Capitolo 14
Beth – Prima
Fu a Parigi che ci rendemmo conto per la prima volta dei disturbi alimentari di Carol. Avevamo quasi trent’anni e io ero da poco incinta di Sam. Il viaggio era una vacanza che ci eravamo concesse insieme per rievocare i vecchi tempi.
A scuola Carol era sempre stata naturalmente magra, ma le piaceva mangiare. «Ho un metabolismo fortunato», diceva ingozzandosi di torte e cioccolato.
All’inizio, in Francia, non ci eravamo accorte di nulla. Era stato Ned a dirci che era preoccupato, facendoci notare i vestiti larghi e il corpo scheletrico.
«Soltanto un caffè per me, ragazze. Sono piena. Ho mangiato tutta la frutta e i biscotti nella mia stanza…».
Ancora una volta eravamo state cieche.
I primi giorni a Parigi ci eravamo divertite, ridevamo e scherzavamo come se tutto il male del passato appartenesse a un’altra vita. Eravamo state fortunate anche con il tempo e, nonostante la stagione autunnale, non c’era stato un solo giorno di pioggia. Rivedo la foto di Carol che mi sorrideva dalla scalinata del Sacré-Cœur con i capelli dorati che scintillavano al sole sulla tela azzurra del cielo. Soltanto dai nostri cappotti si capiva che era ottobre.
«Non è possibile che devi andare di nuovo in bagno, Beth!». Era una decina di scalini sopra di me, con il vento che le scompigliava i capelli, e stava attirando gli sguardi ammirati di tutti i passanti. Ricordo che uno di loro la fissò così a lungo da inciampare nei gradini, lasciando cadere la sua ventiquattrore che scivolò come una slitta lungo la scalinata. Fu in quel momento che scattai la foto, mentre Carol rideva.
Ricordo anche che la gravidanza appena iniziata mi dava un senso di sollievo, come se fosse l’inizio di una nuova era. Il viaggio era stato un’idea di Ned. Pensava che Carol si sentisse troppo isolata nel Sud della Francia e avesse bisogno di rivedere le sue amiche e la sua famiglia. Lui e Carol si erano fatti carico di tutte le spese. Sally e io avevamo protestato, insistendo per pagare la nostra parte, ma Carol aveva risposto che sarebbe andato tutto sul conto dell’azienda. Ned aveva appena concluso un grosso affare e lei aveva prenotato le camere di un lussuoso albergo in uno dei quartieri più chic.
Quando finalmente finimmo il giro delle attrazioni turistiche (con i piedi dolenti e la mia vescica in fiamme), Carol prenotò delle sedute nella spa dell’albergo, manicure e pedicure. Per le unghie dei piedi aveva scelto uno smalto scarlatto che si intonava con l’ematoma sulla coscia che si era procurata dopo una caduta sugli sci la settimana precedente. Sal e io ascoltammo rapite le sue storie sul party con lo chef privato nello chalet di Ned e sulle persone altolocate che frequentava.
Non eravamo affatto gelose, ma contente per lei e… rincuorate. Era proprio ciò di cui aveva bisogno…
Ricordo la luce nei suoi occhi quando parlava di Ned, dei viaggi e delle vacanze che avevano fatto insieme, e di come era fiera di lui e degli affari che stava concludendo in tutto il mondo. Felice della mia gravidanza, immaginai che il futuro che avevamo davanti avrebbe cancellato il passato. Che magari anche lei e Ned avrebbero avuto un figlio e smesso di girare come globetrotter. E che sarebbero tornati in Inghilterra, così i bambini avrebbero giocato insieme. Battesimi. Feste di compleanno. Cacce al tesoro in giardino.
Finché alla fine non dovetti ammettere che ero esausta e salii in camera. E quando mi sdraiai a letto, tirando le tende e aprendo la finestra per sentire il via vai giù in strada, appena chiusi gli occhi mi ritrovai in un luogo che non sarei mai riuscita a scacciare dalla mente: la scuola. E ripensai a quello che avevamo fatto. Non piangere, Beth. Non piangere.
Quella prima sera cenammo in un ristorante in una stradina dietro l’albergo, un locale senza pretese con solo otto tavoli e sedie di legno, senza né tovaglie né menu. Soltanto una lavagna con il piatto del giorno e il profumo più delizioso che avessi mai sentito uscire da una cucina.
