Capitolo 30
Beth – Adesso
Una settimana più tardi i miei due figli sono affacciati alla finestra del soggiorno quando arriva il taxi di Deborah.
«Non fissatela così, ragazzi. Non è gentile».
«Ha delle sopracciglia molto strane», dice Sam, inarcando le sue.
«Forza, toglietevi dalla finestra! Così la fate sentire in imbarazzo».
«Non ho capito dove dormirà, mamma. Non abbiamo abbastanza camere».
«Silenzio! Sta arrivando». Mi schiarisco la gola e mi liscio la gonna, i muscoli dello stomaco mi si contraggono. Non riesco a credere che mia madre abbia convinto Deborah a venire da noi. «L’onestà è sempre la migliore politica», direbbe lei, terrorizzandomi. Mi chiedo cosa abbia raccontato a Deborah. Le ha detto che abbiamo ingaggiato Matthew? Della mia lite con Sally? Della mia depressione? Cristo!
Il campanello suona ma nessuno si muove. Suona di nuovo finché mia madre non spunta dalla cucina asciugandosi le mani sul grembiule con le fragole. «Apro io».
Faccio segno a Sam di togliere i piedi dal divano e seguire mia madre in corridoio. Adam viene a salutarla e si offre di portarle la valigia di sopra – una scusa per andarsene in fretta – mentre mia madre le fa strada in soggiorno e le presenta i ragazzi, che le fanno soltanto un cenno con il capo.
In cucina mia madre prepara tazze e piattini come se fosse ormai a casa sua. «Allora, com’è andato il viaggio?».
Per un istante Deborah mi guarda incuriosita dall’apparente scambio di ruoli e poi si lancia subito in un’animata discussione con mia madre sui treni e i taxi, l’imbarazzo delle mance e quanto era più facile e pratico viaggiare quando c’era soltanto una compagnia ferroviaria e al telefono rispondevano persone reali e non voci registrate. Mi siedo in cucina e le guardo finché mia madre non si alza per prendere un vassoio di biscotti.
«Hai fatto bene a venire, Deborah. Mi sentivo così male per averti turbata parlandoti di Carol». Scruto attentamente la sua espressione, ma nulla sembra suggerire che sia irritata o ce l’abbia con me. No, non può essere stata lei a postare quel messaggio su Facebook.
Deborah si sporge in avanti e posa una mano sulla mia. «Non ti nascondo che sono rimasta molto sorpresa quando tua madre mi ha invitata», dice. «All’inizio le ho risposto di no, ma la verità è…». Fa una pausa e mi sorride. «…be’, tua madre mi è sempre piaciuta e sembra non capire il significato della parola no».
«Non sei più arrabbiata con noi? Con me e Sally?».
Lei scuote la testa. «Vedervi è stato così inaspettato. Ero imbarazzata e irritata, lo ammetto. Ma ho capito che non è per colpa vostra che Carol si è allontanata da me».
«Dopo quella volta non l’hai più sentita?»
«No. Ned mi ha telefonato per dirmi che è preoccupato per lei. Che non mangia abbastanza. Sta cercando di convincerla a passare di qui, ma lei non è interessata. Mi ha chiesto di scriverle, ma non servirebbe a nulla. So già che non mi risponderebbe».
Deborah beve un sorso di tè picchiettando con le unghie sulla tazza. «Tua madre mi ha detto che non sei stata bene».
È per questo che ha accettato di venire. Sento le guance avvampare. «Adesso va un po’ meglio. Grazie».
«Bene, mi fa piacere saperlo».
Mia madre ritorna urlando ai ragazzi di non fare briciole sul tappeto e chiede a Deborah se vuole rinfrescarsi un po’.
«Ti faccio vedere la tua camera e poi decidiamo cosa fare durante il weekend».
