rendo conto che non può essere quella. L’avrei di certo saputo prima di lei. Allungo una mano per accendere il bollitore.

C’è una lunga pausa di imbarazzante silenzio. Poi Sally comincia a parlare a raffica.

«La chiusura del convento. Non hai ricevuto la lettera? Cristo, Beth, devi rinunciare al tuo stupido orgoglio e tornare su Facebook. È una cosa seria. È ovunque. Anche su Twitter. Il convento è a corto di suore. Stanno vendendo il sito e l’edificio sarà demolito insieme alla scuola, al collegio e a tutto il resto. Ci sarà una festa d’addio. Cristo, ci sei anche tu sul sito web della scuola! Non riesco a credere che non hai ricevuto la lettera».

Soltanto a quel punto, quando il bollitore comincia a fischiare, mi torna in mente la busta color crema con il codice postale del Sussex che tenevo in mano mentre facevamo rientrare i ragazzi sotto la pioggia.

«Scusami. È stato tutto molto caotico, ultimamente. Devo averla persa».

Sally mi guarda con aria di disapprovazione. Da quando ha divorziato, la sua vita non potrebbe essere più diversa dalla mia. Speravo che incontrasse una persona carina, ma non è ancora successo, e così conduce una monotona esistenza in un appartamento troppo ordinato e silenzioso, e a parte la ragione, che ha perso molto tempo fa (lo dico con affetto), lei non perde mai niente.

Inghiotto l’ultimo boccone di panino al tonno e aggrotto involontariamente la fronte. Una strana sensazione mi stringe lo stomaco. Era da anni che non mi concedevo di pensare al convento di St Colman.

Sal fa una pausa e io vado a prendere il latte nel frigo. Quando torno, sta farfugliando qualcosa sulle suore. Quante di loro saranno ancora vive? Continua a parlare troppo in fretta, in un tono eccessivamente alto, e il mio stomaco è sempre più contratto.

«Oh, per l’amor di Dio, di’ qualcosa, Elizabeth!». Ha abbassato la voce, adesso, rinunciando alla falsa allegria.

Elizabeth? Non mi chiama mai così…

«Cosa diavolo facciamo, allora?». La voce di Sally è a malapena udibile.

All’improvviso mi sento attraversare da un brivido freddo, e poi arriva qualcosa di più forte e insidioso, come quando un anestetico cessa di fare effetto. Smetto di dividere le pile di bucato e resto immobile. Sono talmente abituata a non pensarci, che lo shock adesso è fisico. Mi formicolano le mani, il sangue mi pulsa nelle vene come se i miei nervi si stessero risvegliando.

«Quindi pensi che lei lo sappia?».

Non dice il suo nome.

Carol.

Il nome che non pronunciamo.

«Non lo so, Beth. Ma… è possibile. Cosa ne pensi? Non facciamo nulla? Lasciamo che se la sbrighi lei?».

Faccio una pausa, più lunga questa volta, per ascoltare il respiro di Sal e il mio cuore, che mi pulsa sempre più forte nell’orecchio mentre accosto il telefono.

Carol.

Chiudo gli occhi, come se questo mi isolasse acusticamente dai respiri e dai battiti, ma non funziona.

«Pensi davvero che lo sappia?»

«Non lo so. Non lo so. Ma con i social media… è possibile. Probabile. Quindi sei d’accordo? Non facciamo niente? Eh?».

Mi siedo.

Carol.

Tutti questi anni.

«Beth! Puoi dire qualcosa, per favore?».

Passano tre giorni prima che Sally e io riusciamo a incontrarci, tre giorni durante i quali mi muovo nella vita quotidiana come una sonnambula. Pilota automatico. Colazione. Caricare la lavastoviglie. Pranzo. Scaricare la lavastoviglie. Avanti. Indietro. Avanti. Indietro.

Ogni sera guardo il telegiornale e fisso Adam. Immagino riprese di scavatori, operai e fango puzzolente e poi un annunciatore che dice: “Un corpo è stato trovato…”.

«Va tutto bene, Beth? Sei bianca come un lenzuolo».

«Sto bene, Adam», mento. Quante bugie.

La notte non riesco a dormire e così quando alla fine Sally dice che è pronta a incontrarmi, sono esausta. Propone di vederci da Julio’s, sulla High Street, e so bene perché. È per il comfort e la rassicurazione di essere clienti abituali, per il rumore, il trambusto e il senso di normalità che sono così in contrasto con il disagio che stiamo provando.

Julio’s è il posto ideale, antiquato e impreziosito da candele che sgocciolano cera su fiaschi di Frascati e stampe sbiadite di città italiane incorniciate sulle pareti. Ci sono anche molte fotografie di Julio con la sua amata famiglia e i clienti preferiti. E alcune di star dimenticate che lo chiamano per fargli gli auguri di Natale e interpretano pantomime nel teatro locale al crepuscolo delle loro carriere. Al centro della parete c’è una foto di me e Sally con gli occhi arrossati dal flash e Julio che sorride accanto a una torta di compleanno rosa.