All’inizio Carol aveva fatto storie per il fumo delle sigarette – «nelle tue condizioni non va bene» – ma a me non importava più di tanto. Quello che contava era trovare un momento per riuscire a parlarci davvero. Cosa che non riuscimmo a fare.
Rimasi invece a fissare la candela al centro del tavolo, chiedendomi come fosse possibile che Carol e Sally l’avessero rimosso. E soffiandomi il naso nel tovagliolo di Sally, mi domandai se fossi impazzita soltanto io o se nel corso degli anni avessimo un po’ perso la ragione tutte e tre.
Dopo cena passeggiammo lungo la Senna e ci facemmo fare il ritratto al carboncino. Davanti ai migliori artisti c’era una lunga coda, ma il nostro – un giovane alto e ossuto con un liso cappotto grigio – si rivelò all’altezza del compito. E mentre eravamo sedute su una panchina e lui ci ritraeva, seguii un mimo che si esibiva più avanti sul marciapiede.
Aveva il viso coperto di cerone bianco e indossava un grande lenzuolo dello stesso colore che gli conferiva l’aspetto di una statua di marmo. L’insieme era assai bizzarro, con gli occhi che sembravano gialli e le vene del collo che pulsavano mentre, immobile, fissava la piccola folla davanti a lui. Immaginai che a un certo punto si sarebbe mosso per sorprendere il pubblico e trattenni il fiato aspettando quel momento. Lui attese finché non ci furono abbastanza persone e poi cambiò di scatto posizione. Due bambini in prima fila cacciarono un urlo e io sobbalzai per poi scoppiare a ridere. Un bambino che reggeva un palloncino rosso, nel panico se lo lasciò sfuggire di mano e si mise a piangere. Seguimmo con gli occhi il palloncino che saliva nel cielo finché non scomparve tra le nuvole.
E poi, all’improvviso, il nostro ritratto era finito. Non proprio perfetto – il naso di Sal era troppo lungo e i miei occhi erano strani – ma nel complesso c’era una buona somiglianza e Carol promise che avrebbe fatto delle copie e ce le avrebbe spedite, così tutte noi ne avremmo potuta avere una incorniciata. Ritornammo in albergo tenendoci per mano, sembravamo perfettamente felici e rilassate.
La mattina seguente rimasi immersa per una buona mezz’ora in un’enorme vasca da bagno, sorpresa da come mi stavo abituando facilmente a quel lusso a cinque stelle. Avevamo deciso di scendere presto a colazione, e quando Sally e io ci sedemmo davanti a lei, Carol aveva già finito di mangiare. Sul tavolo c’era una coppa con i resti della frutta e un vasetto di yogurt vuoto.
«Dormito bene?», ci chiese senza alzare lo sguardo.
Sally e io decantammo il lusso delle nostre camere e i deliziosi cioccolatini sul cuscino, rievocando i tempi in cui condividevamo stanze da tre letti in miseri alberghi.
«Ricordate l’albergo in Austria dove avevamo dovuto dormire testa contro piedi? Uno dei letti aveva come base delle cassette di mele!». Avevo dormito bene, mi sentivo meglio, più rilassata, e pregustavo già il piacere della giornata insieme, ma quando il cameriere arrivò con il caffè, Carol sprofondò nel silenzio.
Poi, appena il cameriere se ne fu andato, si schiarì la gola e disse: «Spero non ve la prenderete con me, ma Ned è qui. È arrivato ieri notte con dei documenti che devo firmare per una grossa transazione che sta portando a termine. Sono la direttrice di una delle sue aziende e non posso sottrarmi. Hanno bisogno della mia firma. In questi casi non basta un fax. Ned mi ha facilitato le cose e ha già sbrigato tutte le questioni legali. Questa mattina andrà a Lione e, naturalmente, vuole che io resti con voi…».
In quello stesso istante Ned fece il suo ingresso nella sala, con un sorriso e le mani alzate in segno di resa. Era davvero un bell’uomo, con un fisico atletico e vestiti costosi. Mi ero dimenticata di quanto fosse affascinante.