Guardo le due madri salire le scale e mi accorgo della loro somiglianza fisica. Hanno entrambe i fianchi stretti e il sedere piatto. A St Colman si erano incontrate di rado – a qualche concerto, alle raccolte di fondi e ad altri eventi per i genitori – ma ricordo che si erano piaciute fin dal primo istante. Il mio egocentrismo adolescenziale mi faceva presumere che si fossero incontrate sul terreno comune dell’amicizia che legava me e Carol. Ma forse non era soltanto per noi.
Le due donne continuano a salire le scale conversando amabilmente e mi chiedo se anche mia madre abbia bisogno di questa visita. È più sola e annoiata di quanto avessi immaginato. Ricordo quando mi ha raccontato di come aveva lasciato papà, delle sue «difficoltà» nel matrimonio, e mi chiedo quante cose ancora non so di lei.
Verso un’altra tazza di tè e vado nello studio per offrirla a Adam. I raggi del sole filtrano dalla finestra, facendo danzare nell’aria le particelle di polvere. Adam è al computer e quando mi sente entrare si toglie gli occhiali.
«Hai un aspetto decisamente migliore, Beth. Mi fa piacere vedere che stai meglio».
«Non ti dispiace che ci sia Deborah? C’è già mia madre, non vorrei che per te fosse troppo».
«Certo che no. Più tardi verrò a presentarmi come si deve e farò un po’ di conversazione con lei».
Lo fisso negli occhi, constatando che è ancora preoccupato, e guardo la polvere vorticare nella corrente d’aria. Una ciocca di capelli gli pende sulla fronte, la scosto e gli do un bacio in cima alla testa. Lui mi guarda sorpreso e allunga un braccio per prendermi la mano e baciarla con un gesto che mi fa venire voglia di piangere. Non ho la lacrima facile – il solo ricordo di essere scoppiata a piangere dal dottore mi fa sprofondare dalla vergogna – ma mi sento in colpa per non essere stata sincera con Adam. Passo la mano sui fogli sul suo tavolo trattenendo le lacrime, come faccio più tardi, quando, seduto di fronte a me al tavolo in cucina, mi sorride teneramente mentre degustiamo le lasagne e confesso a Deborah che dopo avere permesso a mia madre di assumere il controllo della casa mi sto crogiolando nella pigrizia. «Dovrei vergognarmene», dico, «ma è meravigliosa. I ragazzi non hanno mai mangiato così bene».
Accompagniamo le lasagne con una bottiglia di vino, e quando è finita, faccio un cenno a Adam per dirgli di non aprirne un’altra, sperando di essermi sbagliata sull’alcolismo di Deborah. Forse nella mia testa ho esagerato l’immagine di lei che si versava di nascosto da bere, alimentata dalla paranoia che mi aveva assalita quando Sally si era attaccata alla bottiglia dopo aver perso il bambino. Forse Deborah non ha alcun problema con l’alcol, ma ciò non toglie che sono nervosa. E se si ubriacasse pesantemente mentre è a casa nostra? Come lo spiegherei ai ragazzi?
E ho ragione a preoccuparmi, anche se la fonte dell’imbarazzo che sta per investirci non sarà quella che credo io.
La prima notte restiamo alzati fino a tardi. Deborah sorprende i ragazzi rivelandosi un’esperta giocatrice di Cluedo. La mattina seguente Adam e io ci svegliamo dopo le nove. Rimpiango di non avere più tempo da sola con Deborah per parlare di Carol, ma mi fa piacere che si senta a suo agio a casa nostra e si stia divertendo. Sta andando molto meglio di quanto mi aspettassi.
I ragazzi sono già partiti con il minibus della scuola per trascorrere il sabato pomeriggio sul campo di calcio. L’iscrizione al football club è piuttosto cara, ma loro ne sono entusiasti e so che con la supervisione della scuola sono al sicuro. Il servizio del minibus è un bonus che sfruttiamo quando siamo impegnati. In cucina mia madre e Deborah stanno pulendo padelle.
«Avete cucinato la colazione per i ragazzi?»
