Capitolo 28
Beth – Adesso
Tutta la famiglia è sorpresa dalla facilità con cui mia madre si è adattata alle nostre vite. Adam sembra sollevato, adesso che può condividere con qualcun altro il peso della mia depressione.
E i ragazzi? All’inizio Sam ha brontolato perché non vuole che Harry dorma nella sua stanza, ma la cucina di mia madre li ha convinti. Tutta la casa è invasa dagli odori della mia infanzia: pudding di pane e burro, stufato del Lancashire. Tutt’a un tratto i ragazzi dicono che dopo tutto lo stufato non è poi così male.
La sera la tivù viene spenta e mia madre gioca a Scarabeo, Cluedo e Monopoly con loro, chiedendogli come hanno trascorso la giornata in un tono che scatena il miracolo della conversazione.
Guardo tutto ciò come se fossi dietro le quinte. Guardo Adam farsi la doccia, vestirsi e baciarmi ogni mattina, augurandomi di riuscire a superare la distanza che ci separa.
Ma guardo soprattutto mia madre. La guardo fare la spesa e infornare, rotolare la pasta sul grande tavolo della cucina con nuvole di farina che si sollevano nell’aria, come la nebbia che sta velando la mia vita.
All’inizio, mentre i ragazzi sono a scuola, fingo di fare ricerche per il programma di Stella, ma è inutile. Non riesco a concentrarmi e navigo nel cyberspazio cercando le ricette del pudding di pane e burro e dello stufato del Lancashire.
Alla fine, quando le mail e i messaggi di Stella passano dal sarcasmo alla rabbia, seguo di malavoglia il consiglio di mia madre e mi faccio fare un certificato dal medico. Nonostante il mio estraniamento, mi rendo conto che sarà un suicidio professionale. Sono già stata oggetto di pettegolezzi dopo la mia fuga dal set durante la registrazione di “Amicizie ritrovate”.
«Poverina, mi dispiace che stai così male». Il tono di Stella al telefono non è per nulla convincente. È una singolare ironia che la produttrice di un programma incentrato sui traumi personali si disinteressi totalmente del mio. Almeno mi pagano. Per un massimo di tre mesi lo stipendio pieno, poi sulla base del contratto freelance.
«Non preoccuparti di tutto questo, tesoro. L’unica cosa che conta è che tu stia bene», dice mia madre. E così, come una bambina, lascio che sia lei a scandire le mie giornate. Mi ricorda quando mangiare e quando lavarmi, e facciamo insieme i lavori domestici ascoltando commedie radiofoniche. In cucina lascio che mi insegni le cose che da adolescente mi rifiutavo di imparare e così vengo finalmente iniziata al mistero dello strutto.
I ragazzi si scambiano uno sguardo allarmato. Polpette?
«O le mangiate, o andate a letto», rispondiamo all’unisono mia madre e io. Poi lei mi guarda e mi fa un sorriso di incoraggiamento.
«Assaggiale almeno!», dico a Sam facendogli una smorfia. Lui sorride e fa girare una polpetta attorno al piatto, poi si tappa il naso e ne assaggia un pezzetto. Silenzio. Il che significa che gli piace, anche se ci vorrà un po’ prima che lo ammetta. Ricordo che lo faceva anche da piccolo, quando rubava il cibo dai piatti degli altri senza farsi vedere da me piuttosto che ammettere che gli piaceva qualcosa di nuovo quando gli chiedevo di assaggiarlo. Orgoglio. Diffidenza. Il mio piccolo Sam. Non dico niente, sorrido a mia madre evocando quel dolce ricordo.
E così ritorniamo a una gloriosa routine vecchio stile. Torta di mele fatta in casa il mercoledì sera. Stufato (tornato in auge grazie alle polpette) il giovedì. Pesce il venerdì. Gli odori domestici del mio passato.
