Capitolo 26
Beth – Adesso
Non ricordo esattamente quanti giorni dopo il barbecue ho smesso di lavarmi. Forse due o tre.
È una cosa orribile da ammettere, così insolita per me. A scuola ero quasi ossessionata dalla pulizia, pagavo di nascosto le compagne perché mi cedessero il loro turno sotto la doccia.
«Beth è appena uscita dalla doccia», dicevano seguendo le mie orme di borotalco come impronte nella neve.
Ma adesso? In queste lunghe e vuote giornate, dopo essere stata scaricata da Carol al telefono, quegli strani messaggi minacciosi e la lite con Sal, lavarmi mi sembra uno sforzo troppo grande. A volte entro nel bagno con l’asciugamano già pronto, ma poi non riesco a trovare l’energia per fare gli ultimi passi fino alla doccia. Non ne vedo lo scopo.
Tutto il resto lo faccio come al solito, anche se un giorno i ragazzi mi hanno detto che avevo di nuovo messo bustine di tè nel loro cestino del pranzo. Al lavoro faccio abbastanza ricerche da impedire a Crudelia di preoccuparsi per me, ma fuori dalle riprese scoppio a piangere con il pretesto di un doloroso virus intestinale.
Mi rendo conto di quanto gravi sono diventate le mie condizioni solo quando Adam mi propone di accompagnarmi da un dottore. Lui odia i dottori.
Poi noto che si sta rifacendo il letto e capisco che la situazione deve essere molto seria. Crediamo nell’uguaglianza, ma dopo la nascita dei figli ci siamo in qualche modo suddivisi i compiti sulla base degli stereotipi di genere. E di solito Adam non rifà il letto, lui taglia la legna e porta fuori l’immondizia. Io invece cucino e faccio i letti.
Una sera, quando i ragazzi sono a casa di un amico, mi porta in bagno, dove ha acceso delle candele. C’è un forte profumo di vaniglia che emana dalle candele e dalla schiuma che sta quasi traboccando dalla vasca.
«Un bel bagno ti farà stare meglio, Beth».
Mi aiuta a spogliarmi, come se fossi una bambina, e io, troppo stanca per protestare, non dico niente. Poi sono seduta nella vasca e Adam mi sta strofinando la schiena con una spugna; all’inizio sento soltanto l’acqua deliziosamente calda che scorre sulla pelle e poi mi fa massaggi circolari con un sapone cremoso.
Chiudo gli occhi e cerco di esprimergli la mia gratitudine in una forma che lui possa capire, ma non ci riesco.
«Ricordi che un tempo parlavi sempre di andare in Cina, Beth?».
Aggrotto la fronte. «Sì». È vero e mi rendo conto che non ci penso più da anni. A scuola ero ossessionata dalle montagne. La cosa che desideravo di più al mondo era visitare Guilin con i suoi magici picchi.
«C’era un libro che desideravi tanto avere. Se ricordo bene era di un fotografo. Forse potremmo cercare di procurarcene una copia. Cominciare a mettere da parte un po’ di soldi e organizzare un viaggio speciale per i tuoi quarant’anni».
Sollevo lo sguardo su di lui. Ah. Allora è questo che pensa, che sto vivendo un momento difficile perché l’idea di invecchiare mi spaventa. Mi sento di nuovo in colpa, ma non posso dirglielo. Non è così, Adam. Non sono quella che credi. La moglie e la madre dei tuoi sogni…
«Qual era il posto che volevi vedere?».
Guardo la schiuma nella vasca e rispondo: «Guilin».
«Sì, quello».
Chiudo gli occhi e sento l’acqua che mi scorre lungo la schiena. Il libro era nella biblioteca della scuola e il fotografo si chiamava Hiroji Kubota. Era stata suor Veronica a indirizzarmi verso la sezione fotografica dopo che avevo letto tutti i libri di geografia.
L’immagine sulla copertina era straordinaria. Una mezza dozzina di uomini su piccole piroghe solcavano l’acqua alla luce di lanterne. Avevo sempre immaginato che stessero partendo per una battuta di pesca, ma non ero mai riuscita a capire se fosse un lago, un fiume o un estuario. Le luci delle lanterne si riflettevano sull’acqua e in lontananza si scorgeva una catena di montagne. Si ergevano come giganti, proteggendo in silenzio i pescatori nelle tenebre e incurvando i loro possenti dorsi come se gli stessero sorridendo.
«Non riuscirei mai a pronunciare i nomi».
«Scusa, tesoro?»