«Non possono giocare a calcio con soltanto cereali nello stomaco», dice mia madre versandomi il caffè. «Mia figlia è la polizia alimentare, Deborah. Goditi il tuo panino alla pancetta e ignorala».
Arrossisco guardandole versarsi una montagna di salsa nel piatto e infilo una fetta di pane integrale nel tostapane.
Poi frugo in un cassetto per cercare la tessera del National Trust e propongo una visita a Buckland Abbey, dove viveva Sir Francis Drake. Le due donne accolgono con entusiasmo la proposta, ma poi, quando suggerisco di cenare fuori, cala un imbarazzato silenzio.
«Oh, perché spendere tutti quei soldi?», chiede mia madre scambiando uno sguardo d’intesa con Deborah.
«Be’, possiamo mangiare a casa e poi uscire a bere qualcosa o andare al cinema».
Un’altra pausa di silenzio e poi mia madre dice: «Il fatto è che Deborah e io volevamo trascorrere una serata insieme. Soltanto noi due».
«Oh, capisco». Do loro le spalle mentre spalmo il burro sul toast per nascondere la mia sorpresa. «Cosa avete in mente, allora?»
«Deborah ha proposto di portarmi al bingo. Non ci ho mai giocato veramente. Ormai è quasi tutto online, ma non ci fidiamo a usare le carte di credito su Internet. E a quanto pare, il club al quale è iscritta ha una sede anche qui».
«Bingo?», chiedo in tono incredulo e poi cerco subito di correggermi per non offendere Deborah. «Ottima idea. Perché no? Sono sicura che ti piacerà, mamma. Vi daremo un passaggio».
«Grazie, tesoro», dice lei, tutta raggiante, e spinge verso di me il barattolo della marmellata come una mossa vincente in una partita di scacchi.
E così, dopo un tè con i pasticcini, vanno al bingo. Adam lo trova divertente finché, a mezzanotte meno un quarto, non mi metto a camminare su e giù per il soggiorno come una madre ansiosa che aspetta la figlia adolescente.
«Spero che non abbiano avuto un incidente».
«Oh, per l’amor di Dio, Beth. Sono adulte responsabili e in buona salute. Saranno andate a bere da qualche parte».
«Mia madre non beve e poi non hanno il telefono. Potrebbe essergli successo qualcosa».
Adam riesce a distrarmi con un film, ma a mezzanotte passata lo vedo sbirciare anche lui dalle tende mentre torno dalla cucina con il caffè.
«Pensi che dovremmo telefonare alla sala bingo?», chiedo. «Devono avere chiuso da ore. Non avremmo dovuto lasciare che prendessero un taxi per tornare a casa».
In quel momento sentiamo il rombo di un motore diesel e quando ci affacciamo alla finestra vediamo un grande taxi nero fermarsi davanti a casa.
«Hai visto?», dice Adam, cercando di nascondere il sollievo e prendendo un giornale per fare finta di leggere. Ho dato a mia madre una chiave per evitare che svegli i ragazzi suonando il campanello. Ma, stranamente, lei non entra. Dopo qualche minuto sento battere piano alla porta e mi precipito ad aprire.
«Credo che abbiamo bisogno di aiuto», dice Deborah con un’espressione allarmata, facendo un cenno a Adam, che è spuntato alle mie spalle.
«Cos’è successo? La mamma non sta bene? Si è fatta male?»
«Non proprio…».
E poi vediamo il tassista sorreggerla, aiutandola a scendere dall’auto, e la verità ci appare in tutto il suo orrore. Mia madre è ubriaca. Non un po’ brilla, ma talmente sbronza che non riesce nemmeno a reggersi in piedi.
«Ciaoooo, Beth! Tesoroooo mioooo!», cinguetta facendo roteare la borsa e sbattendosela in testa. «Era un uccello? Beth, credo che un uccello stia cercando di attaccarmi…», dice fissando il cielo con aria confusa.
