Capitolo 38

Beth – Prima

Il secondo anno Carol si era ristabilita fisicamente. Aveva avuto spasmi e momenti difficili e c’era stato anche un attacco di febbre, ma eravamo troppo spaventate per chiamare un dottore e avevamo rispettato il nostro patto del silenzio, facendo finta che non fosse successo nulla.

La vita e gli esami ripresero il loro corso e notammo che suor Veronica era particolarmente gentile con noi. Era come se avesse colto un cambiamento nell’aria, c’era in lei una consapevolezza che ci spaventava e al tempo stesso ci rassicurava.

Avevamo piantato dei bulbi di campanule nel nostro posto speciale nel bosco: una scusa per andarci e una copertura per impedire che qualcuno rimescolasse la terra. A volte, quando facevamo una passeggiata fin là, vedevo suor Veronica seguirci con lo sguardo e una parte di me sperava quasi che ci raggiungesse e ci facesse domande. Coltivavo ancora la fantasia che una di noi spiattellasse tutto e la verità venisse a galla. L’aiuto degli adulti, le braccia sulle spalle. Per un po’ non volevo altro che liberarmi del senso di colpa, proprio come avevo sperato fin dall’inizio che mia madre ci scoprisse.

Ma nessuno ci scoprì. Le campanule fiorirono e proliferarono. Le stagioni andavano e venivano. La vita continuava.

Alla fine del terzo anno Carol ci annunciò che avrebbe lasciato la scuola per iscriversi a un collegio d’arte. Cercò di farci digerire la notizia dicendo che sarebbe stato più liberatorio e divertente e che avremmo comunque potuto trascorrere i fine settimana insieme. Ma dal tono della sua voce intuimmo che non sarebbe mai successo.

Ci comunicò il suo trasferimento davanti a del cibo cinese take-away che una sera, a metà settimana, ci eravamo portate in camera, contravvenendo a tutte le regole della scuola. A ripensarci oggi è ridicolo, ma all’epoca ci eravamo sentite delle autentiche ribelli.

Un sabato mattina avevamo persino fatto una ricognizione, sincronizzando i nostri orologi e cronometrando quanti minuti ci volevano per andare a passo spedito (ma non troppo, per non attirare l’attenzione) dal convento di St Colman al ristorante cinese. Dodici minuti. E lampioni lungo tutto il tragitto. Bene.

Sapevamo di non poter ordinare al telefono, ma la donna al banco ci aveva assicurato che a metà settimana le ordinazioni erano pronte in quindici minuti al massimo. Faceva quindi un totale di trentanove minuti. C’era una strada più corta, passando per lo stretto vicolo dietro al cinema, ma era frequentata spesso da bevitori, anche di giorno, e così decidemmo che al buio non sarebbe stata sicura per delle ragazzine di sedici anni.

Uno dei privilegi del terzo anno era che adesso condividevamo una grande stanza al terzo piano, soltanto noi tre. Le stanze erano in realtà concepite per quattro ma, memore forse dei problemi che avevamo avuto con Melody, suor Veronica aveva fatto rimuovere un letto e avevamo più spazio. Le luci si spegnevano alle nove e mezza, ma le “pattuglie” delle sorveglianti si avventuravano di rado al terzo piano, visto che ormai ci consideravano affidabili.

Avremmo scelto un giovedì, quando era di turno suor Veronica, la suora più indulgente, e appena le luci si fossero spente, dopo che aveva controllato la nostra stanza, saremmo uscite di soppiatto, scendendo dalla scala posteriore, per dirigerci al ristorante cinese. Una di noi sarebbe rimasta in camera e avrebbe infilato dei cuscini sotto le coperte per far credere che stavamo dormendo.

In base ai nostri calcoli, il cibo sarebbe stato pronto alle dieci e avremmo festeggiato trionfalmente la fine degli esami del terzo anno. Avevamo comprato una bottiglia di vino rosso e avremmo ordinato ravioli di maiale e di gamberi, riso alla cantonese, pollo in salsa di fagioli neri e nuvole di gamberi. Non eravamo mai state così eccitate.

Tirammo i dadi per decidere chi sarebbe rimasta. Io feci soltanto due e così trascorsi i successivi, cruciali quarantacinque minuti (ci volle più del previsto, naturalmente), chiedendomi che scusa mi sarei inventata se ci avessero scoperte.

Ero talmente soddisfatta della complicata storia che mi ero inventata, che rimasi quasi delusa quando Carol e Sal ritornarono, ansimanti e con un sacchetto di plastica bianca fumante di cibo, senza che nessuno le avesse scoperte.

Chiudemmo la porta della camera e distribuii i piatti e le posate che avevo sottratto in mensa, cercando di non farle tintinnare. Il cibo – soprattutto i ravioli – aveva un colore allarmante e il vino un sapore inaspettatamente acido. Ma non importava, stavamo festeggiando. Eravamo grandi. Avevamo finito la scuola dell’obbligo.