«Quelli dei luoghi nel libro. Mi piacerebbe tanto vederli, ma non potrei pronunciare i loro nomi».
«Dovremmo cominciare a mettere da parte i soldi».
«Forse».
Una lunga pausa.
«E dobbiamo andare a trovare tua madre, Beth». Ha sciacquato la spugna e sento di nuovo l’acqua scorrermi addosso, prima sulla spalla sinistra e poi sulla destra.
Buona idea, Adam. Buona idea.
«Che ne dici del prossimo weekend, tesoro?».
Cerco di ritrovare la voce, ma sembra che sia sprofondata nell’acqua e così mi limito ad annuire e lui mi fa un sorriso d’incoraggiamento.
Mi immergo ancora di più nella vasca e Adam mi raccomanda di non prendere freddo, indicandomi l’asciugamano bianco già pronto sul sedile del water.
Povero Adam. Non sa che ho già freddo. Ti prenderai un malanno, dice la voce di mia madre e io mi volto, confusa, verso la porta, dove Adam mi sorride con la bocca e si preoccupa con gli occhi.
Quattro giorni più tardi siamo a casa di mia madre, la quale annuncia con tutta calma a Adam che per un po’ verrà a stare da noi e, se non abbiamo nulla in contrario, approfitterà del fatto che siamo lì per chiederci un passaggio quando ce ne andremo.
Quando viene dal dottore con me, non ha peli sulla lingua. «Mia figlia è depressa. A quanto pare è da un po’ che va avanti. Non le era mai successo prima. È sempre stata una ragazza molto solare. Ma nessuno la stigmatizza per questo. Glielo dica, dottore. Può succedere a chiunque».
Il medico conferma che un periodo di depressione può capitare a tutti e chiede di restare solo con me. All’inizio mia madre è riluttante a uscire, ma riesco ad abbozzare un sorriso, che spero lei interpreti come un segno di sollievo, e quando è a distanza di sicurezza – nella sala d’attesa – scoppio in lacrime. Peggio ancora, mi metto a singhiozzare, sfogando tutta la colpa e la vergogna che ho accumulato negli anni. Di solito trovo umiliante piangere di fronte a un estraneo, ma non mi interessa cosa pensa il dottore.
Piango a lungo, accettando i fazzolettini che mi passa il dottore, e poi, quando finalmente riacquisto il controllo, cominciamo a parlare. Lui mi fa una serie di domande e le risposte che gli do allarmano anche me.
Mi chiede se ultimamente sono stata sotto stress. Se c’è stata una causa scatenante. So benissimo cosa mi ha fatto finire in questo stato, ma gli mento dicendogli che non ne ho idea.
Lui mi suggerisce di sottopormi al più presto a una terapia di conversazione, ma io non voglio e così alla fine, a malincuore, mi prescrive un farmaco spiegandomi che è blando e che non dà dipendenza. Una stampella temporanea, lo definisce, chiedendomi di rivedermi presto.
Quando torno a casa, mia madre si è installata nella cucina come se fosse la sua e io mi siedo a bere una tazza di tè guardandola affaccendarsi ai fornelli come facevo da piccola.
All’improvviso mi rendo conto che ogni volta che penso a mia madre la immagino in piedi. In piedi davanti al lavandino o ai fornelli, in piedi davanti al tavolo in attesa di sparecchiare. Anche quando ero al convitto e mi telefonava una volta alla settimana, sapevo che era in piedi davanti all’apparecchio in cucina e non seduta sul divano come mio padre.
Fa parte di una generazione di madri che non riescono a restare sedute troppo a lungo. Come se in qualche modo le svalutasse.
«Dov’è il colino, tesoro? Voglio preparare un tortino di pesce. Ho trovato del merluzzo nel congelatore».
La guardo mentre fruga negli armadietti e l’amore sconfinato che provo per lei mi spaventa, l’amore di una bambina indifesa che tende le braccia con le dita appiccicose.
Lei si accorge che la sto guardando e si volta. «Andrà tutto bene, Beth. Passerà, tesoro», dice fissandomi preoccupata.
Poi si siede davanti a me e mi prende le mani mentre io abbasso gli occhi sui segni circolari lasciati dalle tazze sul tavolo.
«Quando ho compiuto quarant’anni, ho lasciato tuo padre».
Questa dichiarazione – tanto scioccante quanto inaspettata – mi riporta subito al presente. «Hai lasciato papà? Cosa intendi dire… Quando?».