Adam si precipita a ringraziare il tassista, che sta reggendo a fatica mia madre. Poi l’aiutiamo tutti e due a entrare in casa, raccomandandole invano di abbassare la voce. Quando arriviamo alla porta, i ragazzi ci stanno spiando dalla finestra della loro camera. E appena entriamo, si affacciano in cima alle scale.
«La nonna è ubriaca?», chiede Sam in tono ammirato.
«Tornate subito a letto. Si è solo sentita poco bene».
«Non è vero. È ubriaca. Harry, vieni a vedere la nonna sbronza! Dobbiamo metterla su Facebook».
«Facebook?», chiedo. «Voi non siete su Facebook. Siete troppo piccoli».
«Oops!», esclama Sam facendo una smorfia.
«Hai sentito, Adam?», domando voltandomi verso di lui. «Pensavo che per essere su Facebook si dovessero avere almeno tredici anni», dico. «Il tuo telefono è confiscato, Sam. Lascialo subito in camera mia. Ne riparliamo domani mattina».
Mettere a letto mia madre in quello stato non è facile. Senza l’aiuto di Adam non riesco a spogliarla e immagino quanto lei sarebbe mortificata se sapesse che lui l’ha vista in mutande Marks & Spencer. Alla fine mi limito a slacciarle la gonna e sbottonarle la camicia mentre lei canta a squarciagola «Green, Green Grass of Home». Poi poso un catino di plastica accanto al letto (nel caso il suo stomaco protestasse), un bicchiere d’acqua e un’aspirina sul comodino e la lascio dormire.
Adam, con grande tatto, va subito a letto e riporta in camera i ragazzi, lasciandomi sola con Deborah.
«Mi dispiace tanto, Beth. Chissà cosa penserai di me… Non avrei dovuto lasciarla bere così tanto».
«Non preoccuparti, Deborah. Adesso dorme e domani non si ricorderà più di nulla. Sono un po’ sconvolta. Non avevo mai visto mia madre ubriaca».
«Non mi ero resa conto che avevamo bevuto tanto. Sembrava perfettamente normale. Dopo il bingo siamo andate in un bar molto carino, e poi ha cominciato a girarle la testa».
Deborah è mortificata, ma io ripenso a mia madre che si colpisce alla testa con la borsetta e sorrido.
«Va tutto bene», le dico. «Adesso è al sicuro, e quando le sarà passata la sbronza sono certa che anche lei ne sarà divertita. Non credo sia abituata all’alcol».
Deborah tira fuori dalla borsa uno specchietto per aggiustarsi il trucco. Il bollitore sta fischiando e lei annuisce con gratitudine quando le propongo una tazza di caffè. Rimette lo specchio nella borsa e mi segue in cucina. «Adesso possiamo parlare liberamente?», mi chiede alzando la voce.
«Di cosa?»
«Di Carol, Beth. Pensavo volessi parlare di lei. È per questo che sono venuta».
Sistemo tazze e cucchiai, aprendo e chiudendo gli armadietti e chiedendomi all’improvviso cosa fare. «Naturalmente», continua lei, «non voglio che Carol capisca quanto sono preoccupata. Non mangia abbastanza e Ned è molto in pensiero. È una fortuna che sia così paziente», dice aggiungendo altri due cucchiaini di zucchero al caffè. «A volte mi chiedo se non sia cominciato tutto con quella stupida tavola Ouija a scuola. Ti ricordi? Quando avete rischiato di essere espulse».
«Scusa?»
«È stato quello l’inizio dei vostri problemi, Beth. Dopo quell’esperienza lei si è messa in testa che suo padre stava cercando di comunicare con lei».
«Suo padre? Perché mai avrebbe dovuto pensare una cosa simile? La tavola Ouija era soltanto uno stupido scherzo, Deborah. E lei non ci ha mai detto nulla…».