Nella fotografia Sally è sorridente e divertita, ma non lo è oggi quando arriva, in ritardo e impacciata; mi fa un cenno dalla porta ma si rifiuta di incrociare il mio sguardo, scuote nervosamente l’ombrello e si ferma a chiacchierare un po’ troppo a lungo al bancone prima di raggiungermi.

Mi faccio coraggio con troppo gin tonic mentre rileggo la lettera trovata tra le ragnatele dietro il radiatore. L’ordine di St Colman è rimasto senza soldi e senza suore. Originario del Belgio, l’ordine aveva assunto la gestione del convento e della scuola qualche decennio fa, ma a quanto pare c’è stata una crisi sia di vocazioni religiose sia di iscrizioni. Il risultato è che il collegio e la scuola secondaria chiuderanno per ridurre le perdite. Le lezioni continueranno soltanto per gli allievi della scuola primaria e l’intero sito sarà venduto per essere ristrutturato. Le allieve del convitto saranno trasferite in altre scuole, dove potranno portare a termine gli studi.

Il tono della lettera è triste, ma promette un’uscita di scena spettacolare. Non una rimpatriata, questa volta, ma un addio.

Sally stringe in mano una stampata del messaggio del sito web e si siede, mentre Julio le versa il vino, evitando per il momento di chiederci cosa vogliamo mangiare.

«Non mi sorprende che non riescano a trovare abbastanza suore», dice Sally sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Come si può vivere senza sesso?».

Mi viene in mente che in realtà è da quasi tre anni che nemmeno Sally fa sesso, ma mi trattengo dal dirlo.

«Quindi…». Sta ancora cercando di sembrare brillante, ma continua a giocherellare con i capelli. «Ho pensato molto, ultimamente». Si versa un bicchiere d’acqua, abbassa la voce e infila un’altra ciocca dietro l’orecchio. «Per come la vedo io, non è cambiato nulla. Abbiamo fatto una promessa, Beth. E questo non cambia le cose. Proprio non…».

La guardo in faccia. I suoi occhi sono stanchi come i miei. «Ascoltami, Sal. Capisco che per te sia particolarmente dura…».

«No, Beth. Per favore». Alza la voce e due clienti in fondo alla sala si voltano a guardarci. «Scusa, mi dispiace», dice abbassando di nuovo la voce e giocherellando con le posate. Poi sposta leggermente a sinistra il cestino del pane e dichiara: «Non ho intenzione di parlarne, Beth. Non ci riesco. Non è che non me ne importa. Questo lo sai, vero? Ma tu mi chiedi di parlarne e…».

Ma io muoio dalla voglia di parlarne. Vorrei dirle che ho paura che ci scoprano, che il mio amato marito mi abbandoni e che la mia famiglia imploda.

Restiamo sedute a lungo in silenzio. Sal stringe le labbra e chiude gli occhi mentre io mi chiedo cosa fare dopo. Penso al vaso di Pandora e alla lealtà. Penso a una promessa che vorrei non avere mai fatto…

Penso a una stanza piena di sangue. A una bambina con le labbra blu…

Ma, soprattutto, penso a Carol.

Le ultime tre notti non sono riuscita a chiudere occhio pensando a lei. Mi sono sforzata di immaginarla in una vita nuova e normale, con una casa, i figli, gli acquerelli.

Prendo lo spicchio di limone dal fondo del gin tonic, lo infilo in bocca e succhio forte. «Lo sai che non dirò niente. Non dopo tutti questi anni… A nessuno, Sal».

«Quindi lasciamo le cose come stanno?»

«Non possiamo. Non questa volta. È troppo rischioso… quando mi hai telefonato la prima volta, sapevi che…».

«Ero nel panico. Ma adesso ho avuto tempo di pensarci. Lei vorrebbe che lasciassimo perdere».

Non voglio essere io a dirlo, e così mi giro verso la porta della cucina. Immagino il convento che viene abbattuto. Bulldozer e fango puzzolente.

«È lei che deve dircelo, Sally. Mi dispiace, ma ho bisogno di sentirlo dalle sue labbra. Questa volta dobbiamo trovarla», dico, parlando in fretta e con gli occhi chiusi, come se questo lo rendesse in qualche modo meno pericoloso.

Quando alla fine li riapro, Sally fa esattamente quello che temevo. Fissa a lungo la tovaglia e poi solleva lo sguardo su di me con un’espressione che è al di là della tristezza e delle tenebre, uno sguardo disperato che avevo sperato di non vedere mai più sul suo viso.