Mia madre prende tempo allacciandosi il grembiule che ha trovato nel ripostiglio, un grembiule che mi ero dimenticata di avere, con un motivo di grandi fragole su sfondo azzurro. «Quando tu e Michael eravate all’università, ho compiuto quarant’anni e mi sono chiesta che senso avesse la vita che facevo».
Continuo a fissare le fragole, frugando disperatamente negli schedari della mia mente per collocare questa storia nel cassetto giusto. Mi chiedo se si stia inventando tutto nel tentativo di farmi stare meglio, per enfatizzare la crisi di mezza età che lei e Adam pensano sia la causa del mio disagio. «Non ti capisco. Di cosa stai parlando, mamma?»
«Quelli della mia generazione hanno fatto figli quando erano molto più giovani. E la vita era molto diversa. Non esistevano ancora donne in carriera e non ci si affannava come oggi. Avevamo i nostri figli che ci tenevano impegnate e non lasciavano tempo per altro. E poi…». Fa una pausa e distoglie lo sguardo. «…e poi i figli crescevano».
Ora sta guardando fuori dalla finestra, dove il bucato che ha steso ad asciugare sbatte al vento. È una vista insolita, io uso sempre l’asciugatrice.
All’improvviso la immagino mentre lava i panni nella bacinella con le dita arrossate dall’acqua. La sua maternità era stata molto diversa dalla mia.
«Quando ve ne siete andati tutti e due di casa sono stata peggio di quando eravate in collegio. Ho cominciato a dormire nei vostri letti e poi sono diventata un po’ maniaca. Pulivo la casa in continuazione. C’era sempre odore di candeggina, ma nulla mi sembrava mai abbastanza pulito e tuo padre cercava in tutti i modi di convincermi a restare un po’ ferma».
Potevo sentire la sua voce. Siediti, amore. Perché non stai un po’ ferma…
«E così l’ho lasciato di nuovo. Sono andata da tua zia Eve e non avevo alcuna intenzione di tornare da lui».
«Perché non me l’hai mai detto, mamma? Cristo! Io non ne sapevo nulla. Sarei tornata a casa dall’università».
«È proprio per questo che non te l’ho detto. Non volevo che tu tornassi a casa. Sono rimasta qualche settimana da Eve e poi lei mi ha portata dal dottore. All’epoca prescrivevano il Valium. Per fortuna mi dava la nausea e ho smesso di prenderlo, mentre molte altre donne ne sono rimaste dipendenti. Comunque, dopo un po’ mi è sembrato di stare meglio».
«E papà? Come ha fatto lui nel frattempo?»
«Oh, se l’è cavata anche senza di me. Ha vissuto di fish and chips. Gli sono mancata, certo, ma alla fine sono convinta che abbia fatto bene a tutti e due».
All’improvviso qualcosa mi riecheggia nella mente.
«Hai detto che l’hai lasciato di nuovo. L’avevi già fatto prima?».
Faccio una pausa e guardo ancora una volta la biancheria che sbatte al vento. Povero papà. Deve essersi sentito perso senza di lei. Quanto mi manca! Il suo dopobarba dozzinale. Vuoi una mentina, Beth? Riesco a vedere il pacchetto di Polo nel taschino della sua camicia, il modo in cui toglieva la stagnola formando una spirale perfetta, come faceva con le bucce delle mele.
«Quando voi eravate piccoli c’è stata qualche difficoltà».
«Difficoltà?»
«Tuo padre aveva perso la testa per una ragazza al lavoro».
«Stai scherzando?». Sono davvero sconvolta. Non avrei mai immaginato che mio padre potesse esserle infedele…
«Siamo rimasti separati per un mese e poi ha capito di avere commesso un errore». Fa una pausa mentre cerco di riprendermi dalla sorpresa. I miei genitori si sono separati due volte e io non lo sapevo.
«Il matrimonio può essere difficile, Beth. Non sono tutte rose e fiori».
D’un tratto capisco che pensa ci sia qualcosa che non va tra me e Adam. «Non è come pensi, mamma. Tra me e Adam va tutto bene. E non mi dispiace affatto avere quarant’anni». Non posso dirle che cosa non va, che non sono la figlia che lei pensa io sia.
«Ti sto solo dicendo che adesso sono qui e che andrà tutto bene, tesoro», dice lei lisciandomi i capelli.
Le prendo di nuovo la mano e la stringo per ringraziarla. Non so cosa mi abbia scioccata di più: il fatto che la mia sorridente e ottimistica madre si sia sentita così, oppure che abbia aspettato vent’anni per dirmelo.