«Il suo soprannome era “Principessa”. Immagino che non vi abbia parlato nemmeno di questo? Mi ha raccontato che era stata la tavola a scriverlo…».
«Oh, no. Non ci parlava mai di queste cose».
Ricordo la faccia di Carol mentre Melody leggeva le lettere: P-R-I-N-C-I-P-E-S-S-A. Ma era soltanto uno scherzo, una stupida coincidenza. Melody era fissata con la principessa Grace.
«Ti giuro che non sapevamo del suo soprannome, Deborah. Era l’altra ragazza, Melody, che la chiamava così. Quella che è stata espulsa. All’epoca avevamo cercato di spiegare a Carol che era soltanto uno scherzo. Non immaginavamo che…».
«Sì…be’, naturalmente, quando suo padre morì, lei la prese molto male. Aveva il cuore spezzato. Fu un periodo orribile. La poveretta aveva soltanto sei anni. Continuò per mesi ad apparecchiare il suo posto a tavola».
«Davvero?»
«Sì. Era come se fosse convinta che lui sarebbe ritornato. Aveva visto uno stupido programma alla tivù e si era messa a parlare di medium. Io avevo cercato di farle capire che erano tutte assurdità. Un giorno le strappai di mano la tovaglietta e le posate. Non riuscivo a sopportare di vederla in quello stato. Pensavo fosse ora che accettasse la morte del padre», dice Deborah fissando il pavimento. «Diventò completamente isterica, Beth. Si mise a urlare che quello era il posto di suo padre e mi piantò il coltello nella mano. Mi dovettero dare tre punti».
Chiudo gli occhi.
«Oggi ci sono molte terapie per queste cose, ma allora dovevi cavartela da sola, e sono sicura di avere fatto più danni che altro. Ma quando riuscimmo a rimediare quei soldi, speravo che il convitto l’avrebbe aiutata. Avrebbe potuto incontrare altre ragazze della sua età, non si sarebbe più sentita sola. Ma dopo quella stupida tavola Ouija, ha cominciato a essere ossessionata dallo spiritualismo, dai medium e da tutte quelle stronzate. Pensavo che le sarebbe passata. Ma poi è stato come se ci fosse qualcos’altro…». Deborah mi fissa mentre apro di nuovo gli occhi. «È per questo che sono venuta, Beth. Ci ho pensato molto e spero che tu potrai aiutarmi a fare un po’ di luce».
Resta in attesa per qualche istante e quando io non rispondo comincia a togliersi pelucchi immaginari dalla gonna mentre la fisso, come ipnotizzata. Sulla sua gonna non c’è nulla, né peli né pelucchi, ma lei continua a spiluccarla e io allungo ancora una volta il braccio per bloccarle la mano. Fisso le sue dita e resto sorpresa da quanto mi sembrano familiari. Una questione di geni, immagino. La mano di Carol era identica. Dita lunghe e affusolate con unghie ovali. Ricordo quell’orribile giorno in cui ce lo disse.
Sally, Carol e io eravamo sdraiate sull’erba nel giardino del convento. In lontananza, una suora stava tosando l’erba. Ricordo come la ruota posteriore della falciatrice si sollevava leggermente, girando a vuoto per qualche secondo, finché quella davanti non faceva presa, mentre io cercavo di sentire quello che mi stava dicendo Carol.
«Non puoi essere incinta, Carol. Non essere sciocca! Non hai nemmeno un vero e proprio fidanzato. Com’è possibile che tu sia incinta?».
Non sapevo cosa dire e guardai la bocca di Sally articolare le parole. Fu uno shock a più strati: ero sconvolta non solo da quello che Carol ci stava dicendo, ma anche dal suo tradimento per averci tenute all’oscuro di una cosa così seria. Dopo la sera della tavola Ouija Carol non era più stata la stessa, era schiva e distaccata. Fino a quel momento avevo creduto che noi tre avremmo condiviso tutto, ogni cosa importante che ci sarebbe successa nella vita. E adesso, all’improvviso, scoprivo che Carol non l’aveva fatto.