Mia madre nel frattempo non mi chiede nulla. Nessuna domanda. Nessuna pressione. Non fino alla terza settimana della sua permanenza, quando comincio a farmi di nuovo la messa in piega e a usare un po’ di trucco.
«Mi sorprende che tu non abbia ancora sentito Sally», dice versandomi il tè da una grande teiera blu e bianca che ha preso da uno dei miei armadietti, disapprovando la mia abitudine di mettere le bustine direttamente nelle tazze. Lascio per un istante la domanda in sospeso e poi mi siedo di fronte a lei.
«È offesa con me, mamma».
«Oh, capisco». Mi avvicina la tazza e resta in attesa. Faceva così anche quando ero piccola. Se tornavo a casa da scuola scontrosa o di malumore, mi fissava in silenzio. Non mi chiedeva mai cosa c’era che non andava, mi porgeva una tazza di tè, apriva la scatola dei biscotti e aspettava che fossi io a dirglielo.
Sorseggio il tè pensando ai fiori che ho mandato a Sally per chiederle scusa dopo il barbecue, e ricordando la telefonata in cui mi aveva assicurato che tra di noi andava tutto bene, mentre chiaramente non è così.
Ricordo anche il giorno in cui ero andata di nascosto ai cottage di Sally per controllare come procedevano i lavori con la speranza di incontrare lei e Matthew. Sono sorpresa dalla velocità con cui procede la restaurazione. Le nuove coperture di paglia sono già state posate e su ogni tetto c’è un segnavento diverso: un fagiano, uno scoiattolo, un gufo e un coniglio.
«Volevamo rintracciare Carol per la festa di chiusura della scuola. Per me era diventata quasi un’ossessione».
Mia madre sorseggia il tè mentre mi chiedo quanto posso dirle.
«Abbiamo assunto un investigatore privato».
«Mio Dio! Perché mai avete fatto una cosa simile?». La sua reazione è la stessa di Adam, ma nemmeno a lei posso dire perché.
«Lo so che può sembrarti eccessivo, ma ti giuro che le mie intenzioni erano buone, mamma. E abbiamo trovato Deborah. Ti ricordi di lei? La madre di Carol».
Le racconto soltanto la parte della storia meno compromettente. La sala bingo. La rottura di Deborah con Carol, il suo alcolismo e la sua solitudine. La mia infantile gelosia di Sally e Matthew. Il diverbio al barbecue.
Per un lungo istante mia madre non dice niente. Poi versa un’altra tazza di tè e fa un lungo sospiro, come se avesse appena deciso qualcosa. «Quando eri piccola avevi allestito un ospedale per bambole, ricordi?».
Aggrotto la fronte, non ho idea di cosa stia parlando.
«Ci portavi i giocattoli dei tuoi amici e li riparavi», dice mescolando lo zucchero nel tè. «Inviteremo Deborah a stare da noi», propone. «Deborah mi è sempre piaciuta».
«Oh, no, no, no, mamma. Non verrà mai. L’ho offesa… ho fatto già abbastanza danni».
Ma mia madre tiene lo sguardo fisso davanti a sé. Ha già preso la sua decisione. «Non hai detto che si sente sola? Potrà sempre rifiutare l’invito. E io ti conosco, Beth. Se non facciamo qualcosa non ti libererai mai da questo senso di colpa o da qualsiasi altra cosa ti stia angustiando».
Le labbra mi tremano, il cuore accelera il battito. Mi sforzo di non riandare con il pensiero a quel giorno di tanto, tanto tempo fa quando stavo per telefonare alla mia adorata mamma.
Vorrei avere una macchina del tempo che mi impedisse di ricordare quello che era realmente successo e ritornare indietro per cambiare tutto. Fare la cosa giusta anziché quella sbagliata. Fare quella telefonata. Ho bisogno di te, mamma. Voglio tornare a casa…
Non è colpa sua se mia madre sottovaluta questa cosa.
«No, mamma. Credimi, è troppo tardi. È meglio lasciar perdere. Davvero».