Avevamo però trascurato un particolare: l’odore.

Dopo meno di una decina di minuti apparve suor Veronica, che aveva seguito il suo naso. Per un istante restammo come paralizzate, chiedendoci cosa sarebbe successo e rimpiangendo il vino che avrebbe di certo confiscato, ma suor Veronica ci sorprese tutte scoppiando a ridere.

«Cinese?», disse prendendo una nuvola di gamberi. «L’anno scorso avevano preferito l’indiano». Addentò la nuvola e poi la sua espressione si fece più seria. «Spero soltanto che nessuna di voi sia uscita da sola».

«Ci siamo andate in due. E c’erano i lampioni lungo tutta la strada».

Suor Veronica annuì e sorrise. «D’accordo. Poi ripulite tutto e domani mattina riportate in mensa piatti e posate».

«Sì, sorella».

Suor Veronica si avviò verso la porta e prima di uscire ci sorrise di nuovo. «Spero davvero che il sapore sia meglio dell’odore».

Appena chiuse la porta ci fissammo stupite.

«Non riesco a crederci», disse Sally servendosi altro pollo. «Forse, sapendo che l’anno prossimo avremo molta più libertà, non ha voluto infierire».

«Sì, ma abbiamo comunque violato il coprifuoco», osservai io. Il pollo aveva un sapore strano e così presi un’altra manciata di nuvole di gamberi, chiedendomi se intingerli nella salsa arancione che accompagnava i ravioli.

Carol rimase in silenzio, giocherellando con il cibo.

«Va tutto bene, Carol?», le chiesi versandole un altro bicchiere di vino.

«Non voglio rovinarvi la serata. Avevo deciso di aspettare il weekend per dirvelo…».

«Dirci cosa?», chiedo con la bocca piena.

«L’anno prossimo cambio scuola».

La combinazione di spezie esotiche, alcol e sbigottimento mi fece andare il cibo di traverso e Sally dovette darmi una pacca sulla schiena mentre mi versavo un altro bicchiere di vino per riprendermi.

Sally sembrava altrettanto sorpresa. Non c’era stato nessun segno premonitore, nessuna allusione al fatto che avrebbe cambiato scuola. E mancava soltanto una settimana all’inizio delle vacanze estive.

«Cosa intendi dire?». Sally si voltò verso Carol, che distolse lo sguardo continuando a giocherellare con il cibo nel piatto.

«È per i soldi, Carol?», chiesi ricordando la vincita alla lotteria. Era per quello? I fondi si erano esauriti?

«No, no… o almeno, non proprio. La mamma dice che può permetterselo, ma… Non voglio ferirvi. E non voglio che fraintendiate. Sapete quanto vi voglio bene. È solo che… Dopo tutto quello che è successo qui, voglio cambiare aria».

«Ma noi siamo sempre state così bene. Insieme», la implorai, sforzandomi di non sprofondare nel panico. Chiusi gli occhi per non vederle. Le candele. Le campanule. L’odore della cera…

Carol giocherellò con la forchetta sul piatto. «Il fatto è che sto pensando a una scuola d’arte, o a un corso di design, forse. Qui queste cose non le prendono molto sul serio. Ci sono un paio di ottime scuole vicino a casa, con strutture migliori, e penso che alla mamma farebbe molto piacere. Lei è tutta sola, non dimenticatelo».

Non riuscii a trovare nulla da dirle.

«Hai già informato la scuola?», chiese Sally posando il piatto sul tappeto.

«Sì».

«Allora suor Veronica lo sa?»

«Mi dispiace. Volevo dirlo prima a voi, ma sapevo che ci sareste rimaste male. E con gli esami e tutto il resto non volevo turbarvi». Carol ci rivolse un sorriso forzato. Nessuna di noi ebbe il coraggio di dire a cosa stava pensando davvero. «La cosa buona è che potrete venire da me nei weekend. Potremo uscire insieme e andare a divertirci».

«Sì», risposi senza sollevare gli occhi dal cibo che si stava raffreddando nel piatto, assumendo un rivoltante color arancione.

Buttammo gli avanzi nell’immondizia.

Capimmo subito che quei weekend insieme non ci sarebbero mai stati. Carol non restò dalla madre, ma appena compiuti i diciotto anni partì per un programma di scambio in Francia e poi lavorò come cameriera in una stazione sciistica in Austria. Diventò una vagabonda. Quando tornava a Brighton la vedevamo di rado, e soltanto se eravamo noi a cercarla.

E fu così che chiudemmo il coperchio del vaso di Pandora e fingemmo che non fosse mai successo. Non ne parlammo mai più. Le candele. La promessa. Le campanule…

E nonostante mi preoccupassi per Carol e sentissi la sua mancanza, adesso so che devo dire a Adam tutta la verità. E cioè, che non riuscirò mai a perdonarmi il sollievo che provai quando Carol si allontanò da noi.