Avevamo quattordici anni, eravamo ancora delle bambine. Come diavolo aveva potuto rimanere incinta?
«Chi è stato, Carol? Chi? E perché non ce l’hai detto? Non lo capisco». Sal era diventata bianca come un cencio, la sua voce sovrastava il motore diesel del tosaerba, che sputacchiava avanzando a scatti nel campo da hockey.
Carol continuava a strappare fili d’erba, il suo tono, a differenza di quello di Sal, era fermo e freddo. Dal suo viso non traspariva alcuna emozione. Nessuna lacrima, nessun singhiozzo. Allungai una mano per stringere la sua, per calmarla e farle sollevare lo sguardo verso di me.
«Non ha importanza», rispose. «È un ragazzo, un vicino. È successo durante le vacanze. Un esperimento. Un errore. Ci siamo lasciati andare… Non avevo intenzione di… Il fatto è… Non mi piace chiedere, ma ho bisogno del tuo aiuto». E soltanto a quel punto sollevò lo sguardo. Non su Sal, che le aveva fatto la domanda, ma su di me.
«Sarà un errore, un falso allarme. Forse è soltanto un piccolo ritardo». Sally parlava sempre più in fretta mentre Carol ritraeva la mano dalla mia e si strofinava i palmi per staccare i fili d’erba che le erano rimasti attaccati alle dita.
«Ho fatto un test», disse Carol. «Tre, a dire il vero. Non è un errore. Devo liberarmene prima che sia troppo tardi, non credete? Riuscirò a farlo senza che qualcuno lo dica a mia madre?».
Fu la fermezza della sua voce a colpirmi di più.
«Vuoi liberartene? Oh, mio Dio!». Sally era sconvolta, la sua fede cattolica aborriva l’aborto. «Non puoi farlo, Carol! Sono sicura che non stai dicendo sul serio…».
Per un istante Carol sembrò esitare e si morse il labbro, ma poi vinse subito quel momento di incertezza e mi fissò di nuovo negli occhi.
«Tua madre non te lo lascerà mai fare», disse Sally. «È un peccato. Un peccato mortale. E anche se poi lo confessassimo… No, non possiamo farlo».
«Non dire idiozie», rispose Carol. «Non lo dirò certo a mia madre. E nessuna di noi lo confesserà. Non dobbiamo dirlo a nessuno. E poi, non è un peccato».
Un brivido mi corse lungo la schiena mentre cominciavo a rendermi conto dell’enormità di quello che Carol ci stava chiedendo.
«Tu cosa ne pensi, Beth? Non hai niente da dirmi? Mi sono chiesta spesso se fossero state le droghe a cambiare Carol». Deborah si schiarisce la gola. «Tu hai letto molte cose sulle droghe e forse puoi capire se è questo il suo problema. Anche se sono sicura che Ned me ne avrebbe parlato. Non sarei poi così scioccata se mi dicessi che da giovani le avete provate. È stato questo a cambiarla? Ai tempi della scuola, intendo. È per questo che se n’è andata all’improvviso e ha smesso di mangiare come si deve?».
Sento il caffè colarmi sui pantaloni, raddrizzo prontamente la tazza e mi alzo. Deborah si liscia ancora una volta la gonna, tirandola sulle ginocchia, mentre io tampono i pantaloni con un fazzolettino.
«No, mi dispiace, Deborah. Si è fatto molto tardi. Scusami… Che stupida, mi sono versata addosso il caffè. Comunque ti assicuro che a scuola non circolavano droghe. Non tra di noi, almeno».
«Bene. Meglio così». Si alza di scatto e la sua ombra si allunga sul pavimento. Nella luce crudele della lampada il viso sembra vecchio e l’ombra giovane. Provo un dolore sordo dentro di me rendendomi conto di quanto le voglio bene.
E mi odio più che mai per averle mentito in tutti questi anni.