«Salve, ragazze. Mi dispiace davvero… fate finta che non ci sia e perdonate la mia intrusione. Vi ha spiegato tutto? Quei maledetti documenti. A volte gli affari sono un autentico supplizio. In ogni caso, sto per partire per Lione ed è soltanto un saluto fugace. Quando ritornerà, Carol mi racconterà le vostre avventure».
Poi baciò me e Sally su entrambe le guance e abbracciò teneramente Carol. «Ci vediamo quando torni a casa, tesoro. Resterò a Lione al massimo un paio di giorni. Divertitevi».
Carol sorrise mentre lui lasciava la sala mandandole un bacio, poi, dopo una pausa, si alzò di scatto. «Datemi soltanto un minuto, ragazze», disse allontanandosi.
Sally e io non sapevamo cosa pensare mentre li sentivamo parlare nel corridoio. Carol disse che voleva tornare con lui perché non stava bene. Aveva un terribile mal di testa e non si sentiva a suo agio. Ned cercava di dissuaderla.
«No, no, no, Carol. Ne abbiamo parlato ieri notte. Andrà tutto bene. Sono venuto fin qui per darti una mano. Coraggio, tesoro. Non vedi mai le tue amiche inglesi e nemmeno tua madre. Ti farà bene stare un po’ con loro. Ti prego…».
Poi abbassarono le voci e riuscimmo a sentire soltanto Ned che le chiedeva se aveva preso le vitamine e se aveva mangiato. Era quello il vero problema?
Alla fine Carol rientrò nel ristorante e si scusò. Sembrava non si fosse resa conto che l’avevamo sentita e disse che aveva deciso di andare a Lione con Ned per aiutarlo a concludere la transazione. Aggiunse anche che era molto stanca e non se la sentiva di visitare la città.
«Oh, no! Devi proprio andarci, Carol? Pensavo che Ned avesse detto…».
«Perdonatemi. Lo faremo un’altra volta. Il conto è già pagato… non preoccupatevi. Devo andare subito a fare le valigie», disse, uscendo di corsa dal ristorante.
Dopo un paio di minuti, Ned tornò a sedersi al nostro tavolo, terreo in viso. Disse che Carol era salita a prendere le sue cose e che avrebbe fatto un ultimo tentativo per convincerla a restare. «Mi dispiace molto. È l’ultima cosa che volevo. Sono venuto apposta per evitare che interrompesse il suo viaggio. Se l’avessi saputo non l’avrei mai fatto…».
«Non preoccuparti, Ned. Non è colpa tua», dissi lanciando un’occhiata a Sally, che stava fissando la tovaglia.
Non era la prima volta che Carol ci lasciava all’improvviso, come se non riuscisse a stare troppo a lungo con noi. Mi ricordava un esperimento che avevamo fatto a scuola con i magneti. Orientati nel modo giusto, due magneti si attraggono, ma se avvicinate gli stessi poli, si respingeranno. Con Carol era lo stesso. Come se in teoria volesse vederci, ma in realtà non ci riuscisse. Soltanto Sally e io sapevamo il perché. Ci sentivamo in colpa per Ned, che non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo e sembrava sconcertato.
Per un po’ rimanemmo seduti in silenzio e poi Ned si sporse in avanti. «Carol vi è sembrata normale? In questi giorni ha mangiato?»
«Mangiato?», chiesi inarcando le sopracciglia.
Ned guardò verso la porta e poi scosse la testa. «Mi dispiace, non avrei dovuto parlarne. Dimenticate quello che ho detto e non fatene parola con lei. La verità è che non c’è nessun documento da firmare. Ieri mi ha telefonato dicendomi che aveva bisogno di una scusa per tornare a casa perché non stava bene. Sono venuto per cercare di convincerla a rimanere. Ho fatto del mio meglio. Ma lei è fuori di sé e sono molto preoccupato. Pensa che io esageri, ma mi chiedevo se voi due, che la conoscete così bene, avete notato qualcosa. Avete visto com’è magra?».
Non sapevo cosa dire, ma poi ricordai quando eravamo scese a colazione e lei ci aveva detto che aveva appena finito di mangiare. E poi quando Sal e io avevamo ordinato dei pasticcini e lei aveva detto che non aveva più fame perché aveva mangiato tutti i biscotti e la frutta in camera.
Un altro problema, un altro insidioso cambiamento di cui ero convinta fossimo segretamente colpevoli.